BREVE DISCORSO SULLA PENA CAPITALE

 

Un tempo ero un uomo come un altro, ma ora sono prigioniero. Il mio corpo è in ceppi in una cella, la mia mente è prigioniera in un’idea. Un’orribile, una sanguinosa, un’implacabile idea! Non ho ormai che un pensiero, una convinzione, una certezza: condannato a morte! ’

 

Sono alcune frasi iniziali del bellissimo e agghiacciante Ultimo giorno di un condannato a morte, di Victor Hugo. L’incipit “Condannato a morte!” risuona quasi a intervalli regolari lungo tutto il racconto, scandisce l’angosciosa e dolorosissima attesa di un uomo che sta per essere privato del suo unico bene, la sua stessa vita, e segna il ritmo ossessivo e martellante degli ultimi pensieri di una mente incredula e atterrita.

Hugo scrisse questo romanzo all’età di ventisette anni, nell’ultimo anno della monarchia dei Borboni. E’ una sorta di lucidissima e appassionata perorazione a favore dell’abolizione della pena di morte, in un contesto sociale ostile verso qualsiasi indulgenzialismo.

La grandezza dell’autore francese è nella scelta del mezzo con cui lanciare il suo messaggio. Egli non ha scritto un saggio tecnico-giuridico o filosofico; si è limitato a far parlare un uomo, un protagonista. Si è affidato alle sue emozioni, alle sue debolezze, e ne ha ricavato una desolante sensazione di ingiustizia. Se non è giusto, se è un peccato senza eguali l’assassinio di un uomo, perché permettere che l’ingiustizia si faccia legalità? Se dire a un uomo ‘domattina tu morirai’ rappresenta il gesto più orribile che si possa compiere, perché sopportare che qualcuno lo dica in nome del ‘popolo sovrano’? Ed è proprio qui la grandezza di Victor Hugo. Egli ci dice che l’ingiustizia della pena capitale è in re ipsa, proprio come l’ingiustizia dell’assassinio non ha bisogno di spiegazioni.

 

1) Un approccio storico: l’uso della pena di morte.

Ma naturalmente è nelle abitudini dell’uomo razionale suffragare le proprie tesi con argomenti scientifici, o in qualche modo logici e convincenti. Il primo argomento che si potrebbe utilizzare è quello di natura storica. Si potrebbe dire, più o meno pretenziosamente, che il ricorso alle pene corporali è divenuto sempre più infrequente a misura che il mondo si è evoluto. Ciò in parte è vero, ma non fino al punto di poter considerare la stessa pena di morte come un ricordo di epoche lontane.

