CONTRADDIZIONE DELL'"IO" E DEL "SE" PER UN ARTE MAGGIORE

di Reno Bromuro

 

 

     Da Cartesio in poi, la coscienza è stata considerata il carattere che distingue i fenomeni dello spirito dalle altre manifestazioni dell'esistenza umana; prima, come sappiamo, vita spirituale e coscienza si confondevano.

Alla vita della coscienza e alla sua evoluzione erano assegnati come elementi principali l'intelletto e la volontà. Ancora oggi siamo, il più delle volte, convinti che le cose sono rimaste press'a poco così.

Negli ultimi anni Freud, Jung e Adler ci hanno proposto una rappresentazione diversa, secondo cui ci sarebbero delle domande ben differenti dalle facoltà razionali d'intelletto e di volontà.

In tal modo la psicologia del profondo faceva cadere dal loro piedistallo sia l'immagine dell'uomo regale modellato dal Rinascimento, sia l'idolo dell'uomo razionale dell'Illuminismo. Oggi non si è lontani dal condividere l'opinione, anche se un po’ esagerata di Lacretelle, il quale, nella prefazione alla traduzione francese di Emily Bronté, afferma che "Ogni essere umano è un pazzo che sta all'erta ".

Tutti, per esempio, siamo diventati più diffidenti e scettici di fronte alle manifestazioni psichiche di ogni specie. Certe forme di pietà, di pretesa santità, di umiltà e di dedizione, una volta oggetto di ammirazione, sono accolte con riserva e diffidenza.

Soprattutto è il quadro psicologico dell'uomo dipinto dalla letteratura contemporanea che ha posto il sigillo di queste nuove concezioni. Ed è questo tipo di letteratura che ha contribuito soprattutto a volgarizzare la nuova concezione dell'uomo. In questo caso siamo ben lontani dalle trasparenti e ordinate passioni di Racine.

Il "Fatum" delle tragedie antiche (potenza misteriosa e tragica che guidava l'uomo dall'esterno) è divenuta una forza interiore dell'individuo.

Ma ora, per ciò che a noi interessa, non ci rimane che esaminare come è nata la dottrina dell'inconscio e di come la sua conoscenza è vitale nella vita di un artista.

La nozione dell'inconscio era molto nota e alla filosofia e alla letteratura. Carus contemporaneo e amico di Goethe affermava che la chiave della "Psiche " deve essere cercata nell'inconscio.

Questa constatazione suggerì a Charcot e più tardi a Janet, suo allievo, l'idea della doppia coscienza e della dissociazione della personalità.

La teoria sullo sdoppiamento della personalità sta alla base della concezione delle due zone: il cosciente e I’inconscio. Il risultato è che gli oggetti di una tendenza sono respinti fuori del campo della coscienza; e così questi contenuti divengono incoscienti e formano l'altro genere che chiamiamo inconscio.

L'Artista non sfugge a queste leggi, anzi, essendo sensibilissimo, avverte il flusso dell'inconscio sul conscio e lo capta, divulgandolo. In tale condotta, l'atteggiamento dell'artista consiste nell'escludere il più possibile ogni controllo riflesso, lasciandosi guidare dal "dettato" dell'inconscio, liberandosi così del sopravvento del "Sé".

Queste funzioni provocano l'esteriorizzazione delle emozioni che lo avevano assalito, perché le emozioni, costituiscono elementi psichici reali di cui la personalità cosciente e morale dell'artista non sono responsabile, poiché sono nate in lui conforme alle leggi naturali della fantasia.

Nella vita sociale ordinaria, l'artista, di fronte a questi contenuti assume un atteggiamento di controllo e di dominio, ma solo dopo aver completato l'opera, facendo astrazione dalle intenzioni personali; si tratta quindi di una condotta di carattere tecnico, ossia di un trattamento dell'artista. Egli in primo luogo deve fare qualcosa che riguarda la sua personalità, e cioè deve allentare i freni e lasciar produrre una scarica liberatrice di vari sentimenti; sentimenti esistenti in lui. Questa scarica tecnicamente organizzata, in cui le emozioni subiscono vari cambiamenti conforme alle leggi naturali, provoca in lui atteggiamenti molto sentiti e quindi costituisce un processo che esteriorizza il suo sentire emozionale. Tale processo comporta nell'artista la reviviscenza di certi atteggiamenti del "Fanciullino ". Un trattamento che costituisce formalmente un'auto-catarsi, può consistere in un'espressione di avversione o di amore verso la sua opera. Tale processo tuttavia non ha potuto svolgersi che in seguito al fatto che l’ “IO” cosciente, che esercita il controllo all'inizio dell'opera, ha accettato di ritirarsi in secondo piano.

In molti artisti che si sentono responsabili delle espressioni dei loro sentimenti, si manifesta una grande inibizione morale nella reazione liberatrice. Infatti, la conoscenza sensitiva e la conoscenza intellettuale, sono importanti e svolgono una parte di primo piano nella condotta dell'artista e nella sua motivazione. In questo modo nasce in lui "la contraddizione dell’IO e del "SE"' in quanto viene a trovarsi a descrivere come si manifesta l'ispirazione nelle sue manifestazioni emozionali: affettive, intellettuali, volitive; deve inoltre determinare come si manifesta, si caratterizza e si differenzia la personalità, per l'influenza dell’io profondo. Ossia deve analizzare i fenomeni organici che sono intimamente legati con tutto il complesso delle attività psichiche che nella vita reale trovano il loro fondamento.

Questo fenomeno si realizza soprattutto nel settore della creatività artistica e, in genere, nel desiderio di avere lo spirito adatto nella "limatura" dell'opera nata, e provare così godimento. In questo caso l'artista teso da due forze opposte, l'IO e il SE', perde ogni stabilità psichica. Tale situazione fa sorgere contraddizioni intime e tensione. E' questo il motivo per cui la nostra epoca costituisce un terreno fecondo di perturbazioni psichiche più che in epoche passate.

In Torquato Tasso troviamo il tipico esempio di manifestazioni contraddittorie dell'io e del SE' fino alla paranoia e, infine, alla pazzia.

Prendiamo ad esempio due artisti del Rinascimento italiano Torquato Tasso e Ludovico Ariosto.

L'opera che mette in luce la continua contraddizione del Tasso è, senza dubbio, la "Gerusalemme Liberata", ma preferiamo parlare dei sonetti: "Negli anni acerbi tuoi purpurea rosa" e "Mirar due meste luci in dentro ascose".

Il sonetto che meglio traduce il sentimento di Tasso, vivo e reale verso la natura, il suo istintivo bisogno di confondere l'esistenza individuale con la vita universale è dedicato e diretto alla duchessa di Urbino, Lucrezia:

 

"Negli anni acerbi tuoi purpurea rosa ".

 

Negli anni acerbi tuoi purpurea rosa

sembravi tu, c'ha i rai tepidi, a l'ora

non apre ‘l sen, ma nel suo verde ancora

verginella s’asconde e vergognosa;

 

O più tosto parei, che mortai cosa

non s'assomiglia a te, celeste aurora

che la campagna imperla e i monti indora

lucida in del sereno e rugiadosa.

