Da diversi mesi a questa parte mi sorprendo
sempre più spesso a scuotere la testa di fronte alla tv. Era successo nel
2001, nei giorni del famigerato G8 genovese. Era ricapitato poche settimane più
tardi, all'indomani dell'11 settembre. E, di nuovo, è accaduto nei giorni che
hanno seguito l'euforica sbornia pacifica e pacifista del 15 febbraio. Fin dal
giorno in cui Bush figlio ha indicato in Saddam Hussein il nemico numero uno
del pianeta, relegando nel dimenticatoio l'ex nemico numero uno Bin Laden, ho
pensato che le bombe americane nel giro di qualche mese avrebbero ricominciato
a cadere sull'Iraq, riprendendo il discorso interrotto da Bush padre nel 1991.
Questa certezza, però, ha vacillato di fronte all'imponente mobilitazione del
15 febbraio. Anch'io, come altri che hanno vissuto quella giornata in prima
persona, ho finito per illudermi, almeno per qualche ora, che la corazzata
pacifista potesse davvero riuscire ad affondare la guerra.
Ipocrisia e cattiva memoria
Di fronte ai milioni di persone scese in
piazza in tutto il mondo per difendere la pace, la macchina della propaganda
bellica ha, in effetti, sbandato paurosamente, salvo riprendere a viaggiare più
spedita che mai subito dopo, facendo leva su un bagaglio di argomentazioni che
puntualmente, alla vigilia di ogni guerra "umanitaria", viene tirato
giù dalla soffitta. Così, nel giro di qualche settimana l'offensiva
anti-Saddam, motivata inizialmente con la necessità di disarmare il
dittatore, si è trasformata, a seconda delle necessità contingenti, in
un'appendice della lotta al terrorismo di Al Quaeda e in una guerra per la
liberazione del popolo iracheno e per l'esportazione della democrazia in tutta
l'area mediorientale.
Uno degli ultimi conigli tirati fuori dal
cilindro dai prestigiatori della disinformazione è quello che tenta di
accreditare ai falchi dell'amministrazione Bush la volontà di consegnare
Saddam Hussein al tribunale internazionale per i crimini contro l'umanità.
Come ci si può opporre a una guerra che mira ad assicurare alla giustizia un
tiranno che si è macchiato di crimini orrendi contro il suo stesso popolo?
L'interrogativo lo ha posto, tra gli altri, dagli schermi della 7 anche
Giuliano Ferrara, uno che è timido e balbettante se deve intervistare Cesare
Previti, ma che recupera tutta la sua verve polemica quando si tratta di
rifilare predicozzi moralistici e sorrisini di scherno al movimento pacifista.
A lui e agli altri cortigiani che popolano il
nostro malandato panorama mediatico si può rispondere ricordando alcuni
episodi che mettono bene in luce l'ipocrisia e la malafede del fronte
militarista. Non occorre fare lunghi salti indietro nel tempo, anche se la
cattiva memoria della società della [dis]informazione è tale che ricordare
certi avvenimenti può avere lo stesso fascino di una scoperta archeologica.
Prendiamo la Gran Bretagna di Tony Blair,
principale alleato degli Usa nell'escalation guerrafondaia degli ultimi mesi.
Nel 1998 scoppia il caso di Augusto Pinochet, già dittatore golpista del Cile
su mandato degli Stati Uniti, che si trova a Londra quando la magistratura
spagnola ne chiede l'estradizione per crimini contro l'umanità. Del fervore
di oggi contro il dittatore Saddam, da consegnare al tribunale internazionale
per i delitti commessi contro il suo stesso popolo, non c'è traccia nel
governo Blair di allora alle prese con il dittatore Pinochet, un macellaio di
vite umane esattamente come il raìs iracheno, che tra l'altro avrebbe potuto
essere consegnato alla giustizia senza ricorrere a bombardamenti e stragi di
civili. Così Pinochet, dopo una commedia durata alcuni mesi che provocò non
pochi imbarazzi al governo di sua maestà, venne lasciato libero di riprendere
la via del Cile.