Nel mondo antico si conoscono casi addirittura ai limiti del grottesco di leggi inclini alla punizione fisica. Il famigerato codice di Hammurabi, in vigore presso gli Assiri-Babilonesi, è uno di questi. Oltre alla pena di morte erano previste torture e mutilazioni di ogni tipo, perfino per reati che ai nostri occhi sembrano poco più che patetiche marachelle. Anche nell’antica Grecia e nell’impero Romano la pena di morte non solo era ben presente, ma appariva in verità piuttosto prosaica rispetto a certe efferatezze previste dalla legge. Qualche esempio di esecuzione passata alla storia? Il filosofo Socrate fu condanato a bere la cicuta, un veleno potentissimo, per mere ragioni ideologiche; Gesù di Nazareth fu flagellato e successivamente crocefisso perché le sue predicazioni erano considerate scomode e blasfeme. Con la dissoluzione dell’Impero e l’inizio del Medio Evo le cose non migliorarono molto. Il riconoscimento dei diritti dell’uomo e la loro difesa non apparteneva alle principali preoccupazioni dei governanti; né, d’altra parte, l’uomo della strada possedeva i mezzi culturali adatti a riconoscere la propria dignità di fronte al diritto assoluto del sovrano. Potremmo dire che non esisteva un principio certo di giustizia, garanzie di imparzialità, umanità nei trattamenti punitivi. Le carceri erano inferni senza ritorno, i carcerati esseri senza diritti dimenticati da tutti. Il più delle volte le leggi corrispondevano ai capricci dei signori e servivano soltanto ad assecondare la loro supremazia nei confronti dei servi della gleba (basti pensare allo jus primae noctis: una prerogativa di certi feudatari, i quali pretendevano che le donne che si sposavano nel feudo passassero con loro la prima notte di nozze). In questo periodo Giovanna d’Arco fu messa al rogo per le sue lotte contro la dominazione straniera, mentre l’eroe indipendentista scozzese William Wallace fu torturato e ucciso in pubblica piazza per ordine del sovrano d’Inghilterra Edoardo I. Lo stesso cristianesimo non ha contribuito granché alla formazione di una giustizia franca e umana. Prova ne è stata la Santa Inquisizione, frutto di una visione fondamentalista e reazionaria della religione, la quale ha avuto l’ulteriore demerito di avviare una devastante crociata contro i movimenti eretici e di utilizzare canoni di giudizio oscuri, indecifrabili e irrazionali, specie nell’assurdità della caccia alle streghe. Con la nascita degli stati nazionali e la formulazione delle prime teorie sullo stato di diritto, finalmente il ruolo del sovrano comincia a limitarsi e a svolgersi in funzione degli interessi del popolo. Il potere legislativo e quello giudiziario cessano di appartenere al re ( o soltanto al re ), gli stessi funzionari di stato vengono assoggettati ad una legge generale e certa. La Rivoluzione Francese contribuirà ad accelerare questo processo, con la creazione di grandi assemblee popolari e l’introduzione del concetto di uguaglianza nell’organizzazione dello stato. Non si può dire che le ingiustizie siano cessate d’un colpo, ma almeno si è sviluppata una sensibilità tutta nuova verso i diritti inviolabili e indisponibili di ogni uomo.

Infine, la storia di questo secolo ci insegna purtoppo che la acquisita consapevolezza dell’immenso valore della persona umana a volte non impedisce il ripetersi di abusi ai suoi danni. Non si possono dimenticare le deportazioni e le esecuzioni di massa avvenute durante la Seconda Guerra Mondiale, o le efferatezze compiute sotto i regimi comunisti nella Russia di Stalin o nella Cina di Mao. Anche oggi, in moltissime parti del mondo l’individuo è oggetto di mille violenze, spesso in nome di un’idea, una religione, un’autorità oppressiva e totalizzante. Dunque, l’approccio storico non è decisivo, di per sé, a dimostrare la sconfitta dell’inflizione della morte né come metodo di lotta politica né come mezzo punitivo.

 

2) Un approccio tecnico: lo scopo della pena.

L’elaborazione di un pensiero ‘revisionista’ sulla pena capitale avviene dopo la creazione dei grandi stati nazionali. Il passo più significativo in questa direzione, almeno nell’ambito dell’Illuminismo italiano, è il saggio di Cesare Beccaria ‘Dei Delitti e delle Pene’, in cui per la prima volta si evidenzia il rapporto tra la finalità della pena e l’inflizione della morte. Beccaria non solo getta luce sull’inutilità e l’assurdità di questa pena sotto il profilo etico  ( “... le strida di un infelice richiamano forse dal tempo, che non retrocede, le azioni già consumate? ), ma rivela l’incongruenza fra lo scopo attribuito alle pene e l’uccisione del reo.