 

Or la men verde età nulla a te toglie;

ne te, benché negletta, in manto adorno

giovinetta beltà vince o pareggia.

 

Così più vago è 'I fìor poi che le foglie

spiega odorate, e ‘l sol nel mezzo giorno

via più che nel mattin luce fiammeggia. "

 

E' lampante la contraddizione nel paragone che fa della duchessa con due immagini, una più vaga dell'altra: la rosa e l'aurora; entrambe indefinite, ma che ritraggono il sentimento del poeta.

La poesia non ha un contenuto, se lo si volesse ad ogni costo verrebbe ad annullarsi il fascino che essa emana. Che cosa ha voluto lodare in Lucrezia il Poeta? Avrebbe voluto dire della modestia di Lucrezia, della sua bellezza, della superiorità alle altre donne, forse altro ancora, ma I’ "IO" ha ceduto alla

superiorità del "SE’ ", in questo caso alla razionalità, ma l'opera ha acquistato una tale profondità, una complessità, e una potenza nella forma simbolica.

Ogni lettore le può dare un contenuto speciale, perché il poeta è pago della battaglia sostenuta con l"IO" se riesce a commuovere e dilettare, per l'arte e la bellezza.

Come si è potuto notare, tutto ciò rivela un'anima di fanciullo che si commuove dinanzi alle seduzioni della bellezza. Nella lotta continua fra I'I0" e il "SE"' freddo, razionale, estetico e naturale, la poesia di Tasso è un po’ come la rosa che non si apre al venticello del mattino, ma poesia che quasi si nasconde vergognosa e non appare nella sua vera luce. In questo caso è l'intelletto geniale che permette al "SE"' di guidare l'"IO" emozionale della creazione dell'opera, freddamente e con distacco, tipico del Genio.

Nella varietà dell'immaginazione fantastica del Poeta l'aurora, che gli antichi avevano fatto dea, dai cui occhi stillavano gocce di rugiada in liquide perle, lo sospinge a rivedere il sonetto che risulta un po’ modificato:

"Già solevi parer vermiglia rosa

ch 'a ' raggi, al sospirar de l'ora.

Rinchiude il grembo e nel suo verde ancora

verginella s'asconde e vergognosa;

 

O mi sembravi pur, che mortal cosa

non assomiglia a te, celeste aurora

che le campagne imperla e i monti indora

lucida in del sereno e rugiadosa.

 

Ma nulla a te l'età men fresca or toglie;

ne beltà giovanile in manto adorno

vince la tua negletta o la pareggia.

 

Così più vago l'odorate foglie

il fìor dispiega e 'I sol a mezzo il giorno

via più che nel mattino arde e fiammeggia. "

 

Notiamo che le varianti sono pochissime nei confronti della precedente redazione. Ma soffermiamoci un attimo per mettere in luce e richiamare l'attenzione sul particolare del secondo verso: "al sospirar de l'ora" perché si capisca meglio come Torquato ricerchi le affinità segrete che legano noi alle cose e viceversa.

Ad esempio, il venticello mattutino innamorato della rosa, desideroso di farle aprire la corolla; il mormorio che produce il suo passare, è un sospiro di desiderio.

Notando queste cose riusciamo a capire perché questo sonetto non ha trovato traduttori, sebbene sia stimato da molti il sonetto più perfetto di Tasso e sia, senza dubbio, tra i più belli della nostra letteratura. A mio avviso è, perché un traduttore non potrebbe mai dare la certezza di un'arte così fine. Quindi è giusto cedere all'ammirazione, ché il commentare è sciupare.

Altrove pur essendo mirabile non raggiunge un equilibrio così perfetto. Prendiamo l'altro sonetto: "Mirar due meste luci in dentro ascose" in cui viene messo in risalto il dolore e le dolcezze segrete della famiglia. Ho detto il dolore, ma occorre aggiungere subito che la tristezza non penetrò nella lirica di Torquato se non molto tardi, quando gli affanni avevano lasciato solo l'ombra dell'uomo.

A me è parso bellissimo il sonetto che il poeta scrisse poco dopo uscito da S. Anna. E' uno slancio affettuoso e consolatorio all'amico scrittore Ascanio Mori, per la morte del figlio.

"Mirar due meste luci m dentro ascose

una pallida fronte, un corpo esangue,

e dileguando da le guance il sangue,

gelar le brine e impallidir le rose:

 

Padre, ahi! Padre, sentir voci pietose,

e questa e quella man fredda com 'angue,

e la madre languir se 'I figlio langue,

eh 'a pena viva, e di morir propose:

 

di morte un volto pien, l'altro di pianto,

de Immagine sua dolente impresso

e cader tuo sostegno e tua speranza:

 

quinci silenzio e quindi strida in tanto,

per tutto orrore e duci ch'ogni altro avanza,

Ascanio: ma tu 'I vinci, anzi tè stesso."

 

Si noti come nella lotta conflittuale è raggiunto l'equilibrio tra l’”IO" creativo e il "SE' " predominante. Salta fuori, come da un quadro, un'immagine che prende vita, il trapasso lirico dell'ultima terzina, per il quale l'Autore richiama inaspettatamente l'attenzione del lettore su quel padre dolente, costretto a vincere con la forza d'animo i suoi affetti più cari: "Quinci silenzio e quindi strida in tanto."

Il Carducci che fu ammiratore e studioso della lirica tassesca, quando scris-se "Per raccolta in mente di ricca e bella signora”, si ricordò di questo sonetto ecco perché: "Sparsa la faccia bianca/de la fuggente vita/con la persona stanca/abbandonarsi a l'ultima partita..."

Il sonetto di Torquato Tasso, però, è una pittura che riproduce tanti momenti principali: ogni quartina e ogni terzina esprime una parte del fatto. Nella prima quartina si ha la visione di un fanciullo moribondo, che porta evidenti le tracce della malattia e della sofferenza: due luci in dentro ascose, (gli occhi, fatti per la luce e che ora ne rifuggono, segno del ritrarsi della vita), la fronte e le guance gelate e pallide, il corpo esangue: si ha un'immagine muta, ma già nel suo mutismo, straziante. Subito, quasi scaturisse dall'aria, l'immagine muta, si anima: il fanciullo articola una parola, invoca il padre: il padre non può rispondergli e consolarlo, impedito dalla commozione, gli accarezza una dopo l'altra le mani, le sente di ghiaccio, prova come un senso di ribrezzo e una emozione più violenta. E com'è vigoroso e pieno di verità il ritratto di quella madre, che langue con il figlio. E quante cose dice l'ottavo verso: "Di morir propose”. Questo verso insuperabile ha la virtù di allontanare e di spiegare meglio l’ "a pena viva" ; e si tenga presente che quel passato remoto non accenna tanto alla durata della malattia, quanto all'impressione che ne riporta la madre, per la quale ogni momento di sofferenza del figlio è un'eternità.