Lo stesso livello di [in]coerenza si ritrova
nell'atteggiamento intermittente dell'amministrazione Bush rispetto alla
questione palestinese, che sembra stare molto a cuore del presidente americano
e dei suoi consiglieri più stretti solo quando si tratta di assicurarsi il
sostegno dei paesi arabi per i propri progetti bellici. E' stato così dopo
l'11 settembre, quando il feeling con Sharon è giunto ai minimi storici,
perché il primo ministro israeliano si ostinava nella sua politica di
aggressione e umiliazione sistematica del popolo palestinese proprio mentre
gli Usa cercavano il più ampio appoggio possibile a sostegno dell'intervento
in Afghanistan. Dopo gli attacchi kamikaze di New York e Washington, Bush
sembrava infatti essersi trasformato in uno degli sponsor più determinati di
uno stato palestinese, che avrebbe dovuto sorgere fianco a fianco con quello
israeliano.
Una volta chiusa la parentesi afghana e
liquidato il regime talebano, però, lo spartito della Casa Bianca ha ripreso
a suonare la solita, vecchia musica e i palestinesi, da vittime, sono tornati
a essere semplicemente dei terroristi. "Quando i palestinesi avranno
nuovi leader e nuove istituzioni democratiche basate sulla libertà e la
tolleranza, gli Stati Uniti sosterranno la nascita di uno stato
palestinese", ha dichiarato Bush nel giugno del 2002. Il che significa,
come ha sottolineato Jonathan Freedland sulle pagine del Guardian, che il
presidente americano "chiede alla Palestina di diventare la Svezia prima
di poter diventare la Palestina".
La questione palestinese, però, è un
argomento troppo ghiotto per non suscitare l'attenzione dei prestigiatori
della disinformazione, che con i nuovi venti di guerra sono tornati alla
carica, legando la sua soluzione alla guerra contro il regime di Saddam. Una
volta levato lui di mezzo e instaurata la democrazia in Iraq, anche il dramma
dei palestinesi si risolverà, ci spiegano, senza aggiungere però come questo
avverrà, quanto tempo ci vorrà e, soprattutto, quale logica perversa leghi
il destino del dittatore iracheno a quello dei palestinesi. In realtà,
l'assenza di questi pochi ma fondamentali dettagli è eloquente su quale sia
il vero scopo di queste dichiarazioni, che mirano semplicemente a confondere
le acque e a reclutare a costo zero sostegno per l'azione militare imminente.
Il resto lo farà la cattiva memoria, e il conflitto arabo-israeliano potrà
sempre tornare utile per giustificare il prossimo capitolo della guerra
preventiva inaugurata da Bush. Obiettivi possibili, Corea del Nord a parte [ha
l'atomica], l'Iran, vecchio pallino degli Stati Uniti, o, perché no?,
l'Arabia Saudita, che non viene più considerata l'alleata fedele di un tempo.
Del resto è da lì che provenivano la maggior parte degli attentatori dell'11
settembre, e forse prima o poi anche la Cia se ne accorgerà…
L'elenco dei casi simili che potrebbero essere
citati in questo contesto non si esaurisce ovviamente qui. Come dimenticare,
per esempio, che proprio la recente campagna bellica contro i talebani è
stata condotta con l'appoggio fondamentale di un altro dittatore, il generale
pachistano Musharaf [che oltretutto dispone già della bomba atomica]? Come
sottovalutare il fatto che lo stesso Saddam Hussein, il Satana di oggi, negli
anni Ottanta, all'epoca della sanguinosa guerra con l'Iran, godeva
dell'appoggio dell'amministrazione Usa, che gli fornì intelligence
satellitare e altro appoggio militare per evitare la vittoria iraniana, pur
essendo a conoscenza del fatto che l'esercito iracheno aveva integrato il suo
arsenale con armi chimiche?
Si tratta di considerazioni scontate, quasi
banali, eppure il circo dei media, tranne rare eccezioni, soffre di amnesia e
preferisce dare spazio ai soliti opinionisti ed esperti militari, che
discettano con malcelata, fanciullesca eccitazione sugli effetti provocati da
granate e bombe a grappolo, e valutano freddamente, senza dare segno di un
briciolo di umanità, la possibilità del ricorso agli ordigni nucleari, la
cui evocazione è di per sé terrificante, per piegare la resistenza irachena.
