L’INIZIAZIONE CRISTIANA
Una volta a Cutro , quando veniva battezzato un bambino si faceva
una festa molto semplice perché le famiglie erano povere. Il vestito
del bambino era bianco ed era cucito dalla sarta.
Quando veniva chiesto a qualcuno di battezzare
il bambino , era sconveniente rifiutarsi, perché era
ed è un onore per il battezzante. Dopo il battesimo il padrino veniva
chiamato “ U SAN GIUGUANNI” perché San Giovanni Battista ebbe
l’onore di battezzare Gesù.
Se due persone battezzavano a vicenda i
propri figli diventavano “San Giuguanni fruntali” . In tal
modo si stabiliva tra queste due persone un rapporto di amicizia e di stima
tanto che, quando un compare passava davanti alla casa dell’ altro compare,
si toglieva il cappello in segno di saluto, anche se la casa era chiusa.
Il giorno dell’onomastico
i due compari si scambiavano doni che venivano messi in una cesta di vimini
“a cisteddra”.
Dopo la cerimonia
religiosa in chiesa, si andava a casa. Il bambino o la bambina venivano
messi per cinque minuti sul lettone e anche se piangevano dovevano restarci,
perché si riteneva che sarebbero venute le fate a portare i loro
doni: quali la bellezza , l’intelligenza, la laboriosità la
buona educazione.
In dialetto si diceva che “venanu i fati e la ‘mpatanu”.
U San Giuvanni deponano sul lettone “i cannallini”,che erano dei
confetti rotondi di colore bianco , e una busta contenente dei soldi.
Anche per la prima
comunione e per la cresima si facevano feste semplici.
Per quanto riguarda il vestito della prima comunione
, spesso per confezionarlo si utilizzava la stoffa dell’abito nuziale della
mamma.
Finita la
cerimonia in chiesa si invitavano parenti e vicini di casa e si offriva
loro “ u rosoliu”. Oggi invece , dopo la cerimonia , si va al ristorante
e si spendono molti soldi
TRADIZIONI SCOMPARSE
A Cutro, quando due donne erano molto amiche e volevano diventare”cummari”
a tutti i costi , anche se non avevano figli da battezzare o da cresimare,
diventavano “ cummaridu palijaiu” per suggellare con un patto la loro amicizia
.
Il 24 Giugno , giorno
in cui si festeggia San Giovanni, una commare mandava all’altra su
un vassoio “a nguantera” una specie di pupazzo “u pupulu” fatto con
un’erba profumata che nasce spontaneamente nei campi.
Quest’erba si chiama “ pulijaau.” Sulla testa del pupazzo
veniva posto un anello d’oro e intorno i “cannellini” e una bottiglia di
“rosoliu” . Il 15 Luglio , giorno della festa di San Vittore l’altra commare
ricambiava il dono e retituiva l’anello. Oggi questa tradizione non c’è
più perché bastano la stima e l’affetto tra due persone
per continuare un rapporto d’amicizia. Ma e’ rimasto un detto “cummari
du’ pulijau quandu ti viju mi ndi priju ma sa ti trùavu a nu’ malu
passu ddra’ ti viju e ddra’ ti lassu”, che evidenzia la precarieta’ di
quel rapporto. Una volta, quando un giovane s’innamorava di una ragazza,
aveva difficolta’ a comunicarle personalmente i suoi sentimenti perche’
le ragazze stavano come segregate in casa. Allora, tramite una vicina di
casa (“a’ tramizzera”) il giovane sapere alla ragazza e alla madre di lei
le proprie intenzioni. Così il ragazzo ogni giorno passava davanti
alla casa della ragazza. Dopo qualche tempo, il ragazzo metteva dietro
la porta della giovane prescelta un pezzo di legno (“nu’ zzippunu “), che
era la radice di un albero. Quando la mattina il papa’ della ragazza apriva
la porta, quel pezzo di legno cadeva all’interno sul pavimento. Se la risposta
era affermativa il pezzo di legno veniva tenuto in casa; se la risposta
era negativa veniva lasciati dietro la porta. Questa usanza col tempo e’
scomparsa. Sara’ poi il padre del giovane che andra’ a chiedere la mano
della ragazza per il figlio. Se la ragazza era innamorata del giovane ma
il padre di lei non voleva che lo vedesse, i due giovani lasciavano le
rispettive case per stare insieme (“sindi fuijvano”). Poterlo fare pero’
era molto difficile perche’ la ragazza era molto controllata. Solo in un
momento di distrazione della mamma e del papa’ della ragazza, gli amici
del fidanzato sequestravano la ragazza e la consegnavano a lui al
momento e al posto
Giusto . Gli amici spalleggiatori che favorivano
la fuga d’amore “ a fuijitina”
Erano chiamati “spaddhrijatri”. Durante il fidanzamento
i due giovani non dovevano stare vicini e parlarsi, lo potevano fare solo
il giorno della promessa, quando il matrimonio era imminente. Oggi invece
i fidanzati possono uscire insieme e conoscersi meglio.