Ma qual’è lo ‘scopo della pena’? E’ proprio questo il punto. Visto che la storia non ha dimostrato la sconfitta della pena di morte ( come detto ancora oggi è presente in moltissimi stati, perfino nei ‘civilissimi’ Stati Uniti’) è necessario ricorrere all’argomento tecnico, facendo tesoro dell’evoluzione intrapresa dagli illuministi. I manuali di diritto penale indicano di solito tre funzioni di base attribuibili alla pena: 1) Prevenzione generale: la pena inflitta al singolo cittadino serve a dissuadere la generalità degli altri cittadini dal commettere reati; 2) Prevenzione speciale: la pena inflitta al singolo opera come ‘deterrente futuro’, impedendogli di ripetere il comportamento delittuoso; 3) Retribuzione: la pena si manifesta come ‘reazione sociale’ di intensità proporzionata alla gravità del reato commesso dal singolo. Gli scopi 1) e 3)  sono da tempo oggetto di critiche aspre. Entrambi pongono il singolo individuo in una posizione di solitudine rispetto alla società e allo Stato, che risulta quasi padrone del destino della persona. Infliggere una pena solo per dissuadere gli altri individui dal delinquere significa sostanzialmente strumentalizzare il singolo per fini generali, cosa palesemente ingiusta. D’altra parte, affidare alla pena il compito di ‘reazione sociale’ vuol dire abbandonarla a bisogni emotivi di punizione irrazionali e contingenti, sottoporla alle spinte incontrollabili di un mondo i cui valori sono spesso caotici, mutevoli e perfino contrastanti. Si dimentica in entrambi i casi che la pena deve essere uno strumento razionale capace di incidere positivamente anche sul singolo individuo, e che la stessa società non è completamente immune da responsabilità verso i comportamenti aberranti del reo. Ecco perché la Prevenzione generale e la Retribuzione ( nelle cui ottiche la pena di morte potrebbe avere un ruolo significativo ) hanno perso l’originaria valenza di scopi attribuibili al diritto penale. Senza addentrarsi nei meandri di un dibattito piuttosto complesso, si può dire che l’unico valore di Prevenzione generale che può avere la pena è di puro e semplice orientamento culturale: la stessa esistenza di reati sanzionati con pene funge da ‘ammonimento’ sui comportamenti consentiti e non. In qualche modo anche la Retribuzione può essere riammessa in discorso, a patto di intenderla nel senso di ‘Proporzione’: vale a dire che la commisurazione della pena detentiva deve essere proporzionata anche alla gravità del reato; in questo senso la ‘Retribuzione- Proporzione’ diventa un utile strumento nelle mani del giudice per adattare la pena al singolo caso, individuando il giusto periodo di detenzione nei limiti stabiliti dalla legge.

 

Ma comunque, più adatto a un diritto penale moderno e evoluto è uno scopo di Prevenzione speciale, che punta ad impedire che chi si è già reso responsabile di un reato torni a delinquere anche in futuro. Un primo passo in questo senso è la neutralizzazione ( il delinquente viene incarcerato o interdetto, in modo da neutralizzare i suoi comportamenti pericolosi ); il secondo, e decisivo passo, è la risocializzazione.

 

Abbiamo così centrato il cuore del problema. Il fine ultimo della pena è la risocializzazione. La Costituzione italiana opera a questo riguardo una scelta nettissima, all’art. 27 comma 3: “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato.”

E dunque si vede come, rispetto a una tale presa di posizione, la pena di morte non possa avere alcuno spazio. Infatti il quarto comma dello stesso articolo aggiunge finalmente: “Non è ammessa la pena di morte, se non nei casi previsti dalle leggi militari di guerra.” La scelta di civiltà compiuta dalla Costituzione del 1948 è stata completata nel 1994, con l’eliminazione della pena di morte perfino dalle leggi militari di guerra.

 

Basterà questa argomentazione logico-giuridica a esorcizzare i fantasmi delle credenze, popolari e non, sull’indispensabilità della pena capitale come strumento di conservazione della società? Evidentemente no, visto che non molto tempo addietro è stata addirittura presentata una proposta di legge costituzionale di modifica dell’art. 27 Cost., volta appunto a reintrodurre la pena di morte. Evidentemente no, visto che questo metodo punitivo è ancora presente in tantissime parti del mondo. Eppure anche dal punto di vista pratico, contrariamente all’opinione comune, esso si è dimostrato uno strumento inefficace di controllo della criminalità. Negli Stati Uniti, ad esempio, laddove esiste la pena di morte il numero annuale di omicidi non è certamente calato; anzi, complesse indagini empiriche hanno dimostrato che essa non opera affatto come controspinta psicologica alla commissione di gravi reati.