E' uno spettacolo che provoca disagio, soprattutto quando ci si rende conto
che lo stesso copione è già stato recitato tante volte e prevede un solo
finale, la guerra, e le solite vittime, i poveracci senza colpa alcuna,
destinati a passare alla storia come "danni collaterali".
E' stato così nel '91, quando l'esercito
iracheno, alla vigilia dell'attacco alleato, venne dipinto come uno dei più
temibili al mondo, salvo sciogliersi come neve al sole sotto la pioggia di
missili che ha sepolto il paese, lasciando però intatto il suo regime. E'
stato così sul finire del 2001, quando nelle settimane precedenti il
conflitto in Afghanistan sono comparse sui teleschermi le immagini delle
terribili esecuzioni pubbliche compiute dai talebani, e il burqa è stato
assurto a simbolo della loro malvagità, trasformando quella che doveva essere
la caccia a Bin Laden in una guerra per l'emancipazione delle donne afghane.
Sarà così anche questa volta. Anzi, è già
così. Truppe di dissidenti, rifugiati politici, curdi perseguitati dal
dittatore di Baghdad sono già stati reclutati dai vari Vespa e Ferrara per
raccontare agli italiani la malvagità di Saddam Hussein. Si prova tenerezza a
vederli, così coccolati e vezzeggiati sotto i riflettori degli studi tv,
quasi increduli di ricevere tante attenzioni dopo essere stati snobbati per
anni, mentre il mondo cosiddetto civile era impegnato a esportare altrove la
democrazia, insieme alle Nike e alla Coca Cola. Si prova rabbia a sapere che,
una volta che anche la pratica Iraq sarà stata archiviata, sono tutti
destinati a sparire molto in fretta dai palinsesti, insieme ai loro drammi,
mentre i predicatori della disinformazione di regime saranno ancora lì, con
le solite facce di bronzo e il copione già pronto per giustificare la
prossima guerra.
Qualcosa però sta cambiando. L'imponente
mobilitazione in favore della pace che il 15 febbraio ha portato a manifestare
nelle strade di tutto il mondo più di cento milioni di persone è il
risultato di una presa di coscienza che per molte persone va oltre il semplice
"no" alla guerra. E' difficile individuare tutte le motivazioni che
hanno spinto una massa così eterogenea a esprimere in modo talmente risoluto
la propria avversione ai progetti militari di Bush & C., ma è legittimo
il sospetto che molti, fino a ieri assuefatti alle verità ufficiali, abbiano
finalmente cominciato a mangiare la foglia rispetto al teatrino dei
prestigiatori della disinformazione.
All'istintiva avversione alla guerra come
strumento di risoluzione delle controversie internazionali, con l'inevitabile
spargimento di sangue innocente che essa comporta a dispetto delle bombe
intelligenti, e alla consapevolezza che la guerra all'Iraq finirebbe per
aggravare, non eliminare, i problemi legati al terrorismo internazionale, si
sta sommando una crescente repulsione nei confronti dell'ipocrisia di politici
del [piccolo] calibro di Bush, Blair e Berlusconi, che dicono quello che
vogliono ma non spiegano perché lo vogliono, e se lo fanno insultano
l'intelligenza di chi li ascolta. Parole come democrazia, libertà o
giustizia, usate quotidianamente per giustificare il massacro prossimo venturo
del popolo iracheno, in bocca a loro suonano, infatti, come suonerebbe una
bestemmia in bocca al Papa.
Se Bush si fosse presentato davanti alle
telecamere e avesse spiegato le vere ragioni per cui vuole attaccare l'Iraq, e
perché lo vuole fare il più presto possibile, ovvero 1] che la sua
amministrazione vuole ottenere il pieno controllo delle ingenti risorse
petrolifere della regione, 2] che la crisi economica statunitense è grave e
bisogna fare in modo di rivolgere altrove l'attenzione dell'opinione pubblica
interna, 3] che l'industria militare made in Usa sforna in quantità armi di
distruzione di massa sempre più sofisticate che non possono essere lasciate a
marcire negli arsenali, 4] che dopo la mancata cattura di Osama Bin Laden in
Afghanistan, e dunque il sostanziale fallimento della missione, era necessario
individuare un altro nemico, possibilmente non troppo tosto, su cui sfogare la
rabbia post-11 settembre, 5] che la permanenza delle truppe nell'area del
Golfo Persico costa all'erario a stelle e strisce un miliardo di dollari alla
settimana e dunque non si può permettere di aspettare che gli ispettori Onu
finiscano in santa pace il loro lavoro perché rischia di restare in bolletta,
forse qualcuno, anche tra coloro che hanno sfilato per la pace il 15 febbraio,
avrebbe perlomeno apprezzato la sua sincerità. Forse. Ma Bush non è così
scemo [o onesto, a seconda dei punti di vista] e dunque insiste nel propinarci
la parabola del buon samaritano impegnato a esportare democrazia e benessere
su tutta la faccia della terra. E qualcuno, purtroppo, gli crede ancora.