UN CORREDO PER TUTTA LA VITA
Se una mamma aveva figlie femmine, già da quando
erano piccole, preparava per loro il corredo (“a’ dota”) perché
le ragazze si sposavano presto. C’è un proverbio cutrese che dice
“figgihija fimmina ‘nta fascia e a’ dota ‘nta cascia”. “A’ dota” comprende
tutto quello che serve per mettere su casa: parecchi capi di biancheria
intima e lenzuola, coperte, cuscini, tovaglie ecc. che veniamo preparati
anzitempo; e naturalmente il mobilio, la batteria di pentole e padelle
(“a’ rama”), i piatti, le posate, i bicchieri ecc. che venivano comprati
in prossimità del matrimonio. La parte di corredo comprendente indumenti,
coperte ecc. veniva messa nelle ceste e trasportata a casa degli sposi
dalle nonne. Se il giovane ne aveva la possibilità, si costruiva
una casetta, altrimenti la prendeva in affitto. Però, poi, con tanti
sacrifici riusciva a costruirsela per farsene “l’ombrella” per la vita.
Ancora oggi le mamme preparano per le figlie la “dota”, che è anche
più ricca perché le condizioni economiche delle famiglie
sono migliorate.
LE USANZE DEL MATRIMONIO
Quando due giovani si sposavano si faceva una festa
molto semplice. La mattina gli invitati si recavano a casa della sposa.
Poi, seguita da un lungo corteo, la sposa, tenuta a braccetto dal
papà e vestita tutta di bianco con un velo lungo tenuto da damigelle,
si recava in chiesa, dove l’attendeva lo sposo per essere condotta fino
all’altare. Dopo la celebrazione del rito religioso non si andava al ristorante,
come si fa adesso, ma si tornava a casa. Per abbellire il percorso del
corteo i vicini adornavano finestre e balconi di coperte di ogni colore.
A casa si offriva agli invitati il rinfresco fatto di liquori preparati
in modo artigianale, confetti, cioccolatini e biscotti. Un gruppo di soli
uomini si appartavano in un locale vicino per fare uno spuntino e bere
qualche bicchiere di vino. A volte una damigella si metteva su una sedia
e recitava una poesia. Dopo le veniva dato il fascio di fiori della sposa
e lei lo lanciava in alto: chi lo prendeva era ritenuto fortunato. Dopo
il rinfresco gli sposi aprivano le danze e si ballava fino a notte inoltrata.
Il giorno dopo c’era il pranzo ma solo per gli sposi e i loro parenti più
stretti. E la sera di nuovo musica e ballo. Forse una volta le feste in
occasione di matrimoni erano più divertenti.
