Le origini del fagiolo cannellino di Atina si perdono nella notte dei tempi. Pare che il legume, che da secoli rappresenta la base proteica per le popolazioni rurali delle aree interne del Mezzogiorno d’Italia (il pane dei poveri), sia sempre esistito nel comprensorio di Atina, ma le prime notizie certe che si hanno sulla sua coltivazione risalgono al XVII secolo e sono state desunte da un’antichissima pubblicazione scritta ai tempi di re Ferdinando di Borbone. Verso il 1840 una grave invasione di rughe (larve di lepidotteri) causò la completa distruzione del raccolto e salvò soltanto pochissimi semi, rendendo indispensabile l’incrocio con ecotipi importati da Sulmona. La coltivazione con questi ibridi riprese in maniera massiccia e divenne assai diffusa. Il merito fu della Cooperativa del Mollarino, nata nel 2001 a Villa Latina su iniziativa di un gruppo di persone spinte dall’amore per la propria terra e per i suoi prodotti che aveva condotto prima un’approfondita ricerca presso le famiglie contadine della zona ancora depositarie di quei semi antichi, per riproporli poi nei terreni golenali e vallivi adiacenti al fiume Melfa, il torrente Mollarino e i loro tributari minori. Dopo aver predisposto un disciplinare di produzione, l’area si estende oggi per una lunghezza di circa nove km lungo il torrente Mollarino e undici km lungo il fiume Melfa, interessando i comuni di Atina, Villa Latina, Picinisco, Casalattico, Casalvieri e Gallinaro. Il terreno, l’acqua, il microclima, i semi perfettamente adattati all’ambiente pedoclimatico e il tipo di coltivazione conferiscono al prodotto un sapore unico. I fagioli cannellini di Atina sono coltivati come un tempo: le piantine vengono raccolte quando i baccelli sono maturi e aggregati in mazzetti; essiccati con ventilazione naturale, i mazzetti vengono poi sgranati con il vecchio sistema della battitura manuale e infine cerniti e confezionati per la vendita, per poi finire nella “pignata” di terracotta accanto al fuoco.
di: Paolo Ferraro
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La Corte federale di San Francisco ha deciso di revocare l’autorizzazione governativa alla coltivazione di barbabietole da zucchero geneticamente modificate, chiedendo un supplemento di indagine approfondita che richiederà non meno di due anni di tempo. Nel frattempo, i semi di barbabietola modificati resteranno nei magazzini. |
In California sono stati banditi nei fast food i menu per bambini che contengono giocattoli colpevoli di sedurre i piccoli e spingerli verso consumi ipercalorici che conducono all’obesità. Gli esercizi pubblici hanno tre mesi di tempo per mettersi in regola. |
A Palazzo Pitti, a Firenze, una mostra racconta, sfogliando le pagine della
storia, la cultura del vino: duemila anni scorrono nei locali del Museo degli
argenti, fissandosi nei lineamenti sofferti della “Vecchia ubriaca”, copia di un
originale del II secolo a.C., o nella patèra dell’“obesus etruscus”, mollemente
adagiato sul sarcofago del Museo archeologico di Firenze. È il “pinguis
Tyrrhenus” che, con la sua aria sorniona e saggia nella sua opulenza tranquilla,
ricorda il valore profondo del banchetto. Contenitori per la conservazione,
recipienti per il servizio, crateri dove miscelare l’acqua al vino: dal
“kantharos” a decorazione geometrica, a quello a figure rosse, da Ruvo, fino al
ricco “stamnos”, sulla cui morbida superficie le menadi festeggiano Dioniso, il
vino scorre, schietto o temperato con l’acqua, evocando gli usi di una
convivialità antica. Bicchieri, suppellettili, brocche e coppe di argilla
invetriata lasciano intuire il gusto del Fiano o dei vitigni, che trovano la
loro contestualizzazione nelle geometrie dei giardini pompeiani. Permesso alle
donne greche, concesso anche alle donne di Etruria, il vino era interdetto alle
matrone romane, che avrebbero potuto sottostare anche allo “ius osculi”,
quell’iniquo costume che consentiva alla suocera di testare l’alito della nuora,
per verificarne la serietà: un pur flebile gusto di vino avrebbe legittimato
l’ipotesi che la giovane donna fosse incline a una vita dissoluta e lasciva.