Il movimento per la pace e l'antiamericanismo
Tra i bersagli su cui amano accanirsi i
prestigiatori della disinformazione guerrafondaia, uno dei prediletti è
quello rappresentato dal movimento pacifista, che fin dall'inizio
dell'escalation militare ha espresso la propria opposizione alla guerra
all'Iraq "senza se e senza ma". Se la censura della manifestazione
del 15 febbraio messa in atto dalla Rai ha avuto l'unico effetto di coprire di
ridicolo i già screditati vertici aziendali, la credibilità del messaggio di
cui si è fatto portavoce il movimento per la pace è invece minacciata ben più
seriamente dalle distorsioni della realtà portate avanti nel nostro paese
dalla propaganda di regime, in particolare sotto due aspetti.
Da un lato si assiste all'ostinato tentativo
di sostituire l'alternativa autentica tra guerra e pace, al centro del
messaggio pacifista, con quella posticcia tra americanismo e antiamericanismo,
con l'obiettivo di liquidare le manifestazioni di piazza come espressione di
un anacronistico rigurgito di sentimenti veterocomunisti o veterosessantottini.
E' forte il sospetto che questo atteggiamento sprezzante nei confronti di un
movimento che esprime in modo democratico idee largamente condivise
rappresenti una peculiarità tutta italiana, uno dei tanti sintomi
dell'imbarbarimento di una società e di una classe politica il cui processo
di maturazione post-guerra fredda è stato interrotto dall'irresistibile
ascesa dell'anomalia berlusconiana, col suo codazzo di Sgarbi, Buttiglione,
Schifani e pseudo-intellettuali vari in servizio di servilismo permanente
effettivo. Una società in cui qualsiasi opinione e presa di posizione viene
forzatamente interpretata facendo riferimento agli schieramenti ideologici di
mezzo secolo fa. In due parole, una società malata.
Nel tranello semantico volto a trasformare
"guerra" e "pace" in sinonimi di "americanismo"
e "antiamericanismo" sono purtroppo caduti anche alcuni
rappresentanti del movimento pacifista. Il giorno precedente la marcia per la
pace del 15 febbraio, il Corriere della Sera, per esempio, ha dedicato un
articolo agli slogan che sarebbero stati scanditi in piazza dai manifestanti,
riproponendo l'accostamento tra pacifismo e antiamericanismo e interpellando a
questo proposito i portavoce di alcuni gruppi e associazioni che avevano dato
la propria adesione all'appello del comitato organizzatore. Si è rivelata una
lettura piuttosto deprimente. Il testo era circondato da una serie di slogan
puerili tutti rivolti al dittatore di Baghdad, sul genere "Saddam
assassino, non fare il birichino", e all'interno dell'articolo si
assisteva alle imbarazzanti e imbarazzate acrobazie verbali dei portavoce
pacifisti, impegnati a rassicurare sul fatto che la piazza avrebbe riservato
una buona dose di critiche e invettive anche al raìs iracheno, come se questo
fosse l'unico modo possibile per rispedire al mittente le accuse di
antiamericanismo.
E' troppo chiedere a coloro che rappresentano
il movimento per la pace nel circo mediatico un salto di qualità nelle loro
argomentazioni? E' troppo chiedere loro di fare un passo indietro e rinunciare
all'esposizione mediatica quando è chiaro che essa finirà soltanto per
portare acqua al mulino di chi ha come unico scopo quello di delegittimare il
messaggio pacifista? In quell'articolo del Corriere della Sera, così come in
quasi tutte le trasmissioni televisive andate in onda negli ultimi tempi,
sarebbe stato più incoraggiante, e più sensato, trovare altre risposte.