Nel primo sonetto la contraddizione, come ho detto, è lampante. Nel secondo la contraddizione e nel venir meno della coscienza, per l'eccesso dolore. Ma è diversa contraddizione: lì è il "SE"' che guida l'opera dell'"IO" creativo, qui è l' "IO" creativo che pur lasciando pochissimo spazio al "SE' " è in perfetto equilibrio artistico con i fatti della vita e la creatività inconscia: questa madre che assiste all'agonia del proprio figlio e che s'imprime anch'essa, nel viso, i segni della morte: l'unico indizio di vita è il pianto. I genitori personificano entrambi un dolore disperato che, nell'una ha un'espressione più appariscente, nell'altro, il padre, è racchiuso violentemente e compresso, lasciando la manifestazione nelle rigide linee del volto.

Ludovico Ariosto, meno introverso di Tasso, più filosofico, non meno erudito di Torquato capta la preponderanza, la superiorità dell'"IO" ed ironizza freddamente su questa superiorità fino a palesarne la pazzia con razionalità geniale. Ha capito che la contraddizione è naturale nell'individuo e "iper" nell'artista, custode geloso delle proprie (oggi le chiamiamo precognizioni) capacità intuitive, precorritrici del tempo e ci gioca; non lotta, lascia che l"'IO" guidi il "SE"'. Per questo nell'Orlando Furioso abbiamo l'inarrivabile perfezione dell'ottava, la vivacità della narrazione e della descrizione, ma anche gravi sconcezze disseminate qua e là; il risalto dei caratteri in tanta varietà di episodi, ma anche l'esagerato groviglio degli episodi secondari che intralcia l'ordinato procedere dei fatti principali: l'elevatezza e spontaneità dei precetti morali, che sono bellamente insinuati e la deficienza di sentimenti profondi che suscitano entusiasmo, ma anche la purezza, la proprietà, l'eleganza della lingua. In poche parole, pregi e difetti che scaturiscono appunto dalla continua contraddizione dell'"IO" e del "SE"'. L'Arte di ingrandire i pregi di un eroe immaginando che, lui assente, i suoi siano sempre battuti, è molto abilmente maneggiato dall'Ariosto.

Nell'Orlando Furioso vi sono almeno sei persone di questa importanza: Orlando, Bradamante e Rinaldo, Rodomonte, Marfisa e Matricardo.

Nel tratteggiare i suoi personaggi, Ariosto ebbe più fantasia romanzesca di tutti quelli che scrissero prima di lui; ma le sue esagerazioni della natura umana conservano l'eroica dignità, tanto vigore e tanta coerenza proprio perché è riuscito ad equilibrare il conflitto, al punto che, ci fa credere e ci costringe a credere veramente possibili le esagerazioni che narra, come se noi stessi avessimo vissuto, nei suoi stessi slanci creativi, le gesta dei personaggi.

Prendiamo ad esempio il canto XLI. Bradamante espone le proprie istruzioni con candore immenso, con sentimento e con dignità. Agramante risponde:

"Tenerità per certo e pazzia vera

E' la tua, e di qualunque che si posa

a consigliar mai cosa buona o ria

ove chiamato a consigliar non sia,

Si noti come Carlomagno conserva quella semplicità che gli è attribuita negli altri poemi romanzeschi, ma che è sempre sovrano di una nazione di eroi.

Ch 'io vinca o perda, o debba nel mio regno

tornare antiquo, o sempre stame in bando,

in mente sua n 'ha fatto Dio disegno

il qual ne io, ne tu, ne vede Orlando.

Sia quel che vuoi; non potrà ad atto indegno

di re inchinarmi mai timor nefando:

l'io fossi certo di morir, vò morto

prima restar, che al sangue mio far torto.

Or ti puoi ritornar; che se migliore

non sei dimani in questo campo armato,

che tu mi sia paruto oggi oratore,

mal troverassi Orlando accompagnato.

 

Ariosto ha ampliato il capitolo primitivo dei caratteri fantastici, molto di più che gli altri non fecero; e fa scaturire dall'equilibrio conflittuale la maestria del dipingere, con colori scoperti dalla sua esperienza, dalle passioni, e dalle inclinazioni della natura umana, in tutte le condizioni sociali. Forse fu avvantaggiato dalla sua amabile sapienza e pratica di indole filosofica, ciò non toglie all'arte, ma da; e da con genuinità che può apparire tale solo perché inaccettabile, da noi piccoli scettici del XXI secolo, una conoscenza così profonda della psiche. Tutti i sentimenti, i teneri e i forti, le effusioni del cuore e le escogitazioni dell'intelletto, i ragionamenti d'amore, le rappresentazioni di battaglie e Ì motti della comicità, sono tutti abbassati dall'ironia e nello stesso tempo elevati in lei. Sopra la caduta di tutti si innalza la meraviglia della musicalità dell'ottava, armonizzata non già dalla forza dell"IO" creativo soltanto, ma da un equilibrio conflittuale (sola fonte per l'opera d'Arte maggiore), che riesce a fare dell'ironia l'occhio stesso di Dio che guarda il muoversi della creazione, amandola alla pari nel bene e nel male.

La nostra epoca, invece, costituisce anche il bisogno di farsi valere e di conquistarsi un posto tra gli altri, un periodo di alta tensione. In nessuna civiltà la competizione tra gli artisti fu così sistematicamente accennata.

Fin dai primi anni dell'infanzia, le prestazioni dell'individuo sono misurate e confrontate con quelle degli altri. Nell'ambito della scuola con gli esami e le loro esigenze gravose, con la lotta per il raggiungimento di una situazione a cui moltissimi candidati aspirano. Le facoltà dei giovani sono tese e sfruttate al massimo; e questa situazione impone all'arte e al vero artista esigenze superiori. Troppi artisti, pochi i galleristi (molti i pseudo); gli scrittori non hanno possibilità di pubblicare. Un giovane promettente genio non trova spiraglio di luce: senza lavoro e senza quattrini i suoi manoscritti rimangono ad ingiallire nel cassetto. Allora essi si sentono impotenti a rispondere alle esigenze imposte dalla vita sociale e scoppia il conflitto tra l'impotenza da loro sentita e la spinta istintiva ad affermarsi ad ogni costo. Questo conflitto genera spesso uno scompiglio psichico. Uno scompiglio psichico a cui assistiamo, o meglio leggiamo tra le righe delle opere che pervengono ai vari premi letterari. Per fortuna tra le tante c'è ancora l'opera contraddittoria per eccellenza. Ma di questo parleremo più avanti, ora ciò che ci riguarda è il conflitto dell'impotenza a farsi valere.

Ci capita, molto spesso, nei circoli letterari, nei cenacoli dove abitualmente ci si incontra che, mentre un relatore sta esponendo la sua tesi, ci si saluta ad alta voce, senza attendere che il relatore finisca la sua esposizione; egli parla, e magari ha impiegato mesi di ricerca per esporre con più semplicità possibile, le scoperte fatte, mentre gli uditori si scambiano foglietti e fogliettini, congratulandosi a vicenda per la bellezza della poesia, che, per loro, è sempre bella.

Ma che cos'è la bellezza, nella poesia? Un verso impeccabile? Una immagine poetica? Il contenuto sentimentale o sociale? Essi non si soffermano, non si pongono queste domande; leggono ed esclamano: è bella! Il perché non lo dicono, come non si curano di ciò che dice l'oratore.

Detto questo, possiamo affermare che, anche nella vita privata, l'artista vive in continua contraddizione.

