Come non scrivere best seller

 

"Il segreto fondamentale degli scrittori di best seller è di non essere mai spiritualmente o linguisticamente superiori ai loro lettori. La superiorità deve essere soltanto culturale ma guai a far sentire al lettore il peso di una profondità che non gli appartiene." Così scriveva qualche tempo fa Sandra Petrignani in un articolo pubblicato sul settimanale Panorama . La mancanza di una filosofia è la legge numero uno del best seller che deve solamente dire meglio quello che il lettore già sa, non fargli balenare un altrove inquietante, un orizzonte di possibilità spirituali sconcertanti. Dispiacerà a qualche editore che si vorrebbe trovare tra le mani il libro fortunato che venderà  come gli incubi Kinghiani o le "agrodolci banalità" che quotidianamente leggiamo. E anche a qualche autore a cui in fondo gli incassi, il successo, la libertà delle pastoie del quotidiano non disturberebbero affatto. Però, se è vera, e  credo lo sia, quest'osservazione, lo scotto da pagare è molto alto. L'arte che cosa è se non la capacità di scombinare logiche scontate, di togliere  facili certezze, di offrire una visione del reale ancora inedita? Da parte del pubblico invece si chiedono solo rassicurazioni, riconferme, déja vu. Astuti i mass media rispondono a queste richieste. Abili giocolieri sorridono , danno una pacca sulla spalla a qualche idiota,  sorrisi a tutti e qualche attimo di protagonismo. Così si gioca l'equivoco amplesso, che genera mediocrità e ammorba i nostri giorni , tra il pubblico  e gli abili disonesti conduttori di più o meno squallidi programmi.

     Ma in questa società, dove ciò che conta è il numero, al pensiero di una élite che posto può essere riservato? Che peso può avere? Irrilevante. Pericoloso. Tra questi due poli di giudizio oscilla l'atteggiamento della nostra società nell'arco di quest'ultimo secolo nei confronti dell'intellettuale. Pericoloso: era giudicato soprattutto all'inizio del secolo quando l'individualismo trionfava in campo culturale e l'intellettuale si sentiva fortemente avverso a una società che stava precipitando verso la massificazione che abbiamo sotto gli occhi. E così nascevano provocazioni raffinate o grossolane, plateali talvolta come gli eccessi dell'avanguardia.

     Ma, scivolando tra le maglie dei decenni del nostro secolo, tra ecatombi di massa, devastazioni, miopie culturali e ambientali, troviamo sempre più raramente un intellettuale che nelle sue opere metta profondamente in crisi la società in cui vive. Oggi le figure più rappresentative sono l'intellettuale integrato, lo scrittore di best seller appunto, oppure l'intellettuale che si sente inutile, che sente inconsistente il suo stesso operare. Non gli è dato spazio, o gli è dato uno spazio irrilevante nel gioco complesso della tentacolare realtà di interessi, realtà produttive, fibrillazioni borsistiche, giochi di potere.

     L'intellettuale dei nostri giorni o viene a patti con la società dei consumi, si  adegua,  cerca di trarre il maggior profitto sfornando prodotti innocui e accattivanti oppure ha la sensazione di gridare nel deserto. Certo, l'humus da cui poteva germogliare un pubblico capace di riconoscersi in un pensiero non strettamente massificato viene quotidianamente compromesso. L'intellettuale dovrebbe essere la coscienza critica della società non assecondarne i desideri del pubblico ma sferzarlo, indurlo alla riflessione, costringerlo a meditare sull'esistenza.

     E' giustissimo, ma è di gran lunga più facile ( e troppi intellettuali lo fanno )  venire incontro alle  generazioni che avanzano  con sempre maggior voglia di appigli sicuri, di facili punti di riferimento, scegliendo le strade più scontate, le banalità più evidenti, adeguandosi per vender meglio se stessi, abolendo i picchi e le individualità troppo accese.

     Enorme è stata in questi ultimi decenni la potenza dei mass media, la loro capacità  di produrre appiattimento  e omologazione. E uccidere l'arte che con il suo volare troppo alto costituisce sempre un pericolo, relegando la cultura in  "nicchie di tolleranza , in territori innocui, in lager" , cercando di esorcizzarla e di inculcare al pubblico l'idea che la cultura è qualche cosa di superfluo, un prodotto ozioso, subordinato ai beni di consumo.

     E' riuscita la nostra società, come poche, credo come nessun'altra, a neutralizzare il pericolo che il pensiero può rappresentare. Dare all'intellettuale uno spazio minimo, circondarlo di volgarità, appiattire il tutto e servire freddo contornato da battutine che screditino il senso del messaggio.  Per palati allergici alla raffinatezza. Ma l'arte è raffinatezza. E' qualche cosa che va al di là del senso della parola comune.  Ha in sè una forza di eversione, una potenza demistificante. E pericolosa. Per neutralizzarla hanno agito sul pubblico, abituandolo giorno dopo giorno a spettacoli mediocri, in cui la scena non dice nulla di più di quello che rappresenta e i personaggi sono maschere grossolane, caricature della vita. La fantasia ne è appagata, la mente si abitua a poco a poco. L'arte diventa sempre di più un fatto elitario , ininfluente sulla realtà. Un problema non troppo preoccupante.

 

 Marina Tevini

Pubblicato sulla rivista ZETA NEWS n.41 – 42

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