Risposte ovvie, banali, scontate, che tuttavia stentano a emergere dal
frastuono dei jet, dei soldati e delle portaerei che si stanno ammassando nel
Golfo Persico.
Essere per la pace non significa schierarsi
dalla parte di Saddam Hussein contro gli Stati Uniti o, per metterla in altri
termini, preferire la dittatura alla democrazia. La scelta di scendere in
piazza per chiedere la pace mentre la guerra appare ormai scontata è, al
contrario, un segno di fiducia e di amore per la democrazia, che nelle libere
manifestazioni trova una delle sue espressioni più autentiche. Tanto più in
una fase storica come quella attuale, caratterizzata da una frattura sempre più
profonda tra cittadini e istituzioni, tra rappresentati e rappresentanti, con
i vari Bush e Berlusconi impegnati a difendere solo ed esclusivamente gli
interessi delle ristrette oligarchie di potere di cui sono espressione.
La vera deriva dittatoriale è quella di chi
pretende di ammutolire ogni forma di dissenso sventolando lo spettro della
guerra e del terrorismo. Quella di chi, come il presidente Usa, impone ai suoi
concittadini e agli altri paesi un ricatto inaccettabile, dichiarando "o
con noi, o contro di noi", come se il mondo fosse una partita di Risiko e
la posta in gioco qualche carroarmato di plastica. Quella di chi, come sta
avvenendo nel nostro paese, vuole trasformare il Parlamento in un luogo
superfluo, destinato a prendere atto di decisioni assunte altrove, e si affida
alla retorica stantia dei "nostri ragazzi" per descrivere i militari
professionisti pagati profumatamente che sono stati inviati in Afghanistan a
sostituire le truppe americane. Quella di chi, come l'attuale vicepresidente
del Consiglio, fino a qualche anno fa dichiarava pubblicamente di considerare
un dittatore, Mussolini, il più grande statista del XX secolo, o quella di
chi, come un ministro leghista dell'attuale governo, prendeva l'aereo per
portare la sua solidarietà a un dittatore, Milosevic, e viceversa non batteva
ciglio mentre militanti del suo partito cospargevano di piscio di maiale il
terreno di un paese destinato a ospitare una moschea.
La scelta di scendere in piazza in difesa
della pace deriva anche dalla vergogna e dall'incazzatura che proviamo
nell'essere governati da personaggi del genere in una fase storica così
delicata. Dall'angoscia di vedere il mondo di cui facciamo parte, il mondo
sedicente civile, imbarcarsi in una guerra assurda, che nasce da motivazioni
che nulla hanno a che vedere con la democrazia o con la giustizia. I nostri
slogan contro Bush, Blair e Berlusconi nascono dalla convinzione, speranza o
illusione che, proprio perché viviamo in una democrazia, la nostra opinione
dovrebbe essere tenuta in considerazione, e dalla consapevolezza che la scelta
tra la guerra e la pace è nelle loro mani, non in quelle di Saddam. Perché
poi sprecare il fiato contro un dittatore come quello iracheno che, essendo un
dittatore, per definizione non si lascia certo condizionare da urla scandite a
migliaia di chilometri di distanza? Per far contenti gli
"autorevoli" pennivendoli che figurano sul voluminoso libro paga del
nostro presidente del Consiglio?
In quanto all'accusa di antiamericanismo, è
bene anche chiarire che cosa si intenda per "America". L'America
delle migliaia di persone che sono scese in piazza negli Stati Uniti il 15
febbraio per fermare la guerra, rendendosi per questo colpevoli di
antipatriottismo di fronte al tribunale dei media di regime, o l'America
dell'amministrazione Bush, impegnata a sperperare miliardi di dollari nei suoi
progetti da dottor Stranamore, mentre settori importanti come la sanità e
l'istruzione subiscono un ulteriore deterioramento a scapito delle fasce
sociali più deboli? Se l'America è quest'ultima, beh sì, per quanto mi
riguarda mi considero antiamericano, così come mi sta bene essere considerato
antitaliano, se per Italia si intende quella rappresentata da Berlusconi,
Bossi e Fini.