L’erudizione affina l'intelletto al pensiero, ingentilisce lo spirito, ma per (i più) coloro che oggi scrivono di tutto, leggere gli altri è un errore perché potrebbero (affermano) inconsciamente scrivere cose che gli altri hanno già scritto, e magari, poi, scrivono "II passero solitario" in dialetto; non sanno che tutto ciò che si scrive è stato già scritto, ciò che differenzia uno scrittore dall'altro è il come si scrive, cioè lo stile. E in questo Carducci ha ragione. Una contraddizione anche questa, almeno la si dovrebbe ritenere tale, ma la contraddizione è tutt'altro. La loro è ipocrisia, dovuta non già da un'anima gentile, ma da una ignoranza congenita; e sono proprio questi individui che hanno i quattrini e che pubblicano libri su libri, dipingono? (imbrattano) tele su tele, distruggendo o mettendo in cattiva luce, chi veramente ha valore.

Ciò che più conta nel comportamento di questi "pseudo artisti" è il fatto che, come incontrano una persona che si è messa in luce nell'ambiente, la assillano con le loro "elucubrazioni" dicendo in quindici parole, venti volte io, con la evidente sfrontatezza di farsi valere per quello che non sono.

Ma l’"IO" di cui parliamo è qualche cosa di sublime che si tramuta in arte pura solo se combatte la sua battaglia col "SE' " che è esperienza, cultura, erudizione, intelletto, arte del pensare.

Nelle varie scorribande per l'Italia, per un premio o per l'altro, capita di trovare queste due cose, ma sono in pochi a possederle. Allora, perché non invitiamo gli operatori culturali a scegliere le opere con maggiore obiettività, annullando la settorialità evidente e provincializzante che oggi impera in quasi tutti i premi letterari, maggiori o minori che siano, specialmente in quelli "maggiori" in tutta la Penisola.

L'opera d'arte salta lampante, parla da sé; non è necessario essere critici per capire che lo è. Infatti l'opera di Adriana Scarpa "/ bambini guardano la luna", concorrente per la silloge di poesia inedita, alla "Talentiade Camugnano 1982", (il premio consisteva nella pubblicazione dell'opera a spese dell'organizzazione), tutti i componenti la Giuria ci trovammo d'accordo; come fummo d'accordo nell'assegnare il primo premio per la poesia singola a "Chatila" di Marco Gronchi.

Alla "Talentiade Paduli 1985" è accaduta la stessa cosa per la poesia singola, per la narrativa e per il teatro; ma per la dimostrazione di quanto affermiamo occorre fare ancora una dissertazione sugli artisti "geni", nel tempo.

Una contraddizione costante è stato Montale, è stato Quasimodo, è stato Ungaretti; sono stati in perenne contraddizione Pasolini e Gatto; lo sono Accrocca, Bevilacqua, Selvaggi, Luzi, Spaziani e gli altri maggiori del nostro tempo. Ma come si evidenzia la contraddizione?

La costanza dell'"IO" nel tempo e nello spazio sta ad un lavoro d'unificazione che si suppone guidi la volontà alla esperienza dell'universo personale e della perfezione, poiché non è l'idea astratta di unità che possa frenare la tensione esplosiva alle forze di dislocazione verso il "SE"', ma ricostruisce, in ogni circostanza i complessi; e da questo punto di vista, non sono forme di sbandamento, ma, al contrario, sono ricerche di sintesi, le sole compatibili con le condizioni date, dice Miguard. Quindi, l"'IO" sta all'impulso dell'istinto, come la volontà sta alla coesione che si appoggia alla completezza personale dell'integrazione, che è varia negli individui.

Qualunque sia l'aiuto che la costanza, la volontà e la coerenza personali ricevono da una disposizione innata, esse sono anche il prodotto progressivamente maturato dell'impegno. Sotto questo aspetto Freud aveva ragione di cercare la forza di coesione dell'"IO" in un super"'IO" che per la sua posizione abbia autorità sulla dispersione della coscienza.

Esempio: ho iniziato a scrivere in versi all'età di cinque anni; la prima cosa che scrissi è la seguente:

"Oggi è il mio primo giorno di scuola

 fino a maggio scorso sono andato all'asilo

volevo bene a suor Anna;

e suor Anna è fuggita con un bersagliere. "

Ora analizzando queste parole notiamo che c'è ritmo, c'è musicalità, come si suoi dire, ma non c'è poesia. C'è l'istinto innato dell'"IO", ma non c'è il "SE"'; quindi manca quel conflitto necessario e vitale che trasfigura le cose della vita in arte.

L'Arte, amici miei, non può essere solo straripamento dell'"IO" perché in questo caso, avremmo soltanto espressioni di un'anima. L'Arte vuole la riunione di tutte le forze dello spirito e trova i suoi confini nello slancio verso un avvenire che sia, nello stesso tempo, promessa di espansione.

Ecco perché il poeta è chiamato anche vate, cioè indovino, perché sono appunto queste forze che gli permettono di precorrere i tempi; e il vate, in questo caso, dev'essere anche colto, erudito, se vuole che la sua sia oltre che missione, anche Arte.

Bisogna che il Poeta risponda a questo al di là dell'"IO" col suo più intimo interrogativo e ci presenti l'immagine attraente della sincerità dell'arte, in modo che, noi riconosciamo in esso ciò che possiamo essere.

Scrive Bergson che, "non vi è al mondo nessuna virtù più unificatrice del richiamo di una purezza che è già presenza fedele a sé stessa".

In parole povere, il Poeta, se vuole ritenersi degno di questo appellativo, necessariamente deve evolversi culturalmente, deve abituarsi a pensare, e, a lottare in continuazione con il proprio "SE"'. Amici cari, l'Arte vuole la coesione del cemento solido dell'equilibrio.

Questo dono è di pochi eletti, che poi sono coloro che eccellono su tutti e che noi chiamiamo Geni.

Eugenio Montale, come persona, appariva scettico nella sterile perplessità umana che non raccoglie l'occasione improvvisa di salvezza; però nella poesia invoca la compagnia, anche se della tristezza, auspicando all'uomo una discesa senza viltà; e pure cerca nelle immagini poetiche, create dal suo "IO" quella coesione necessaria per continuare a vivere, per sé e per gli altri, nelle "Ombre Evanescenti" che l'immersione delle mani nel secchio, colmo d'acqua, tirato su dal pozzo, evocano alla sua memoria.

"Cigola la carrucola del pozzo,

l'acqua sale alla luce e vi si fonde.

Trema il ricordo nel ricolmo secchio,

nel puro cerchio un'immagine ride.

Accosto il volto a evanescenti labbri:

si deforma il passato, si fa vecchio,

appartiene ad un altro...