Ancora nell’Ottocento, il celebre
antropologo Mantegazza sosteneva che il vino avesse la capacità di disinibire le
donne, facendo loro perdere il controllo su sé stesse e, di conseguenza, sulla
loro moralità. Vino, parola di sostrato, dal sapore antico: una sinergia di
collaborazioni ha permesso la realizzazione di questo percorso espositivo, che
avvicina le colline della Toscana alle pitture dionisiache del Sud. Il catalogo
della mostra, curato da Giovanni Di Pasquale per i tipi Di Giunti, propone il
percorso dell’esposizione,
con saggi di grande spessore, che affrontano aspetti particolari della storia
del vino e della viticoltura da prospettive diverse e complementari. L’ambiente,
pubblico e privato, le tecniche di coltivazione e preparazione, le scienze che
accettano di svolgere un ruolo ancillare, per consentire al vino di trionfare
sulle mense o di dettare le leggi del mercato: studiosi ed esperti indagano gli
aspetti artistici e commerciali, religiosi e conviviali, rituali e tecnici, per
offrire una prospettiva integrata della storia di una bevanda tanto sapida
quanto socializzante. Ente Cassa di risparmio di Firenze, Museo Galileo,
Soprintendenza archeologica della Toscana e di Napoli-Pompei, collaborazioni
illustri: “Vinum nostrum”, come “Mare nostrum”, simbolo di una “koinè” che ha
modellato nei secoli le abitudini, i nuclei abitativi, il paesaggio umano, le
tradizioni della mensa. In questo percorso, centrato prevalentemente sul mondo
classico, dove il vino sapeva declinarsi nelle forme del “temetum” e
dell’idromele, manca, forse, una riflessione sul suo uso in medicina. Da sempre,
il succo insidioso dell’uva ha saputo offrire un viatico gradevole alla
ingestione di altre meno gradevoli sostanze, esercitando il suo potere ancipite
sul corpo e sulla mente. Questo viaggio nei valori del vino, documentato dalle
morbide forme della produzione fittile e richiamato dai versi del greco Leonida,
rappresenta un positivo esempio di interdisciplinarietà: il materiale di
supporto interattivo costituisce un valore aggiunto, che coniuga le opportunità
della tecnica con il sapere del passato. Il catalogo, ricco di immagini e
prezioso nei testi, offre un valido ausilio e un ottimo punto di riferimento e
documentazione.
di: Donatella Lippi
Curiosità |
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La compagnia di bandiera turca ha licenziato 28 assistenti di volo (steward e hostess) perché erano sovrappeso. Potranno rientrare in servizio se entro sei mesi raggiungeranno un peso-forma. |
Mangiamo meno pane, pasta, frutta, uova, latte e formaggi: tutti
questi alimenti fanno segnare un consumo sceso del tre per cento. |
“La gastronomia partenopea è ricca di molte preparazioni semplici e gustose”.
Qualche anno fa è stato stampato per i tipi di “Intra Moenia” di Napoli un libro
molto curato, scritto dall’Accademica Lejla Mancusi Sorrentino, intitolato: “I
dodici
capolavori della cucina napoletana”. Secondo l’autrice, e con ragione, sono:
minestra maritata | |
ragù | |
genovese | |
sartù di riso | |
gattò di patate | |
pizza | |
parmigiana di melanzane | |
mozzarella | |
pastiera | |
sfogliatella | |
sorbetto |
Però, oltre a questi piatti che l’hanno resa famosa nel mondo, la gastronomia
partenopea è ricca di molte altre preparazioni che, pur poco conosciute, non
sono affatto seconde a quelle citate. Si tratta di piatti quasi quotidiani,
semplici, gustosi e quasi spartani, messi a punto in secoli di esperienze e di
attenzioni nelle cucine sia popolari che aristocratiche da gente piena di
fantasia, ma spesso ricca di nient’altro. Vorrei indicarne qualcuno, e
incomincio dalle salsicce con friarelli. Insieme
rappresentano un secondo molto ben riuscito, ma, naturalmente, i due componenti
possono vivere una vita singola e autonoma, con grande dignità. I friarelli sono
broccoli che si coltivano soprattutto in Campania, leggermente amarognoli,
dotati di piccoli fiorellini e possono essere cotti in molti modi con risultati
veramente eccezionali. Ma “la morte loro”, come si dice da noi, è “inbroscinati”,
saltati in padella con olio, aglio e peperoncino. Piatto semplice, povero e
dettato dalla produzione
del territorio. Un po’ diverso il discorso sulle salsicce: vanno cotte in
padella con un po’ di vino bianco o birra chiara e una foglia di alloro, ma
devono essere “a punta di coltello”, cioè il macellaio riempirà il budello con
pezzetti di prosciutto e di
lardo ottenuti tagliando il pezzo di carne con un coltello affilatissimo,
aggiungendo poi sale, pepe nero in granelli e un po’ di vino rosso. Salsicce e
friarelli sono un secondo così diffuso e apprezzato che una nota pizzeria del
centro offre una pizza guarnita proprio di fettine di salsicce e friarelli. Si
chiama “alla carrettiera”. Altro piccolo capolavoro è la frittata di “scammaro”.