LE MODALITA’ DEL LUTTO
Una volta a Cutro il lutto durava molto tempo. Se moriva
il capofamiglia, la moglie si graffiava il viso, si scioglieva i capelli
e piangeva. Poi si cantavano le lodi del morto e gli si faceva la veglia.
La vedova si vestiva tutta di nero: le calze, le scarpe, la camicia, il
maglione, il fazzoletto(“a’ tuvagghijula”),lo scialle nero di lana che
la copriva tutta (“u’ frazzolettunu”) e persino gli orecchini dovevano
essere di colore nero. E così per tutta la vita. Per un mese intero
non doveva neppure cucinare. Infatti a lei e ai figli portavano da mangiare
i parenti e gli amici (“u’ cùnsulu”). Inoltre, in casa gli specchi
erano coperti di stoffa nera e anche sulla porta, all’esterno, una tavoletta
inchiodata e ricoperta di stoffa nera indicava ai passanti che quella casa
era in lutto. La vedova era chiamata “a’ cattiva” (dal latino captiva =
prigioniera) perché doveva stare rinchiusa in casa per molto tempo:
era, cioè, in stato di cattività. Addirittura si metteva
un fiocco nero ai pulcini legato ad una zampa e alle galline legato ad
un’ala. Se moriva la moglie, il marito portava la camicia o la cravatta
nera e anche una striscia nera sulla manica della giacca; e, a differenza
della donna, l’uomo poteva risposarsi. Per gli altri parenti tutto veniva
tenuto più o meno a lungo a seconda del grado di parentela col defunto.
Per esempio, se moriva un cugino il lutto veniva tenuto per sei mesi e
le donne indossavano una giacchetta nera. La cugina si scioglieva una ciocca
di capelli, se la portava sul petto e se l’accarezzava. Questa ciocca si
chiamava “ù’ spicchiju”. In alcune occasioni, per cantare le lodi
del defunto venivano chiamate le prefiche, donne piangenti a pagamento.
ABBIGLIAMENTO E FOGGIA DEI CAPELLI
Anticamente le donne indossavano
una sottoveste (“a’ suttana”) su cui mettevano un corpetto (“u’ dibriattu”)
e quindi una gonna molto arricciata (“a’ gunneddhra”) e una camicetta.
Per non sporcarsi i vestiti mentre facevano i lavori di casa sopra la gonna
mettevano un fazzoletto bianco ben legato (“u’ spaddhriari”) e sopra ancora
un altro più grande e colorato (“a’ tuvagghjula”). A letto, durante
la notte, usavano una specie di cuffia (“a’ rizzola”). Di giorno portavano
capelli lunghi, sciolti o intrecciati. Con le trecce, specie le signore,
facevano una corona (“u’ tuppu “), che fermavano sulla nuca con dei fermagli.
A volte, invece delle trecce, facevano “u’ rollu”, arrotolando i capelli
su una specie di ferretto pieghevole che fermavano alla nuca e vicino alle
orecchie. Gli uomini indossavano pantaloni e giacche per lo più
di velluto o di fustagno e d’inverno un nero mantello con fodera all’interno
per lo più di colore rosso.
