SIRENE, NAVIGANTI E ALTRE STORIE
testo di Nicolò D'Alessandro
 
“Il viaggio, che è come una scienza più grande e grave, ci riporta a noi stessi”. (A. Camus, "Carnets", 1962)


Parto da questa breve citazione per affrontare la lettura dei lavori di Daniela Bellotti. Non so se definire il suo lavoro come di un’esploratrice che si muove alla ricerca di sé nel luogo dello spaesamento. Ritengo proprio di sì. E’ un viaggio, il suo, che inizia guardandosi intorno, nel nulla contaminante delle grandi produzioni di beni materiali, di prodotti spesso inutili e fuorvianti, nel massificante contagio delle pressanti icone del nostro tempo immaginifico e supponente, che agiscono nel nostro cervello, nelle nostre scelte, nella globalità dell’immaginario collettivo. Vuole la pittrice con l’attenzione al mondo circostante, rivendicare all’arte il “luogo del silenzio”. Quel territorio che porta alla riflessione, al “pensiero forte”, all‘utopica bellezza, all’utopia della storia, all’immortalità, alla continuità dei valori della più alta e nobile tradizione umana. E’ un procedere, il suo, come con domande senza risposte, per frammenti, alla ricerca di qualcosa in quel misterioso percorso della creatività che mima la vita, l’esistente.
Dalle esperienze della Trans-avanguardia alla ricerca di un personale espressionismo, il percorso creativo di Daniela Bellotti, tra l’enigmatico e il simbolico, attraversa un cammino sotterraneo, fa affiorare impalpabili memorie, racconta un mondo di donne adulte, delle quali abitudini e gesti sono ripetitivi ed omologati. Emerge una pittura colta che a volte attinge e cita brani della pittura del ‘900 (Gauguin, Picasso, Nolde, gli espressionisti tedeschi), ma soprattutto una pittura autoreferenziale, un rimescolamento di senso delle idee, dei pensieri, delle immagini. 
In particolar modo la donna ha un ruolo fondamentale nel rappresentare l’eterna “lirica” della seduzione e chi meglio di una donna può raccontare, senza svelare, affrontando il tema della seduzione, l’eterno femminino? Popola i suoi “cartoni” una moltitudine di donne. La fisicità anzitutto. Il corpo è esposto per accumuli e per frammenti. Rifletto. Il corpo è seduttivo.  Le sirene, figlie del mito, né carne né pesce, le ammaliatrici del mare cantano soavi ed irresistibili. Belle, provocanti e crudeli traggono a rovina i naviganti, alla pazzia. 
Ancor oggi sirena è, paradossalmente, la negazione del sesso femminile.  Voglio dire che il canto minaccioso di oggi, più che quello di ieri è l’esasperazione dell’uso del corpo. Seduzione nell’etere rivolta contro l’indebolito immaginario maschile sotto questo nostro frigido cielo. La donna racconta col proprio corpo l’assenza, racconta il desiderio al femminile dell’ identità tenacemente cercata, ma ancora negata.
Ha dietro una storia complessa, la donna, non completamente chiarita alla lettura maschile, che coincide da sempre con il percorso dell’arte, della sua storia e della geografia del gusto. Onnipresente sia nel mondo reale che in quello virtuale nella cultura odierna costituisce ancor più l’elemento trainante, il cardine nei processi immaginativi sia artistici che estetici.
Tutto oggi deve condurre alla donna, all’idea che la donna offre di sé, all’essenza della sua femminilità, alla sua ambiguità, resa ancor più inquietante da un sistema che la rende icona, oggetto eccessivamente visibile ed irraggiungibile, macchina della seduzione esasperata da un consumismo eccessivo. Così poco sono valse le grandi battaglie femministe per restituire alla donna un ruolo individuale e un’identità paritaria non contrapposta all’uomo, ma diversa? 
Queste riflessioni personali mi portano a dire che in queste donne dipinte il movimento delle braccia, delle gambe, i gesti l’uno diverso dall’altro, rimandano al complesso armonico rapporto che la donna ha con il suo corpo. La voglia di raccontare, che ravviso nel suo apparato figurativo, mi porta a credere che l'artista cerchi di stabilire contatti con le cose al femminile, che voglia cogliere l’anima del mondo.
Una pittura che svincolata da qualsivoglia accademismo traduce un disinvolto approccio all’uso del colore. Il cartone da imballaggio è il supporto preferito, ne sfrutta le qualità sia per il colore che per il senso della precarietà. 
E’ un teatrino delle meraviglie, contro la pigrizia, quello che Daniela Bellotti si ritaglia e realizza nei cartoni. Evoca e suggerisce fugaci, probabili storie. Invita garbatamente a prendere parte al gioco nel tentativo di “demistificare” l’arte poiché “il re è nudo” da tempo. E’un suggerire una rotta, fuori rotta, un possibile percorso.
Tenta in definitiva di scampare al collettivo naufragio ribadendo il valore dell’unicità. La misura “artigianale” da lei richiamata nelle puntuali riflessioni sull’arte e sulle sue scelte personali serve a contrapporre all’eccesso tecnologico “lo scatto ideativo del pensiero artistico”, tenta di stravolgere l’ingranaggio del potere omologante, quello legato ai grandi sistemi mediatici con un linguaggio intimo, a misura di stanza. Ed a misura di stanza le sue donne sono inquiete, si muovono, si agitano mescolando l’esistente alla ridondanza di sé, disvelando l’inganno dello spazio e del tempo. “Ogni istante è autonomo” ci ricorda Borges e ciò, mi pare, voglia ribadire Daniela Bellotti parcellizzando il corpo femminile per ricomporlo nell’assenza di prospettiva, di regole rappresentative. Elementi ricorrenti si notano nei suoi cartoni: la danza come esaltazione dell’armonia e dell’equilibrio; il ballo, che appartiene alla sfera della seduzione quale approccio tra uomo e donna, come una comunicazione privilegiata d’avvicinamento carica di promesse e di futuro; infine la cubista, figura simbolo, icona del nostro tempo, inventata per sedurre. 
Leggo, in un lavoro della pittrice, la scritta “Vamos a bailar”. Non è forse un esplicito invito all’espressione del corpo, al ritmo e all’armonia.  Non è ciò un’allettante proposta?
 

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