Piatto di magro, è una frittata di spaghetti o di linguine, conditi con aglio,
olio, olive nere di Gaeta snocciolate, una manciata di capperi e di prezzemolo,
ma rigorosamente senza uova. Deve risultare croccante all’esterno e morbida
dentro. È un piatto servito soprattutto alla vigilia di Natale, ma spesso
proposto anche d’estate quando il caldo consiglia cibi freschi e leggeri.
Alexandre Dumas padre, che amava molto Napoli e la percorreva in lungo e in
largo col suo “carroccio”, usava però sostenere con tono un po’ spocchioso che i
napoletani, fra l’altro, erano usi mangiare quell’orribile cefalopode che è il
polpo. Poi, spinto dalla curiosità di un vero e proprio gastronomo, lo assaggiò
e lo trovò tanto squisito che ne adottò le ricette. Chissà se aveva assaggiato i
“polpetielli” veraci affogati. Attenti! I “polpetielli” devono essere veraci e
cioè di scoglio e non “sinischi”, parenti poveri che vivono e sono pescati nei
fondali. Si riconoscono soprattutto dalle due file di ventose su ogni tentacolo,
e vanno cotti “pippiando”, per dirla con Eduardo De Filippo, cioè bollendo a
fuoco
molto lento in un pignato, ben coperti con pelati, olio, aglio e un pizzico di
sale. La salsa, densa e lucida, può anche servire per condire un piatto di
spaghetti. Alcuni vecchi ristoranti di Posillipo li hanno ancora nel loro menu,
e qualche volta aggiungono nel pignato, olive nere e capperi. E passiamo alle
alici: questo delizioso pesciolino argenteo e guizzante, saporito e con il
profumo di mare, perché non esiste surgelato o di allevamento, deve essere
freschissimo, meglio se pescato nella notte. Può essere servito in infiniti
modi: marinato con olio, aceto o limone e peperoncino, “arrecanato” e cioè in
tortiera con una spruzzata di aceto, aglio, olio, pangrattato e origano, o
fritto, o indorato e fritto, o “ammollicato”, o “imbottonato” o secondo il genio
e la fantasia di quel momento. Squisite in ogni preparazione, le alici sono il
classico piatto povero, composto di pesci saporiti ma di basso costo e anche
questo legato alla tradizione locale. Visto che siamo in tema di pesci possiamo
mai trascurare la frittura di paranza? La paranza è una grossa barca di
pescatori, e si dicono paranza anche due barche che, procedendo parallelamente,
trascinano una rete. Di prima mattina, quando le paranze rientrano in porto, si
acquistano i piccoli pesci che hanno pescato; si puliscono e si friggono in olio
bollente, servendoli molto caldi, con uno spicchio di limone. Alla frittura di
paranza non mancano mai una triglia, un merluzzino che si mangia la coda,
qualche volta una sogliola piccola, gli anelli di calamari e qualche gamberetto
di scoglio. Potrei continuare, tuttavia è impossibile chiudere senza rivolgere
un pensiero particolare a un altro piatto che ha reso famosa la gastronomia
napoletana nel mondo. Parlo dei vermicelli o delle linguine alle vongole. È
quasi pleonastico dire che la pasta dovrebbe essere artigianale o
semiartigianale e cioè di grano duro e a lenta essiccazione, come quella che si
produce a Gragnano, a Torre Annunziata e a Torre del Greco. Le vongole, molto
fresche, vanno aperte in un sugo di olio e aglio e peperoncino e condiscono la
pasta con tutto il loro guscio.
di Massimo Pisani
Curiosità |
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Nostalgia della misticanza 2 | |||
Se il passato di Proust riemergeva piacevole e
prepotente grazie al sapore della madeleine e al profumo del tè, per il
risveglio dei ricordi legati alla mia terra d’origine - quell’Abruzzo
definito giustamente forte e gentile da Primo Levi - è bastata una più
attenta lettura delle fantasiose denominazioni che figurano sulle
confezioni di insalata presenti negli scaffali della grande distribuzione.