Ah che già stride

la ruota, ti ridona all'altro fondo,

visione, una distanza ci divide. "

 

Già in "Ossi di seppia" del 1925, colpisce in Eugenio Montale il conflitto per l'equilibrio tra creatività e ragione, un conflitto che è astrazione radicale del tempo, con le determinazioni più urgenti di una storia segnata da traumi dolorosi:

"Nasceva In Noi, Volti Dal Cieco Caso./l'oblio Del Mondo"

Un conflitto che definiremmo antidrammatico che ritorna alla memoria, nel voluto silenzio di quel mondo sovrastato dalle leggi meccaniche:

"Non domandarci le formule che mondi possa aprirti

sì qualche storta sillaba e secca come un ramo"

Ma l'uomo continua ad andare sicuro, convinto di essere amico a sé stesso e agli altri:

"e l'ombra sua non cura che la canicola

stampa sopra uno scalcinato muro"

"Ossi di seppia" non ebbe sicuro successo, era poesia troppo nuova per il gusto del tempo, ma nel 1989 con "Occasioni", in cui si nota subito il sostanziale mutamento conflittuale, va oltre il senso ottico-spaziale, per allargare il paesaggio oltre lo scenario immobile della riviera ligure.

Le diverse sensazioni che provengono dal di fuori assillando un "IO" creativo muto, per scelta propria lascia al "SE"' l'apertura dello sguardo sulla desolante tristezza e le incorpora nei colori abbrunati dello stesso paesaggio, costruito razionalmente.

"Questa rissa cristiana che non ha

se non parole d'ombra e di lamento

che ti porta di me ? Meno di quanto

t'ha rapito la gora che s 'interra

dolce nella sua chiusa di cemento. "

 

Finisterre completa l'opera conflittuale preannunciata da "Ossi di seppia" e continuata da "Occasioni". Lo stesso Poeta, chiarifica il concetto dicendo che, mancava a quei limoni, uno spicchio.

La sua vita, come abbiamo notato, è stata una evoluzione continua, che è andata sempre più acquistando e conquistando l'equilibrio pratico dell'" IO" e del "SE' ", senza mai raggiungere la "Catarsi", anzi in questa lotta continua e problematica viene a verificarsi di colpo uno spettacolo che fa paura, cosa che evidenzia nella poesia

"Vento sulla mezzaluna":

 

 "II gran ponte non portava a te

t'avrei raggiunta anche navigando

Nelle chiaviche, a un tuo comando. Ma

già le forze, col sole sui cristalli

delle verande, andavano stremandosi

L'Uomo che predicava sul Crescente

Mi chiese "Sai dov'è Dio?" Lo sapevo.

E glielo dissi. Scosse il capo. Sparve

nel turbine che prese uomini e cose

e li sollevò in alto, sulla pece. "

 

Pier Paolo Pasolini, nella "Ballata delle madri" è in conflitto, forse più che in altre opere.

 

Mi domando che madri avete avuto.

Se ora vi vedessero al lavoro

in un mondo a loro sconosciuto,

presi in un giro mai compiuto

d'esperienze così diverse dalle loro,

che sguardo avrebbero negli occhi?

Se fossero lì, mentre voi scrivete

il vostro pezzo, conformisti e barocchi,

o lo passate, a redattori rotti

a ogni compromesso, capirebbero chi siete?

Madri vili, con nel viso il timore

 antico, quello che come un male

deforma i lineamenti in un biancore

che li annebbia, li allontana dal cuore,

li chiude nel vecchio rifiuto morale.

Madri vili, poverine, preoccupate

che i figli conoscano la viltà

per chiedere un posto, per essere pratici,

per non offendere anime privilegiate,

per difendersi da ogni pietà.

Madri mediocri, che hanno imparato

con umiltà di bambine, di noi,

con unico, nudo significato,

con anime in cui il mondo è dannato

a non dare ne dolore ne gioia.

Madri mediocri, che non hanno avuto

per voi mai una parola d'amore,

se non d'amore sordidamente muto

di bestia, e in esso v'hanno cresciuto,

impotenti ai reali richiami del cuore.

Madri servili, abituate da secoli

a chinare senza amore la testa,

a trasmettere al loro feto

l'antico, vergognoso segreto

d'accontentarsi dei resti della festa.

Madri servili che vi hanno insegnato

come il servo può essere felice

odiando chi è, come lui, legato,

come il servo può essere, tradendo, beato,

e sicuro, facendo ciò che non dice.

Madri feroci, intente a difendere

quel poco che, borghesi, possiedono,

la normalità e lo stipendio,

quasi con rabbia di chi si vendichi

o sia stretto da un assurdo assedio.

Madri feroci, che vi hanno detto:

Sopravvivete! Pensate a voi!

Non provate mai pietà o rispetto

 per nessuno, covate nel petto

la vostra integrità di avvoltoi!

Ecco, vili, mediocri, servi,

feroci, le vostre povere madri!

Che non hanno vergogna a sapervi

- nel vostro odio - addirittura superbi,

se non è questa che una valle di lacrime.

E' così che vi appartiene questo mondo:

fatti fratelli nelle opposte passioni,

o le patrie nemiche, dal rifiuto profondo

a essere diversi: a rispondere

del selvaggio dolore di essere uomini.

 

Si nota che questa poesia si presenta più come un esercizio catartico che come opera letteraria vera e propria, come se l'autore avesse voluto scaricare le proprie energie emotive ed affettive in un impulso eccessivo di ricerca verso la catarsi.

E' una lettera in cui è detto, in libera espressione, tutto il risentimento, la indignazione, affermando, in uno sfogo naturale dell'"IO", i propri diritti, senza ritegni. In questo caso sembra che l'"IO" sia stato appagato, ma la Catarsi è ancora lontana.

Poi è subentrato il conflitto: una lotta estenuante per il dominio, esercitato dal "SE"' sull"IO" creativo.

Il Poeta, incoraggiato dalla propria osservazione a riconoscere la natura irrazionale dei propri impulsi e i vantaggi o i danni che gli sarebbero potuti derivare dalla produzione di tale manifestazione, lotta strenuamente fino al raggiungimento del senso di responsabilità derivato da tale riconoscimento, tende a neutralizzare questi impulsi controbilanciandoli in una misura che si avvicini, il più possibile, all'idea originaria.

In questo caso la Catarsi trova difficile raggiungimento per eccesso d'azione e porta l'autore a sviluppare un atteggiamento iper-critico, di sé e degli altri. La ricerca non è commisurata secondo le necessità, ma usata acriticamente da iper- intellettuale, scivolando in un sub-criticismo anti produttivo.

Esaminando l'opera in modo più generale, si può dire che la tensione derivante dal contrasto fra le visioni del futuro e le condizioni presenti è creativa, ma soltanto se viene accettata ed utilizzata come stimolo, all'azione costruttiva, quindi... Penso che, a questo punto, un'analogia può rendere il concetto, o meglio può chiarificarlo evidenziando anche il mancato raggiungimento dell'equilibrio conflittuale del poeta.

La nostra vista dovrebbe sempre precedere il nostro piede, mentre accade spesso che la visione è limitata al terreno davanti a noi. D'altra parte se si tenessero gli occhi sempre fissi alla cima della vetta si potrebbe inciampare e cadere lungo la via. Ma l'occhio ha la capacità di cambiare rapidamente il suo "fuoco", dal passo immediato da fare a tutti i passi intermedi fino alla cima della vetta, e viceversa. Allo stesso modo l"'IO" creativo, dovrebbe saper abbracciare l'intero campo o sfera di conoscenza e di azione, da ciò che è immediato a ciò che è remoto e focalizzarsi su quel punto o quella distanza che sia la più utile in ogni dato momento e in ogni particolare situazione in modo che il "SE"' si trovi al centro del campo, e l'opera d'arte si trovi a possedere quell'equilibrio necessario atto a farla essere opera d'arte perfetta.

