Ogni primavera ritornava "mazza e cuze", passatempo che contava almeno
due partecipanti. Anzitutto, due cose erano essenziali per impostare il
giuoco: “ La mazza" (un pezzo di ramo lungo 30-40 centimetri, dal diametro
oltre un pollice) e "lu cuze "(una modesta frazione di "mazza"appuntita
alle due estremità come un lapis).
Dopo aver tirato a sorte, chi era stato preferito dalla fortuna doveva
percuotere con la "mazza" il "cuze" sì da lanciarlo il più
lontano possibile. L'altro concorrente, raggiunto il piccolo aggeggio,doveva
rilanciarlo in modo tale da contattare la "mazza" disposta per terra o
da raggiungere propriole immediate prossimità. In uno dei due casi
il testimone passava al concorrente che aveva toccato con "lu cuze" "la
mazza". Diversamente, chi teneva il testimone (la mazza) percuoteva per
tre volte
"lu cuze" tentando di lanciarlo il più lontano possibile. Era
consentito aggiungere ad ogni tiro eventuali colpi volanti.
Indi si procedeva alla stima della distanza raggiunta da "lu cuze"
rispetto al punto di partenza. La misura, in mazze, doveva essere accettata
dall'avversario. Differentemente, si procedeva al controllo. Se la stima
era approssimativamente rispondente e per difetto, il numero indicato veniva
raddoppiato. Differentemente, si perdeva ogni punto. Il giuoco procedeva.
A turno ogni concorrente si esibiva. Risultava vincitore chi raggiungeva
per primo una cifra indicata come meta al principiare del gioco
Si arrotolava un fazzoletto a forma di fuso e si provvedeva ad annodare
più volte una delle estremità fino ad ottenere un grumo rigido.
Chi teneva il fazzoletto invitava a turno ogni giocatore ad aprire la mano
che veniva percossa con la parte annodata. Il mattatore ripeteva:
"Cicce
paricchie, paricchie cu quisti! "*.. Alla fine del ritornello i
due impegnati a giocare puntavano attraverso le dita un numero a piacimento.
Se la quantità pensata e mostrata dai due in contemporaneità
attraverso le dita
corrispondeva, il fazzoletto passava al giocatore che aveva parato
il colpo. lì giuoco proseguiva.
TRAD.:* “Ciccio appariglia, appariglia il mio numero!”
ALLA ZOCA
La concorrente doveva saltare la fune che faceva roteare da sola. Ogni
saltello veniva apostrofato scandendo i numeri in successione. Il punteggio
era costituito dal numero pronunciato prima dell'eventuale inciampo, che
ìnterrompeva il giuoco. Differente era "ARANCIA, LIMONE, MANDARINO...".
In questo caso la lunga corda veniva fatta roteare da due delle concorrenti.
Ad ogni partecipante veniva attribuito il nome di un frutto. Di conseguenza
l'invito a saltare veniva fatto proprio pronunziando ad alta voce uno dei
nomi posti in giuoco, pnma d'avviare una cantilena composta esclusivamente
dai
nomi di frutti assegnati alle partecipanti: "ARANCIA, LiMONE, MANDARINO,
CILIEGIA, PERA, MELA
"Alla zoca" ("alla fune") aveva partecipanti esclusivamente femminili.
ALL'AMMUCCIA
"All 'ammuccìa” corrisponde all'attuale "a nascondino".
Un bambino contava in un angolo, con gli occhi poggiati sul dorso dell'avambraccio.
Mentre i numeri venivano scanditi ad alta voce, il gruppo provvedeva a
nascondersi in maniera sparsa. Raggiunta una cifra prefissata il ragazzo
"al palo" doveva stanare ogni compagno. Il primo ad essere scoperto veniva
condannato all'angolo. Il giuoco proseguiva. Talvolta il ragazzo "al palo"
non riusciva a scoprire alcun partecipante al giuoco. Lo sfortunato
restava all'angolo per una nuova conta.
Più difticile era farsi sostituire al cantuccio quando "all
'ammuccia" si trasformava in "a liberà' " Difatti l'ultimo aveva
la possibilità di liberare tutti. In questo caso facilmente si rimaneva
"al palo" per più volte.
Vi erano due possibilità per scegliere il primo da destinare
all'angolo: o si tirava a sorte contando i numeri puntati dai concorrenti
attraverso le dita oppure "all 'ammuccia" era preceduto da un altro originale
giuoco detto "alla lampa".
ALLA LAMPA
Ci si ricorreva per determinare chi doveva sostare al muro quando si giocava "all 'ammuccia". Il più anziano stendeva il braccio col dorso rivolto verso l'alto. Il dito indice di ogni partecipante sottostava al palmo dell'arto sotteso che roteava in senso antiorario quando si cominciava a recitare la cantilena "Alla lampa, alla lampa 'ellu vecchie de Capeghjanche, Lu sorge curretore a chi 'ncappa cova! "*. Veniva mandato al muro, "a cuvà", chi rimaneva prigioniero della mano chiusa di colpo al termine della filastrocca.
TRAD.: “Alla lampada , alla lampada del vecchio dalla testa bianca.Il topo corridore destina al muro chi acchiappa”