Anche se ormai le buste di insalata (merceologicamente definite ortaggi
della quarta |
... Come anche nelle tradizioni del Lazio, l’erba stella (Alchemilla vulgaris), la ruchetta selvatica (Diplotaxis tenuifolia), la pimpinella (Poterium sanguisorba), l’erba porcella (Portulaca oleracea), la lattuga selvatica (Lactuca viminea), il crescione (Nasturtium officinale), il finocchio selvatico (Foeniculum vulgare), il crespigno (Sonchus oleraceus), la cicorietta (Cichorium intybus), il raperonzolo (Campanula rapunculus), la valerianella (Valerianella locusta). O le più “territoriali” pricacchinotte (Crozophora tinctoria) dal delicato sapore di melone, pananoce (Sanguisorba minor) dall’inconfondibile sapore di noce fresca, pastinille (Tordylium apulum) dolce e profumata, rampa lupina (Hedysarum coronarium) piacevolmente turgida e dissetante. Ma che delusione scoprire, tra gli ingredienti delle “misticanze” dei vari marchi commerciali, la versione “addomesticata” della rucola (Eruca sativa), della valerianella o songino (Valerianella olitoria), insieme a tanta Lattuga (Lactuca sativa) da taglio, nelle varianti lollo rossa e verde, quercia rossa e verde. Dilaganti prodotti senza stagioni, che anche a una valutazione sensoriale alla buona rivelano gli inevitabili limiti organolettici delle coltivazioni forzate in serra. |
La lingua francese ha resistito a lungo nei banchetti reali
La ribellione al francese, lingua ufficiale e vincolante del menu,
serpeggiava da tempo nella vecchia Europa, capeggiata da revanscisti e
pangermanisti prussiani e fomentata dai nichilisti attorno alla reggia dello
zar, mentre alla reggia di Belgrado già si scriveva in cirillico. Albione,
tollerante, continuava a nutrirsi in francese accogliendo con freddezza un menu
scritto in inglese che, sul continente, celebrava l’incoronazione dell’anziano
Edoardo VII. Mentre i Borboni delle Due Sicilie, prima che Garibaldi arrivasse,
scrivevano i menu in italiano malgrado le parentele e gli chef francesi delle
loro cucine, i Savoia continuavano a essere succubi del francese. Il resto
d’Italia li seguiva ma non del tutto solidale. La gente non sci-sci diceva, come
Trilussa, “je m’anfisce” (che in francese vuol dire: me ne frego) e compilava
liste e minute in italiano non proprio esemplari ma decenti. Rimasero invece
pochi e sparuti i personaggi di rilievo di quello scorcio di secolo umbertino
che tentarono di dimostrare il loro patriottismo letterario e linguistico
sottraendosi al francese. La Bastiglia cadde il 22 dicembre 1907 quando al
Quirinale venne offerto un sontuoso pranzo ai generali comandanti dei corpi
d’armata
e ai capi di Stato maggiore con il menu in italiano. La presenza di alti gradi
militari fa pensare a un autentico “golpe”. Si seppe che ciò era avvenuto “motu
proprio” del sovrano che già da tempo, per il varo delle navi, aveva fatto
sostituire la
bottiglia di champagne spezzata sulla prora con lo spumante italiano. Vittorio
Emanuele III si era già più volte inquietato con i ministri della real casa, con
ufficiali di bocca, maggiordomi e chef perché tardavano a ubbidire
nell’eliminare il francese che, fatto curioso, era la lingua del suo grande
nonno e dei suoi avi. Un sollecito reale arrivò alla Crusca perché si trovassero
sostitutivi al menu e a tutta la terminologia gastronomica francese. Non si sta
a raccontare quel che successe: il pissi-pissi dei salotti aristocratici
piuttosto perplessi, i sussurrii tra i diplomatici assai preoccupati e le lodi
sperticate della stampa per il sovrano. Si fece un gran discutere intellettuale
tirando in ballo il Tetrarca, Dante, Bembo, Annibal Caro e altri illustri
letterati. Una risposta evasiva del segretario della Crusca, professor Guido
Mazzoni, rinfocolò le polemiche. Intervennero Pastonchi, Benedetto Croce e
Olindo Guerrini scrisse, al riguardo, una lunga lettera al “Giornale
d’Italia”. Grande fu l’impegno di giornalisti, teste fini, direttori d’albergo,
cuochi, nobili, borghesi e popolani per trovare una nuova parola che sostituisse
l’odiato “menu”. In breve, i risultati: lista, lista del cibo o delle vivande,
nota, minuta, distinta, elenco, gastronomia, vivandonota, vivandaio, rinsegno,
eletta, godenda, e con quest’ultima si toccò il fondo. Un cittadino che progettò
di mettere l’accento sull’ultima vocale di menu fu tacciato di tradimento,
coperto di vilipendio.