Molto spesso, anzi sempre, il "SE' " si ribella al dominio dell'"IO" proprio perché l"'IO" non è la mente, quindi occorre raggiungere l'esperienza deir"IO" quale auto identificazione per poter esemplificare l'immissione del "SE"'.

Pasolini, in questa poesia, ha solo coscienza dell'"IO" quale auto coscienza, ma lascia troppa libertà al "SE"' solo quale auto- identificazione, ecco perché l'opera, non solo non raggiunge la perfezione, ma non lascia intravedere, che a sprazzi, la catarsi ricercata, dando alla poesia uno sfogo dell'anima, nuda, in cui la ragione non ha modo d'essere se non nel fatto reale, (per il suo "IO") della madre del nostro tempo. In essa vi è il solo valore estetico, in quanto le immagini create costituiscono delle forze operanti, quasi entità viventi, che hanno un potere suscitatore e creativo. E l'errore di Pasolini, in questo caso, è stato di aver lasciato che queste forze restassero inutilizzate, non avendo tentato neppure di assoggettivarcisi inconsciamente.

La maggior parte dei poeti che leggiamo oggi non conoscono il conflitto necessario all'arte perché (lo affermano senza vergogna), non leggono gli altri per paura di copiarli; preferiscono seguire la propria ispirazione, per dannazione nostra che non riusciamo più a leggere un bei verso, eccetto in casi sporadici, come ho già accennato.

Croce afferma che: "// giudizio della poesia ha un'unica indivisibile categoria, quella della bellezza, e, secondo essa, denomina le opere, che la fantasia rievoca, "belle" o "brutte" e le discerne in "pienamente o poeticamente belle", e in "letterariamente belle", e in queste ultime discerne, secondo il vario contenuto sentimentale, intellettuale o volitivo che esse rivestono di bella forma, in opere di effusione, di prosa o didascalica, di oratoria, di letteratura amena e di "arte per l'arte". Discernimenti assai delicati, che non v'ha modo di rendere meccanici o altrimenti agevoli, e ai quali le stesse distinzioni teoriche, che la filosofia fornisce, se porgono strumenti necessari, impongono, più grave onere, l'obbligo di usarne e di usarne bene, cioè di non abusarne. L'abuso o lo sciocco uso che ne fanno gli indiscreti e gli inesperti spinge a irragionevoli lamenti contro quegli strumenti stessi pericolosi; dimenticando il detto di Jacobi in un 'occasione consimile, che ciò di cui non si può abusare non è buono neanche per l'uso,"

Con questo presupposto, don Benedetto, bocciò Ferdinando Russo ed esaltò Di Giacomo, suo caro amico.

Ma l'atto col quale la coscienza superiore diventa capace di gustare l'unicità assoluta di ogni momento creativo è ben diverso. E' un atto di alto valore personale, poiché questa unicità non si da che a una coscienza veramente e profondamente artistica, sensibile a tutte le armonie del reale e alle prospettive più profonde. Se ammette un paragone, è solo nello slancio delle passioni personali; sia che la coscienza creatrice guardi verso la generosità inesauribile della vita reale con l'avidità di riceverne sempre una forza nuova, sia che si senta dietro di sé la minaccia dell'abitudine, fuggendo l'ombra della ripetizione. Ma il gusto dell'unico, se è cosciente, non è mai premeditato o lo è a malapena; ha troppa fiducia per domandarle pegni o per prendere eruzioni. Il Poeta riceve il suo frutto e lo accetta come una grazia cercando per prima cosa il segno della verità e quindi della bellezza: unicità della Poesia. Inoltre il poeta non cerca l'originalità, essa è già interamente nella sua coscienza, per sentirsi Vate. L'Artista perfetto se ne allontana con diffidenza, come i Santi che, per sentirsi vicini a Dio, si abbandonavano a singolarità insensate. Tuttavia vi sono dei momenti in cui la ricerca dell'originalità, e persino dell'originalità ad ogni costo, appare come una tappa vergognosa per l'artista perfetto, fino ad infierire contro se stesso con l'amarezza di credersi solo in mezzo ad un Universo ostile e incomprensivo.

A questa subestimazione, si può fuggire solamente con una cultura della conoscenza del corpo, analoga a quella dello spirito; ed è bene sistemarla in anticipo, per mettere in sesto la cultura dello spirito e per impedire confusioni fra lo spirituale e l'irreale.

Scrive Rousseau in "Emilio"'. "E’ necessario aver studiato a lungo il corpo, per crearsi una veritiera nozione degli spiriti e per supporre che esistono. L'ordine contrario serve solo a dare fondamenti al materialismo". Quindi è necessaria all'Artista un'apertura al reale perché essa facilita la larghezza di vedute, il senso al di là del momento creatore e dell'io presente i quali permettono a una vita di unificarsi e di misurarsi. L'apertura al reale, inoltre, spezza le attitudini d'opposizione, disimpegna le lenti dell'egocentrismo e la forza dislocatrice nella potente attrazione dell'Universo.

Occorre tener presente di cercare sempre il vero, non dire mai ciò che si crede di sapere, tacendo il resto; di esprimersi sempre con sincerità e respingere il verbo dell'orgoglio, di andare al puro, al profondo, all'autentico.

Per questi motivi e non per altro oggi attraversiamo un periodo di "arte. povera” in ogni senso, e troviamo nei fondamenti dell'impresa editoriale, la quale ha come alternativa il discorso dei maggiori, sempre gli stessi, (l'editoria improvvisata infesta il mercato e non permette il riconoscimento di giovani valenti), i quali conservano la loro dimensione, ma soltanto nell'ambito regionale, anche se agevolano, in qualche modo il recupero dei contenuti.

Al di sopra delle correnti regionali tentano di farsi luce, di farsi sentire, alcuni giovani, i quali, trovando un'industria editoriale e galleristi sordi e ciechi sono costretti a impoverire il proprio stipendio per pubblicare o esporre le loro opere che palesano in modo chiaro e inconfondibile la "contraddizione dell'io e del se' nell'arte pura" e il raggiungimento dell'equilibrio spirituale.

Giovani che percorrono vie diverse e che troveremo domani, e domani ancora, sull'unica strada che conduce al traguardo della vera arte: una pittrice, Viviana Buzzòli; un pittore-musicista, Lucio Garofalo; uno scrittore, Giuseppe Guin; e due poeti, Selim Tietto e Antonio laccarino.

Viviana Buzzòli, che proprio dallo studio profondo del corpo, raggiunge una spiritualità elevata da far provare la sensazione di lievitare.