Il pacifismo e l'opposizione al pensiero unico neoliberista
Nel nostro panorama mediatico, anestetizzato
dai prestigiatori della disinformazione, quello dell'antiamericanismo non è
purtroppo l'unico stereotipo perpetuato ai danni del movimento per la pace. Si
assiste, infatti, anche a una tendenza sistematica a ridurre il messaggio
pacifista a utopia irrealizzabile, buono cioè per i discorsi del Papa ma non
praticabile nel mondo reale. Questo stereotipo è spesso accompagnato dalla
frase "siamo tutti per la pace, ma…", dove quel "ma",
nelle intenzioni di chi lo pronuncia, dovrebbe chiudere il discorso una volta
per tutte. Il guaio è che spesso lo chiude davvero.
Troppe volte la pratica del pacifismo viene
declinata esclusivamente al negativo, ovvero come rifiuto della guerra senza
se e senza ma, proprio come recitava lo slogan scelto per la manifestazione
del 15 febbraio. Nel caso della guerra voluta da Bush e dai suoi complici
europei, questo tipo di declinazione sembra sufficiente, perché le ragioni
addotte per giustificare l'attacco sono del tutto pretestuose, così come
appare del tutto arbitraria la scelta dell'Iraq come obiettivo. In generale,
però, descrivere il pacifismo come semplice negazione della guerra può
rivelarsi un limite che offre il fianco al cinismo degli imbonitori di regime.
L'abusato paragone con quanto avvenuto durante la seconda guerra mondiale,
infatti, è sempre in agguato e, per quanto insostenibile, rischia davvero di
far apparire la scelta della pace come un'opzione fuori dalla logica delle
cose. Per contrastare questa eventualità, è fondamentale tentare di far
emergere dalle nebbie della disinformazione i comportamenti concreti in cui può
tradursi la filosofia pacifista, così da smascherare l'ipocrisia di chi
indica nella guerra l'unico strumento efficace per sconfiggere il terrorismo
internazionale ed esportare la democrazia.
A questo proposito, è utile citare un altro
episodio ormai dimenticato nello sgabuzzino della storia, benché risalga a
una manciata di anni fa soltanto. E' un episodio che ha come scenario la
Nigeria, come protagonisti principali il governo del paese africano e la Shell,
la multinazionale petrolifera anglo-olandese, e come vittime il poeta e
scrittore Ken Saro-Wiwa e altre otto persone del popolo degli ogoni, tutti
condannati all'impiccagione dalla dittatura militare del generale Sani Abacha.
La loro colpa? Aver denunciato pubblicamente i gravi danni provocati
all'ecosistema del delta del Niger dalle trivellazioni del sottosuolo compiute
dalla Shell per quasi quarant'anni. Il 10 novembre 1995 la condanna a morte
viene eseguita senza che la multinazionale del petrolio abbia mosso un dito
per perorare la causa di Saro-Wiwa e degli altri otto ogoni e per
stigmatizzare la loro ingiusta detenzione. Dovendo scegliere, la Shell ha
preferito non inimicarsi il regime di Abacha per continuare ad assicurarsi i
lucrosi profitti derivanti dallo sfruttamento intensivo dei giacimenti
nigeriani.
Chi, in buona fede, finora ha considerato il
pacifismo alla stregua di un'utopia fine a se stessa forse, alla luce di
vicende come questa, rimetterà in discussione il suo giudizio. Il pacifismo,
infatti, oltre al rifiuto tout court della guerra impone anche una coerenza di
comportamenti volti a creare le condizioni che rendano inutile il ricorso alle
armi. Ciò significa che la pace non è uno stato di cose che si può
semplicemente imporre con la forza, magari dislocando qualche centinaio di
caschi blu delle Nazioni Unite in qualche angolo del globo, bensì un processo
che si costruisce nel tempo attraverso scelte concrete che non possono e non
devono essere in contrasto con i principi su cui si fondano le nostre società.