di Livio Cerini
Curiosità |
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La minestra di zucca di Bartolomeo Stefani ("tradotta") | |||
Questa minestra di zucca descritta da Bartolomeo Stefani ne “L’arte di ben
cucinare” (Mantova 1662, p. 28): “Piglierai la zucca rifatta nel brodo, acciò sia più saporosa, passata per setaccio; piglierai oncie sei di mandorle peste nel mortaro, le stempererai con un bicchiere di latte passato per stamegna, mettendo la zucca al fuoco con brodo grasso di cappone, e quando la zucca sarà vicino alla cottura, le metterai quattro rossi d’ova, e il succo di quattro naranci, e sarà gustosa”. |
Detto nelle “parole povere” dell’oggi, gli ingredienti sono: un litro di
brodo di pollo, 125 gr di mandorle pelate, 600 gr di zucca pulita, mezzo bicchiere di latte, due arance, due rossi d’uovo; mentre la preparazione consiste nel mettere la zucca a pezzi nel brodo bollente e, una volta cotta, frullarla insieme ai due rossi di uova sbattuti. Aggiungere poi le mandorle pestate nel mortaio, stemperandole con un po’ di latte. Quando sarà pronta aggiungere il succo di 2 arance. |
Il ritrovamento di un’antica ricetta dell’esercito piemontese
Ognuno può pensarla a proprio modo su re Carlo Alberto, al di là dei presunti
rigori della storia. Assolutista e va bene, sempre tentennante e va bene a
proposito della politica unificatrice dell’Italia, persino un poco masochista
nel punirsi delle sconfitte sui campi di battaglia, e questo parrebbe
esclusivamente affar suo. Tuttavia fra i suoi meriti, intuizioni comprese, vanno
annoverati il senso del risparmio, seppure a carico del proprio esercito, e la
capacità di trarre da ogni derrata dei suoi campi sardopiemontesi il massimo
profitto in un’economia poverissima. Si sa che le fatiche delle lunghe marce
affardellate, gli stenti, i sacrifici imposti dalla strategia delle guerre
guerreggiate provocano gran dispendio di energie.
È vero che allora tutto faceva sostanza per affrontare le esigenze della
nutrizione: bastava riempire il sacco gastrico delle truppe ed esse eseguivano,
baionetta in canna. Però qualche riguardo i soldati ben lo meritavano, unito al
vantaggio di non doversi portare al seguito le cucine da campo con l’armamento
di gamelle e addetti al vettovagliamento. È dunque a questo punto che il sovrano
ha la sua bella trovata: mettendo a frutto la propria passione per il mangiar
bene che fu sempre caratteristica dei Savoia e i cromosomi dell’inventiva o
della necessità, sperimenta una pagnotta per la truppa, il pane del soldato
insomma. Grande da bastare per un’intera giornata, da stare nello zaino,
nutriente da garantire il soddisfacimento
del bisogno alimentare per un fantaccino: la cui altezza non sempre arrivava ai
centosessanta centimetri, mentre l’adipe debordante era volume piuttosto che
muscolo di riserva. Ora io non so se i libri di storia risorgimentale ne
facciano cenno. Il fatto è che quella sorta di piatto unico per le truppe
sabaude durante le campagne di guerra è testimoniata da una ricetta recuperata
in terra astigiana, a Castel Boglione che dà la mano a Fontanile, entrambi
avamposti d’amor di patria e di enogastronomia eccellente. Merito del
ritrovamento è di Roberto Garbarino, che decora con il proprio nome uno dei più
antichi forni della zona: a Castel Boglione appunto, ma di cui sono per così
dire suffragati i paesi del circondario. Per
giunta tanto Castel Boglione quanto Fontanile vantano una cantina sociale di
ottimo nome, con una varietà di vini quali una superba Barbera. E per
sopramercato, come dicevano gli ortolani della Motta esponendo le proprie
primizie sulla piazza di Neive, entrambi i comuni fanno svettare cupole e
campanili da accendere l’invidia della basiliche romane. Il fornaio in parola,
baffetti tricuspidati a insolita foggia, l’ho incontrato nella biblioteca
comunale di Fontanile. Esibiva le sue pagnotte invitanti da parer panettone
salato, attorniato da centinaia di persone, convenute per una manifestazione
culturale. Se si pensa che Fontanile ha quattrocento abitanti, si comprenderà
quanto la provincia sia sensibile ai richiami culturali.
Dunque, la ricetta di questo pane del soldato? Garbarino tace sul rinvenimento
ma ha le carte che parlano, come dicono da quelle parti. E un po’ si lascia
andare. È previsto un impasto costituito di farina tipo doppio zero, noci,
acciughe, non sbriciolate, pepe, acqua, sale, lievito, olio di oliva e strutto.
I pani sono a forma di filoni e di biove, secondo la nomenclatura d’adesso e
d’allora. A richiesta se ne potrebbe confezionare uno da Guinness, ma Garbarino
dice che così perderebbe il suo fascino, la sua originalità. E io che l’ho
apprezzato, assieme a delle belle fette di salame tagliato spesso, un centimetro
l’una, posso assicurare che qualunque sia l’aggiunta per impreziosire, una volta
tanto il re la pensò giusta.
da: “Le fiamme d’argento”
di Franco Piccinelli
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Pesa 35 grammi, è lunga 10-15 centimetri, ha un diametro di 2 centimetri. Si chiama “perlina” ed è una melanzana bonsai con piccoli semi, polpa compatta e dolce, assorbe poco olio e non va messa sotto sale prima dell’uso. È nata nel 2004 a Ragusa grazie a un innesto con la melanzana selvatica resistente ai parassiti. Non è frutto di una manipolazione genetica. | Un’équipe di scienziati dell’Università americana dell’Arkansas ha dimostrato che i semi di pomodori coltivati in un ambiente contenente nanotubi di carbonio (particelle che hanno un diametro infinitesimale) germinano in metà tempo e aumentano l’assorbimento dell’acqua producendo frutti più grandi. |
Una bevanda donata dagli dei agli uomini come fonte di ricchezza e di forza.