Ciò nonostante la maggioranza degli americani continua ad essere favorevole al barbaro sistema. I penitenziari di massima sicurezza ospitano uomini e donne che aspettano di finire i propri giorni in modo ‘pulito e raffinato’, mediante iniezioni, o camere riempite di gas letali ma assolutamente indolori. Alcuni attendono quel momento per anni; eppure utilitaristicamente la pena deve essere pronta e certa: “Quanto più la pena sarà più pronta e più vicina a delitto commesso, ella sarà tanto più giusta e utile... uno dei più grandi freni dei delitti non è la crudeltà delle pene, bensì la inflessibilità di esse... la certezza di un castigo, benché moderato, farà sempre una maggiore impressione che non il timore di un altro più temibile, con la speranza dell’immunità.” (Cesare Beccaria). Frattanto si tenta ogni strada per aver salva la vita, sperando nella commutazione nell’ergastolo (“per gli individui liberi l’ergastolo è un incubo. Per noi è un sogno”, un detenuto) o in una grazia. Ma succede di rado, e ogni anno un certo numero di persone viene giustiziato. Alcune di esse, magari a distanza di pochi mesi, vengono riconosciute innocenti; ma è troppo tardi. E questa è una delle principali aberrazioni della pena capitale: l’impossibilità di porvi rimedio. Lo stato si fa assassino, pratica la legge del taglione; ma se è in torto, come può ripagare lo sbaglio?

 

Epilogo: perché si uccide per fare giustizia?

Ma allora, qual’è il senso della pena di morte? Tralasciando i paesi fondamentalisti o autoritari, dove la pena capitale è un mezzo di conservazione del potere (non a caso viene usata per lo più contro gli oppositori del regime), essa è presente in paesi come gli Stati Uniti perché, nonostante tutto ( e come già accennato ), la vogliono gli americani stessi. Prevale l’impulso emotivo sulla logica. Si spinge all’estremo l’ipotesi sociologica (ad esempio, il criminale efferato che uccide una bambina) e ci si abbandona alla semplice repulsione, bandendo ogni ulteriore argomento. E’ un metodo semplice, ma più adatto a un mondo senza ragione, senza sensibilità. Certo, in una società caratterizzata da forti spinte delinquenziali è facile ricorrere a rimedi sempre più drastici; e d’altra parte non manca una certa connotazione moraleggiante, di stampo vetero-cattolico (l’individuo che compie il Male deve essere ripagato con una dose identica di Male; concezione, si noti, tipicamente Retribuzionista). Ma in questo modo si smarrisce una verità universalmente nota, sancita dalle più solenni Convenzioni internazionali: anche l’ultimo degli individui ha una dignità che non può essere in alcun modo violata, calpestata, distrutta. E lo Stato non ha più diritti dell’assassino, che uccide nella disapprovazione sociale.

 

Questi, sostanzialmente, gli elementi del grande dibattito sulla pena di morte. Un dibattito sempre più articolato, che si accompagna ad argomentazioni di tipo religioso, criminologico, politico, oltre che filosofici e morali. Da anni tantissimi movimenti umanitari combattono questa grande battaglia (su tutti Amnesty Internetional), e lo stesso fanno giuristi e intellettuali di tutto il mondo, evidenziando l’assurdità di un metodo punitivo selvaggio, sconcio, scandaloso. Oltre alla letteratura, anche il cinema ha affrontato il tema. Lo scorso anno, proprio negli Stati Uniti, l’attore-regista Tim Robbins ha firmato ‘Dead Man Walking’, analizzando l’assurdo rituale che accompagna gli ultimi brandelli di vita di un condannato. Anche se il film ha scioccato l’america (specie per la spietata ricostruzione psicologica dei personaggi), le posizioni della maggioranza dei cittadini statunitensi in merito alla pena capitale non sono mutate granché.

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Per finire, torniamo al punto di partenza. Al personaggio del romanzo di Hugo. Un uomo condannato a morte. I suoi pensieri sono disperati, semplici, pieni di una debolezza tutta umana. Chiunque di noi potrebbe identificarsi in lui. Perché parla proprio come parleremmo noi. Pensa proprio come penseremmo noi. Aspetta che qualcuno venga a prelevarlo nella sua cella. Si aggrappa a speranze vaghe, consapevolmente inutili. A ricordi confusi. Fuori c’è l’oscenità abominevole di una folla che attende urlante lo spettacolo. Fuori c’è un patibolo che attende nell’alba.

 

Stefano Santarsiere

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