Prendiamo ad esempio "Creazione del colloquio" un olio 110X40 in cui le figure partono dalla materia, e informalmente, con i piedi ancora sprofondati nella materia, una terra di un colore violaceo, si erigono verso il cielo dove i volti acquistano aspetto ieratico, tanto sono pieni di spiritualità intensa. Oppure l'olio 50X70 "Nascita della verità'" in cui, sempre dalla materia, due gambe informi raggiungono all'inguine, il massimo valore dell'io in un equilibrio perfetto, sbocciano fiori di campo, simbolo della natura: trionfo trino dell'equilibrio dell'artista, indubbiamente raggiunto oltre che dall'innata spinta dell'io creatore anche da uno studio sistematico organizzato per raggiungere appunto il sano equilibrio dell' arte. La contraddizione dell'io e del SE', in questo caso, è puramente intellettuale perché la coscienza è in continua tensione verso la verità.

La contraddizione della Buzzòli è differente da quella di Garofalo; l’una, partendo dalla materia raggiunge l'equilibrio dello spirito in seno alla natura, o alle leggi naturali dell'uomo, l'altro lo raggiunge nell'unione con il simbolo musicale che è equilibrio armonico, come connubio musica-colori, con la materia originaria.

Lucio Garofalo avverte la disponibilità alla "Catarsi" come necessità sentita; le sue opere sono pregne di terra dalla quale si sprigiona un sentimento fraterno sentito fortemente, come il senso di vuoto che ognuno di noi avverte in questa nostra epoca in cui il vicino rimane sempre un estraneo e la famiglia stessa va sgretolandosi. Le forme sono velate da colori amalgamati in sincronizzazione di ocra, terra di Siena, rossi favolosi, per esplodere spiritualmente in tutta la loro maestosità. La linfa che dal "Quid" iniziale attraverso la appariscente formazione della figura da fluido e vita all'uomo delineante. Emergono da questa figura, e non a caso, una testa appena accennata o una mano ancora inerme, ma che, attingendo linfa dal "Quid", prende forza. La figura è là quasi a imprimere, attraverso il ricordo, la certezza di un equilibrio tra l'IO e il SE' come una fede incrollabile. Selim Tietto, nato alla poesia impegnata nei primi anni '70, dopo momenti di conflitto estenuante, che non riusciva a capire perché FIO era sempre superiore al SE' e non conoscendo la via dell'equilibrio si stava perdendo, oggi ritoma con voce potente. Ricordiamo la sua prima opera "Prismi di smog1' in cui il rimpianto dell'uomo che, per la sopravvivenza è costretto a perdere la libertà, giocandosela per un grammo di benessere, anche se, "Erano belli i fichidindia del Sud/e il sole sapeva di mare. " Egli canta il dramma dell'immigrato, in conflitto estenuante fra l'IO e il SE', poiché lui, dell'immigrato, ne ha sentito solo parlare, o ha letto la loro storia sui quotidiani, al suono del verso armonioso, forte, incisivo, caldo e sofferto; e noi vediamo estendersi il nostro orizzonte: si delineano uomini e cose, si colorano monti, mari, fiumi, città; e formano come l'irradiazione visibile dell'anima del Poeta in lotta con il proprio SE'.

 

1 - "Viene l'alba

      Signore

Ed io ho ancora una cicca spenta

e aroma amaro ho ancora

sulle labbra.

Viene l'alba

      Signore

su questa città di catrame...

Ed anche oggi

io piangerò lacrime di sangue

nel mio orto degli ulivi.

 

2. Tu lo sai

non ho più mani pure

    Signore!

E i miei calli san bruciati

e la mia mente frustrata

e più non so stendere

rami d'ulivo

a chi pressa bitume sul mio corpo.

Il mio calice di cedro

è saturo di fiele ormai

fino ali 'angoscia.

E le bestemmie

     Signore

sono l'ultima preghiera.

 

3. Noi siamo gli odierni schiavi d'Egitto

legati alle catene di montaggio.

E in ogni ora del giorno

ci nutriamo d'erbe amare

nell'attesa di un esodo mitico.

Ma dimmi quando arriva

      mio Dio!

il carro d'Elia

che ci trasporti lassù

oltre il fumo denso

di queste ciminiere

che annebbiano il sole?

 

La poesia di Antonio laccarino nasce come mezzo per diminuire il dolore fisico; con lo scopo generico di produrre effetti collettivi; come una terapia musicale scientifica i cui elementi principali sono il ritmo, la melodia, il tono e l'armonia.

Il ritmo è l'elemento principale che esercita una potente influenza sul lettore e l'Autore lo dosa, a volte stimolandolo, a volte calmandolo, armonizzandolo o creando discordanze. Ogni verso ha il suo influsso ritmico che scivola naturalmente, nella melodia.

 

"Appartengo a quelle

case come stive,

gonfie di sudore.

Al pane e sale

rubato ad altra fame.

Ai tram ansanti

della periferia brulla

ai cinema bui,

come innocenti profanazione

Appartengo ai quattro soldi

Tintinnanti

nelle tasche scucite.

Alla preghiera implorante

d'uno storpio sul sagrato.

all'ozio pensoso dei cortile

alla flanella ruvida

e nervosa.

Appartengo al palmo calloso d'un padre invecchiato.

Alle vigne calde

dei nostri sberleffì.

Al crocicchio del destino,

dove ritroverò tutti. "

 

II conflitto fra l'IO e il SE', il confronto in un esame introspezionale, fa capire al Poeta il fallimento della propria missione; eppure io sono come loro perché non sono riuscito a farmi capire? No. Non mi arrenderò. Non mi presenterò al "crocicchio del destino" come Orfeo: non voglio dissolvermi guardando indietro.

Alla lettura, come avete notato, produce una influenza vibratoria, proprio come le note musicali. E come acquistano maggiore efficacia i versi spezzati: "Tintinnanti", e "nervosa".

Questi versi intrecciati con una combinazione del ritmo, dei toni e degli accenti, producono, appunto, una melodia armonica: giusto raggiungimento del risultato dell'attività creativa del poeta.

 

"Vecchi nella morta controra

masticano denti di solitudine,

laschi alla vita

come cani in piazza

Marinai senza rotta

e senza lingua

mordono il sughero dell'attesa

pronti ali 'approdo."

 

I vecchi, sono il, statue di carne e di spinto, a masticare solitudine: "come cani in piazza". Espressione allucinante! Se ci guardiamo dentro proviamo orrore, eppure nulla turba la nostra caotica esistenza; non facciamo niente per scuotere quell'apatia: egoisti consapevoli e inetti. I vecchi sono ormai "marinai senza rotta/senza lingua", tuttavia basterebbe un nostro gesto per farli parlare e parlando smettere di mordere il sughero.

Ma il Poeta non si accontenta dell'attività creativa, affronta un processo di integrazione della personalità, cosciente dei contenuti dell'inconscio; analizzando il manufatto creativo, esegue un processo di sintesi e di essenzialità, sottomette l'IO al SE’, e fa della sua poesia un'opera d'arte "maggiore".

"Ho ricucito strade

col fiato di polvere

per ritrovare

la ghiaia delle rotaie

e I ' acqua dei pozzi

e sentirmi straniero

nel vestito di lana buono.

Periferia di zolfo

alle narici

e madri curve ai lavatoi

dove gli uomini

avviliscono ai caffè

e la morte

è un soffio al lume."

Di fattura che rasenta la poesia pura, se non fosse per il linguaggio parlato, affronta un aspetto sociale che è come una piaga nel costato dell'umanità, sorda e indifferente. Una denuncia spietata della nostra scialba esistenza.