Prima che un europeo immergesse le labbra in una tazza di cioccolato, già
esisteva il cacao o, per meglio dire, esisteva il “cacahuatl”. Questo albero,
infatti, cresceva nelle foreste vergini dello Yucatan e del Guatemala. “Cacahuatl”,
per gli
indigeni di questa regione, non significava solo “albero del cioccolato” ma
anche semplicemente “albero”. Era quindi l’albero per antonomasia per cui, da
questi popoli, era considerato l’albero degli dei, che, quali che siano, non si
nutrono come i comuni mortali. A quelli del Messico e del Guatemala era
riservato il “cacahuatl”, un infuso ricavato dai semi dell’albero. Da qui il
significato religioso di questa tisana. I semi devono essere prima grigliati in
un recipiente di coccio, poi schiacciati fra due pietre e la polvere così
ottenuta deve essere disciolta in acqua bollente. A questo liquido (“ciocolatl”
in lingua azteca) si aggiungono peperoncino oppure muschio, miele o farina di
mais. Solo a questo punto lo si può bere. Si beve perché gli dei sono
misericordiosi e permettono ai mortali di avvicinarsi a questo cibo sacro. Il
culto dell’albero del “cacahuatl” fu assorbito dal popolo Maya quando, intorno
al 300 d.C., disceso dall’Alaska, si insediò nello Yucatan, fino al momento in
cui, intorno al X secolo, questa progredita ma sanguinaria civiltà si estinse.
Perciò, quando gli spagnoli nel 1523 esplorarono per la prima volta il Centro
America, ai Maya erano intanto subentrati i Toltechi e poi gli Aztechi. Questi
ultimi avevano invaso queste regioni per procurarsi, tra l’altro, le fave
dell’albero. Così come i Maya, anche gli Aztechi apprezzarono il “ciocolatl” e
ne fecero larghissimo uso. Il dio azteco Quetzalcóatl, il “serpente piumato”
della foresta, aveva tra i suoi attributi quello di essere il giardiniere del
Paradiso. Era stato proprio lui a donare agli uomini il “cacahuatl”, come fonte
sia di ricchezza che di forza, avendo egli disposto che i semi dell’albero
fossero usati sia come alimento che come moneta.
Il mito voleva che un giorno il dio, salito su un’imbarcazione, si era
allontanato nell’oceano verso dove sorge il sole. Da allora, era atteso con
grande ansia e, quando ciò sarebbe accaduto, tutto il popolo avrebbe fatto
ribollire il “ciocolatl” e, per la gioia, ne avrebbe bevuto fino a star male. È
storia nota che quando Cortés giunse dal mare e proprio da dove sorgeva il sole,
ricoperto di ferro e cavalcando uno strano animale, l’imperatore Montezuma e i
suoi sudditi, al massimo della felicità, non poterono che esclamare: “È lui!”. I
conquistadores apprezzarono subito l’infuso sia per le sue virtù afrodisiache
sia per la novità di una bevanda che caratterizzerà il costume spagnolo nei
secoli a venire. Sembra, infatti, che tornato in Spagna, Cortés tenesse sulla
sua scrivania una cioccolatiera sempre piena. Nel 1585 la fama della bevanda di
Montezuma era già ben consolidata in Europa. Il primo carico giunto dal porto di
Veracruz fu infatti acquistato come se fosse pane, malgrado il suo prezzo. Il
cioccolato a questo punto si affaccia anche nella storia della Chiesa e, per
alcuni versi, in maniera per nulla trascurabile. Fu descritto in maniera
entusiasta da padre Petrus de Angleria a papa Clemente VII, il quale però non
poté purtroppo berlo alla sua incoronazione. Clemente VIII, invece, assaggiò nel
1594 la tazza di cacao offertagli dal sacerdote fiorentino Francesco Carlati.