GLI EX-VOTO PER GRAZIA RICEVUTA
Una volta a Cutro si era molto più devoti di adesso ai santi, e particolarmente al SS. Crocifisso. Per ottenere una grazia, pregavano e facevano voti. Un voto ricorrente era quello di cucire a mano una tovaglia da deporre sull’altare del santo. Un altro voto era quello di andare scalzi in chiesa. Allora era una cosa alquanto dolorosa perché le strade non erano asfaltate e si arrivava alla meta con i piedi sanguinanti. Un altro voto ancora era di andare a piedi da Crotone a Capo Colonna, in occasione della festa della madonna, o da Cutro a Mesoraca, fino al santuario dell’Ecce Homo. Inoltre, per propiziarsi il favore e la protezione dei santi per i loro figli, le mamme li vestivano con le tunichette simboliche dei santi stessi, a seconda dei loro nomi di battesimo. Se poi un bambino si faceva male alla testa, ad una gamba o ad un braccio le mamme preparavano un dolce a forma di testa, di gamba o di braccio, che, una volta Benedetto, veniva distribuito in fette ai vicini di casa. Un altro voto era quello di preparare “i sarvarigina” e i “paniceddhri i” sant’antuanu”. Si facevano nove ciambelle di pane (“i vucciddhrati”), si mettevano in una cesta e nove ragazze (“i virgineddhri”) le portavano alla chiesa di S. Rocco. Qui recitavano il rosario e cantavano il “Salve, o regina”. Poi il sacerdote benediceva le nove ciambelle. Invece, per la festa di Sant’Antonio, si preparavano tredici piccoli pani, tanti quanti sono i miracoli di questo santo; poi venivano messi in una cesta e portata dai bambini alla chiesa della riforma, dove venivano benedetti e quindi distribuiti ai vicini di casa. A questo genere di tradizioni popolari appartiene la preghiera a S. Rocco da parte delle ragazze che invocavano il santo per avere la grazia di trovare marito:
“Santu Ruaccu mia benignu
Tu mi guardi ed ija t’indignu
E cchid’è che ssù ‘ndignari?
Ca mi vogghiju maritari”.
IL SENSO SACRALE DELLA SOLIDARIETA’
Una tradizione che ancora oggi resiste è “u’ ‘mbitu”,
il piatto preferito del defunto che il due novembre di ogni anno viene
offerto ai vicini di casa in segno di commemorazione. Quest’atto di umana
solidarietà nei confronti della gente in stato di bisogno è
accompagnato dall’espressione “rifriscu l’anima i’…”,a cui segue il nome
del defunto da commemorare. Invece ,per la festa di S.Giuseppe ,
si prepara “u’ ‘mbito” di pasta e ceci in quantità abbondante in
onore di chi si intende festeggiare l’onomastico e si vuole propiziare
la protezione del santo. Questo piatto di minestra viene offerto
ai vicini di casa, bisogno e non.
UN MESTIERE SCOMPARSO: “U PIGNATARU”
Uno dei mestieri, ormai scomparso, che un tempo era in
uso a Cutro era “u’ pignataru”. Questo artigiano fabbricava utensili in
argilla per uso domestico: recipienti per l’acqua (“gùmbuli”), per
cuocere i legumi (“pignati”), per cuocere la cicerchia (“u’ cucumu”),
per cuocere il sugo (‘’’a tieddrha”); recipienti per la conserva delle
olive schiacciate, sia verdi che nere o “alla monacala” (“u’salaturu”),
per la conserva delle olive “a muaddrhu” (‘a capasa”); un altro recipiente
era ‘’’a giarra”, che serviva per un doppio uso: i proprietari terrieri
l’usavano per conservare l’olio, la gente povera per la provvista
dell’acqua potabile.
Reperire la materia prima era molto facile in quanto
Cutro sorge su una collina argillosa. La bottega del “pignataru” aveva
al centro un attrezzo (“a rota “) che, azionato da un pedale, girava continuamente
e a sua volta faceva girare l’ asse su cui poggiava la creta, che
l’ artigiano modellava con il solo uso delle mani per fame i vari tipi
di recipienti. Ma mentre lavorava la creta doveva versarvi continuamente
dell’ acqua e per non bagnarsi si proteggeva con un lungo
e largo grembiule impermeabile (“a mantera”). Tutti gli utensili “ argagni”
vednivano cotti nel forno e poi erano pronti per essere smerciati. Questo
mestiere a Cutro non si pratica più, ma in altre parti della Calabria
viene praticato a livello industriale ed ad uso turistico”
prodotti tipici dell’artigianato calabrese”.