Il fatto in sé, reale, viene trasfigurato e tramutato in sublimazione con un grido potente che prende tutta la società umana, lasciandola intontita di fronte alla catastrofe cui va incontro.

La poesia di Antonio laccarino proietta decisamente l'interesse, della propria aspirazione, del proprio entusiasmo, di un'attività che attiri ed assorba il lettore, facendolo ripiegare su sé stesso, pensoso. Ciò induce ad una osservazione generale sul problema di fronte al quale il Poeta è venuto a trovarsi nell'attimo creativo, prescindendo, o approfondendo l'esame, sul conflitto post-creativo con il SE' maggiore.

Di altra tempra, non scevra da conflitti esistenziali, è l'arte del comasco Giuseppe Guin, il quale usa il simbolismo con piena consapevolezza; ed è proprio il significato simbolico il mirabile quadro di una psicosintesi completa.

Le sue fiabe sembrano orientali per il nome dei personaggi che si aggirano nel fantastico mondo di Egadon. La tecnica è da fiaba, semplice, ma viva, reale, capace di riuscire a distanziarsi dalle situazioni. I personaggi siamo tutti noi, capaci di guardarci dentro, in seno alla nostra società, capaci di giudicarci come se non fossimo noi, di soffrire senza per questo sentirci sconfitti e gioire del bene degli altri, con amore.

La fiaba di Guin si snoda sempre in fasi cronologiche: la prima indica l'esplorazione dell'inconscio inferiore; la seconda, indica il processo della purificazione morale e il graduale risveglio della coscienza mediante il risveglio della vita attiva; la terza, dipinge in modo maggiore lo stadio della realizzazione supercosciente, fino alla concretizzazione della libertà dello spirito universale: la libertà, appunto, nella quale sono fusi: Amore e volontà.

Nella situazione culturale nella quale viviamo da qualche anno, questo modo di fare arte "Maggiore", attira non solo la nostra attenzione, ma esclude le frustrazioni profonde in cui altri si crogiolano nell'io, ignorando la presenza del SE' nell'individuo per un equilibrio spirituale che rende bella l'arte e sana la mente.

E' per la presenza di costoro che ignorano l'equilibrio conflittuale fra l'IO e il SE' che viene a crearsi il profondo disorientamento della nostra civiltà culturale, quale si manifesta specialmente nel modo di fare degli "scrivitori di versi". (L'espressione non è mia è di Marcello Eydalin), i quali hanno accentuato e accentuano il carattere assurdo dell'esistenza artistica.

Per questo motivo, ci incombe il compito di istituire una disanima più sistematica dei bisogni umani e una più approfondita analisi quando si assegnano dei premi, tenendo presente il modo d'essere totale dell'uomo, in seno alla società.

Ma forse gli "scrivitori" hanno paura di pensare perché il pensiero implica che si vada incontro ad ostacoli, che ci si propongano difficoltà, che ci si getti, nell'imbarazzo e nel dubbio. Socrate turbava i suoi amici, ma turbava per prima sé stesso; e l'ironia non faceva altro che esprimere al di fuori quello che c'era dentro. Fiatone lo sapeva molto bene, ecco perché ha creato dei personaggi il cui spirito è opposto allo spirito di Socrate, sia che obiettino e rispondano, sia che si intestardiscano a non comprendere.

Aristotele ha rinunciato all'apparato un po’ teatrale, ma si crea sempre una difficoltà; San Tommaso va sempre alla ricerca di ciò che è contrario; Cartesio è più acuto e mordace.

Ricordino, "gli scrivitori" che gli impedimenti sono i mezzi del progresso. Colui che ha inventato la metrica sapeva bene che più servitù imponeva alla forma, più dava alla bellezza occasione d'essere. Porre vicino a sé l'avversario, dargli ogni permesso di contraddire è nell'ordine dei pensieri. Il pensiero che ha attraversato la contraddizione è un pensiero sperimentato; e se non lo è, è sempre identico ad un pensiero provato. Ma questo, ovviamente, viene ignorato dai pseudo, altrimenti non danneggerebbero il mondo dell'arte.

Il vero Poeta, l'artista perfetto, eccita il pensiero. Ma noi, (scusate se mi intrometto), critici, nelle nostre opinioni mescoliamo pregiudizi, invece dovremmo, (Dobbiamo), riconquistare quello che si crede, con il sudore della fronte; e non pensare (senza pensiero) di premiare questo o quello perché è nostro amico, o perché fa parte del nostro sodalizio e vogliamo aiutarlo ad emergere. Sbagliamo! Si, sbagliamo perché la cosa migliore per questa riconquista è permettere che la si attacchi.

Quelli che hanno proceduto in questo modo e che si sono offerti alle critiche, lasciando campo libero all'avversario, attraverso la radio libera, articoli, conferenze e teatro hanno guadagnato e guadagnano raro vantaggio perché la loro opera riassume molti tipi; essa è come quelle specie avanzate che sembrano ricapitolare la storia; e incontra anche la bellezza.

In un momento, la bellezza si ottiene, non solo quando ogni pietra è a posto e in equilibrio, ma anche quando le diverse linee si sostengono e si compensano. Se la pace dell'anima risulta da parecchie passioni domate, se è vero che la virtù è più sicura quando si appoggia su un difetto represso, è ugualmente vero che la virtù di un giudizio è più ferma quando risulta da un pensiero confutato. Per tutte queste ragioni, la supposizione del pensiero contrario, cioè del conflitto nell'artista perfetto dell'io e del SE’ porta all'equilibrio spirituale che è il vero nutrimento dell'ARTE.

 

Reno Bromuro


BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE


Contraddizione dell'IO" e del "SE"' per un'arte maggiore

1) Marmele Mounier: "La difesa dell'io" Ed. Paoline 1949

2) Manuele Mounier: "L'affermazione dell'io" Ed. Paoline 1949

3) Antonio Eymieu: "Le grandi leggi" - L'Arte del volere" Ed.Cit.

4) Jean Guitton: "II lavoro intellettuale" - "Arte nuova di pensare" - Ed. già cit.

5) Alois Gruber: "I rapporti tra cervello e anima" - Ed. già cit. 1960

6) Giuseppe Nuttin: "Psicologia del profondo" - Ed. già cit. 1960

7) Amaury Lacretelle: "Prefazione a Cime tempestose" di Emily Bronté.

8) Torquato Tasso: "Le rime" a cura di F. Flora Ed. Classici Rizzoli

9) Herry Bergson: "Sui dati immediati della coscienza - l'Evoluzione creatrice" Sansoni Editore Firenze 1955

10) E. Montale: "Tutte le opere" - Collezione Premi Nobel 1985

11) P.P.Pasolini:"Poesie in forma di rosa" - Garzanti,Milano 1964

12) B.Croce: "La poesia" Editori Laterza, Bari 1969

13) J.J.Rousseau: "Emilio" - Sansoni Editore, Firenze 1955

14) A.Iaccarmo: "Poesie inedite" Ed. A.I.A. Poesia della Vita 1985

15) Selim Tietto: “Prismi di smog” – edizione Mantova 1974


 

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guidoferranova@tiscalinet.it