Gli fu però richiesto di esprimersi in merito al quesito se l’assunzione del
cioccolato interrompesse o meno il digiuno eucaristico. In effetti, le dame
spagnole, sia nelle colonie che in patria, erano giunte al punto non solo di
bere il cioccolato quasi di continuo, ma di farselo servire addirittura in
chiesa. Il reverendo Escobar e il cardinale Francesco Maria Brancaccio, nel
timore di vedere andare deserto l’altare al momento della comunione, decretarono
che il cioccolato fatto con acqua non interrompeva il digiuno. Tra le curiosità
della secolare storia del cacao, si può ricordare un certo Bachot il quale
sostenne che il cacao, e non l’ambrosia, era veramente il cibo degli dei. Di
questo, ma soprattutto dei miti centroamericani, dovette tenere conto Carlo
Linneo, il padre della botanica moderna. Egli infatti inserì l’albero del cacao
nel genere Theobroma, nome che significa per l’appunto “cibo degli dei”.
Durante la prima metà del XVII secolo, tasse esorbitanti consentirono solo ai
più ricchi di disporre della divina bevanda. Johann Georg Volkmer nel 1641 la
portò da Napoli in Germania e poi nei Paesi Bassi, dove venne accolta con gran
favore. Minor successo ebbe invece in Inghilterra. La Francia conobbe il
cioccolato a seguito dei matrimoni di Luigi XIII e XIV con le infanti di Spagna
Anna d’Austria e Maria Teresa e il suo uso si diffuse rapidamente in tutta la
corte. Luigi XIV cominciò ad amarlo solo quando iniziò ad amare anche la
Maintenon, un’altra risoluta sostenitrice del cioccolato. Comunque, fu un certo
David Chaillon a ottenere dal Re Sole, che peraltro continuava a preferire il
vino di Borgogna, il “privilegio esclusivo, per ventitré anni, di fabbricare,
far vendere e vendere in tutte le città del Regno una certa composizione
chiamata cioccolato”. Una tazza di cacao si poteva bere per otto soldi, un
prezzo elevato se si considera che, nei ritrovi
più eleganti, il tè o il caffè arrivavano al massimo a tre soldi e sei denari.
Erano in effetti prezzi da mercato nero, a causa dell’esclusiva della licenza di
Chaillon. Infine, nel 1693, la vendita venne liberalizzata, con grande
disappunto delle comunità religiose che sognavano da anni di acquistare il
monopolio della bevanda degli dei. Nel 1770 venne inaugurata la prima industria
del cioccolato, quella dei “Chocolats et Thés Pelletier & Compagnie”. Ad
Amsterdam nel 1815 fu fondata la “Van Houten & Blvoker”. Fin dal 1606 il
cioccolato già si produceva anche in Italia, a Firenze e Venezia. Alla scuola
torinese di cioccolato si forma François-Luis Cailler che, nel 1819, fonda la
prima fabbrica svizzera a Vevey, seguito da Suchard. Le prime vere fabbriche
però furono quelle che Menier aprì nel 1824 nella regione parigina. Nel 1828
l’olandese Van Houten separa il burro di cacao. Nel 1865, a Torino, Caffarel
mescola cacao e nocciole creando il cioccolato gianduia.
Nel 1875, lo svizzero Daniel Peter produsse per la prima volta il cioccolato al
latte per poi associarsi con Cailler e Kohler. Nel 1929 le tre marche si fusero
nella Nestlé. I segni dello straordinario successo e della crescente
affermazione del
cioccolato al di fuori della patria di origine della pianta del cacao emer-gono
qua e là anche nella letteratura. Nella seconda metà del Settecento,
rivolgendosi alla figlia, Madame de Sévigné scrive: “Ciò che trovo gradevole in
esso è il fatto che agisce a seconda dell’intenzione di chi lo prende”. Negli
stessi anni Giuseppe Parini nel poemetto “Il giorno”, tra le eccessive mollezze
tra le quali il “giovin signore” si adagia al suo risveglio, include il
cioccolato declamando:
“S’oggi ti giova
porger dolci allo stomaco fomenti,
sì che con legge il natural calore
v’arda temprato, e al digerir ti vaglia,
scegli ’l brun cioccolatte, onde tributo
ti dà il Guatimalese e il Caribbèo
c’ha di barbare penne avvolto il crine”
Nella letteratura del cacao non poteva certo non lasciare la sua
impronta Alexandre Dumas. L’autore dei “Tre moschettieri”, dopo averlo
assaggiato, infatti dichiara: “È eccellente per le persone affaticate da
qualunque tipo di lavoro, ovvero
per moltissima gente”.
di Massimo Ricciardi
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L’ultima novità in fatto di diete o prescrizioni dimagranti viene dai ricercatori americani dell’Università “Virginia Tech” di Blacksburg: bere due bicchieri di acqua prima di mettersi a tavola farebbe perdere almeno due chili e due etti di peso corporeo in 12 settimane. | Ogni anno, in Europa, si registrano ben 380.000 casi di intossicazione alimentare. Lo ha rivelato l’indagine di un ente comunitario, l’Efsa. La maggior parte dei casi è dovuta alla consumazione dei cosiddetti “cibi da strada”, venduti nei chioschi, con i furgoncini o nelle feste paesane molto diffuse in estate. |
“Quando si hanno le idee chiare i pensieri vengono fuori semplici e comprensibili”.