UN MESTIERE CHE DURA: “ A FURNARA”
A Cutro il pane veniva fatto in casa e poi cotto nel forno
a legna. La farina veniva impastata con acqua e sale in un grande contenitore
di legno (“’a maiddrha”). Il lievito (“u’ livatu”) veniva preparato la
sera precedente e messo sotto il materasso per lievitare. Alle prime ore
dell’alba preparava il forno accendendovi delle frasche e per pulirlo usava
“u’ scupulu”. Le diverse forme di pane (tra cui “a pitta”, “u’ vucciddrhatu”,
“u’ pupulicchiju”) venivano conservate su una specie di rete fatta con
assi di legno appesa al soffitto (“a brisetta”) per mantenersi fresche
più a lungo, anche per la durata di un mese. Ancora oggi il pane
a Cutro si fa come una volta ed è molto richiesto, solo che, a differenza
di un tempo, la farina adesso viene impastata nell’impastatrice elettrica.
Inoltre, mentre prima si usava solo farina di grano duro, oggi si usa mescolarvi
anche farina di grano tenero.
QUANTA FATICA: LA DONNA AL TELAIO!
Uno dei mestieri più antichi adesso scomparso era
quello della tessitrice (‘a massara”). Per il corredo della sposa in ogni
casa si tesseva la tela al telaio (“u’ talaru”), un’impalcatura in legno,
nella cui parte anteriore c’era uno sgabello (“a sedalura”), dove sedeva
la tessitrice. Gli attrezzi del telaio erano: ”a nimula”, che serviva per
raccogliere il filo attorno ad un pezzo di canna (“a canneddrha”); “a navetta”,
una specie di canoa di legno, che serviva per lavorare il filato; “u’ piattinu”,
che serviva per rendere più o meno fitta la trama della tela; “a
sàssula”, che serviva per battere la tela. La tessitrice lavorava
al telaio dalle prime luci del giorno fino al tramonto, accompagnato spesso
il ritmo assordante e monotono del telaio con canti popolari in dialetto
cutrese. Un mestiere molto faticoso e poco redditizio, spesso ricompensato
col baratto (uova, farina, legumi ecc.).
LA DONNA IN CASA,IL MARITO IN CAMPAGNA
Un tempo il contadino (“u’ forisi”) svolgeva il suo lavoro
nei campi con la sola forza delle sue braccia e si serviva di pochi attrezzi
rudimentali. Era costretto a fare un lavoro da schiavo alle dipendenze
del padrone, dato che a quei tempi le terre del Marchesato erano nelle
mani di pochi proprietari terrieri (i latifondisti). Per l’aratura si usava
l’aratro di legno tirato da buoi, da asini o da cavalli. Chi non possedeva
un aratro (“u’ divòmbaru”) usava solo la zappa. Contemporaneamente
all’aratura avveniva la semina, che durava da settembre a novembre. In
primavera con la zappetta (“u’ zzappuniaddrhu”) venivano eliminate le erbacce
che avevano infestato il campo e poi si aspettava il tempo del raccolto
(“a metitura”). Il mietitore, mentre falciava le spighe, teneva infilate
alle dita della mano dei pezzetti di canna (“i canneddrhi”). Le spighe
poi venivano legate a fasci (“i gregni”) e ammucchiate sul terreno (“i
cavagghijuni”). Questi poi venivano portati sull’aia e battuti con bastoni
per togliere i chicchi dalle spighe. Il grano allora veniva setacciato
in un grande crivello (“a gghijagghijara”) per pulirlo dalla pula (“a jusca”).
Oggi il lavoro del contadino è meno faticoso perché
con la riforma agraria è molto cambiato. Non solo gli è stata
assegnata una “quota” che gestisce in proprio ma, da vero imprenditore,
il contadino si serve di attrezzi agricoli più moderni. A differenza
dagli altri paesi della Calabria, le donne di Cutro non andavano a lavorare
nei campi perché qui – diceva il prof. Foglia – “la donna è
del marito. Come il marito in campagna, la donna in casa. I due imperi
formano la famiglia”.