Essere pacifisti significa perciò pretendere
dalle nostre istituzioni, dalle nostre industrie, dai nostri concittadini, e
anche da noi stessi, la messa in pratica dei valori di libertà, giustizia,
uguaglianza e democrazia di cui le società occidentali si vantano di essere
fautrici. Pretendere, per esempio, dal governo Blair, il rispetto di una delle
promesse elettorali del 1997, che contribuì a riportare i laburisti al potere
dopo quasi un ventennio trascorso all'opposizione. Ovvero l'impegno, presto
smentito dai fatti, di fare del rispetto dei diritti umani il cardine della
propria politica estera, prestando particolare attenzione al comportamento
delle aziende britanniche che operano o esportano in altri paesi, a partire
dalla fiorente industria militare. Pretendere, allo stesso modo, che le
multinazionali vengano chiamate a rispondere delle loro responsabilità quando
si rendono complici delle malefatte di regimi dittatoriali, come nel caso
della Shell in Nigeria, e ogni volta che in nome del profitto calpestano i
diritti umani, approfittando della loro posizione di forza. Pretendere che
l'amministrazione Usa non fornisca più alcun tipo di supporto ad alcun tipo
di dittatura, perché i dittatori amici di oggi sono destinati a diventare i
satana di domani. Pretendere che Bush la smetta di prestare un po' di
attenzione all'opinione degli altri governi solo quando si tratta di
raccattare alleati a sostegno di un'azione militare, fregandosene invece in
ogni altra circostanza.
E' evidente che questo approccio, in caso di
bombardamento, non renderà meno tragiche le conseguenze per la popolazione
civile irachena. Può essere utile, però, per ribaltare il ragionamento di
chi liquida come utopia l'opposizione alla guerra. Il pacifismo, infatti, non
è astratto e utopistico in sé, ma è reso impraticabile dalle scelte
concrete di chi vuole che rimanga tale. La vera utopia irrealizzabile, senza
se e senza ma, è invece quella dell'amministrazione Usa e dei suoi alleati
scodinzolanti, che pretendono di trovare negli arsenali militari la risposta
in grado di sradicare il terrorismo e zittire il malcontento che ribolle in
tutto il mondo.
Il caso di Saro-Wiwa e degli altri otto ogoni
assassinati dal silenzio della Shell aiuta anche a comprendere perché
l'attuale movimento per la pace coincide, in larga misura, con l'ampio
schieramento di associazioni, organizzazioni non governative, sindacati e
singoli cittadini che negli ultimi anni hanno alzato le loro voci per
contestare il pensiero unico della globalizzazione neoliberista. All'origine
di questa convergenza c'è infatti la convinzione che la strategia della
guerra preventiva, inaugurata contro l'Iraq, rappresenti il braccio armato di
una oligarchia che ha individuato nel neoliberismo il dogma da imporre a tutti
i paesi del mondo, che essi lo vogliano o meno. Come è sempre più chiaro, si
tratta di un modello di organizzazione dell'economia e della società che
tende ad ampliare il divario tra ricchi e poveri all'interno delle società
occidentali, così come tra i paesi del Nord e del Sud del pianeta,
anteponendo sistematicamente i profitti della grande industria, e della
ristretta elite che la dirige, agli interessi collettivi e ai diritti dei
singoli cittadini.
Dopo il collasso dell'Unione Sovietica e la
fine della guerra fredda, questo modello sembrava avere la strada spianata
davanti a sé, anche grazie alla promessa di estendere su scala globale il
benessere delle società occidentali. Ora che questa promessa comincia ad
apparire per quello che è, una bugia, e il verbo neoliberista mostra i segni
di una grave crisi, tra i suoi predicatori si fa sempre più strada la
tentazione di annullare ogni forma di dissenso, sia interno che esterno,
mostrando i muscoli della macchina militare. E' davvero paradossale che i più
infervorati ultrà del pensiero unico nel momento della guerra invochino e
pretendano da parte dei propri concittadini il serrate le fila, in nome
dell'amor patrio e di ambigui interessi nazionali. Patria e nazione sono
infatti due termini che proprio loro hanno svuotato di significato, in nome
del profitto e della trasformazione del mondo in un unico grande mercato.
E' per l'insieme di queste ragioni che i
ripetuti appelli all'unità che precedono l'aggressione militare all'Iraq,
provengano essi da Bush, Blair, Berlusconi o chicchessia, sono destinati a
fare un buco nell'acqua. Non esiste infatti amor patrio o interesse nazionale
che possa spingere il popolo della pace a cambiare idea rispetto a questa
guerra, che resta assurda, inutile e sbagliata. Alla faccia dei prestigiatori
della disinformazione.