Imperversano, ormai da alcuni anni, rubriche, cuochi, gastronomi, coloro che
sono considerati gli “esperti” e che si esprimono in maniera incredibile.
Sentite: “Il sale liquido, volgarmente detto salamoia, consente di rinnovare con
un pensiero di food design l’elemento primario che sorregge il gusto, fissando
standard qualitativi in un’ottica di razionalizzazione e industrializzazione… il
potere (del sale, ndr) si concentra con possibili riduzioni nelle diete
iposodiche”. Mi sono chiesto, dopo avere letto e cercato di capire: ma questo
cuoco la conosce una pasta e fagioli? Sentite quest’altra: “Il gioco di
trasparenze del baccalà mantecato, animato dal contrasto fra la neutralità
monocromatica e l’intensità del gusto, catapultato nello spazio; la zuppa di
pesce con sferici in veste di ravioli tecnologici e cracker di scarti; il
bollito non bollito, con delicate lessature ad hoc e una salsa verde rigenerata
in un’aria di prezzemolo”. Mi sono chiesto se, per caso, gli “sferici in forma
di ravioli tecnologici” non fossero delle radioline portatili. Resta il fatto
che chi scrive è un giornalista di gastronomia il quale, nell’ultima frase, fa
addirittura riferimento alla piramide di Kandinskij che “subordina la tecnica e
la materia al pensiero creativo”. Stiamo parlando di piatti che si mangiano, o
stiamo recensendo l’opera di un pittore? E mentre la cucina sta volgendosi verso
il passato, riscoprendo la solarità di piatti semplici, abbondanti, conosciuti
nel gusto, testimoni
di un’epoca e di una tradizione, non con la stessa velocità le penne della
cucina si ritrovano nello scrivere “piano”, cioè semplice. Paolo Marchi,
anch’egli un grande del mondo della gastronomia, riferisce a proposito di un
certo ripensamento
in cucina e scrive: ”Gli enfants terribles dell’avanguardia sembrano propensi a
insospettabili ripensamenti: riflusso o nuova consapevolezza?”. Ma voi credete
che ci sia questo ripensamento quando Ferran Adrià dichiara di fare una lezione
in diretta, a un convegno di cuochi, sulla “sferificazione con l’alginato di
sodio e il calcio in tutte le varianti possibili, compresi gli aspic caldi e il
caviale d’olio incapsulato”? Credo che non sarebbe errato un passo indietro
anche di noi gastronomi,
a cominciare dai menu. Resta il fatto che si ritiene di migliorare il proprio
pensiero con frasi a effetto, che utilizzano parole come “consistenze”,
“fritture di contrasto”, “scomposizione”, “destrutturazione”, o “decostruzione”.
Meno male che uno di questi cuochi (Massimo Bottura della “Francescana” di
Modena) ha dichiarato: “Occorre conoscere tutto per dimenticarsi di tutto. Ma la
tradizione è una molla irresistibile, quasi una maledizione”. Meno male che
pasta e fagioli resta, magari destrutturata, magari scomposta, magari maledetta,
ma con il suo sapore ben conosciuto. Accanto a questo “scrivere forbito” da
tecnici e per tecnici (ma la clientela, quella che riempie la cassa di un
ristorante, è normale, solitamente) permane
un altro modo di comunicare (non più di scrivere) ed è il parlare televisivo.
Qui siamo nel regno dell’ovvio, dei piatti di frittate fredde messe in piazza
alle nove della mattina, su tavoli enormi, di pignatte con minestroni, di
sfilate di salumi e formaggi di tutti i tipi che vengono, solitamente, esaltati
dal vate locale, dal presidente della Pro loco, dal sindaco o da chi per esso.
Il tutto in un accavallarsi continuo di valutazioni e notizie che quasi mai sono
lasciate dire fino alla fine: si fanno tagli, vere amputazioni per le quali non
si riesce a capire se il “biroldo” è un salume dell’Alta Toscana o un carrozzino
fine Ottocento per le passeggiate nei giardini di Boboli. Sentite Gianni Brera,
ne “La Pacciada”, cosa ne pensa delle moleche e delle rane fritte:
“Effettivamente la moleca è splendida, però di gusto unico e ristucca. La rana,
fritta bene, trasuda olio in giusta misura, si intinge nel sale e si fa croccare
sotto i denti: il torso ha un gusto suo, avaro ma schietto, le
cosce sono polpose, ed il gusto è più generoso, ma egualmente fine e delicato”.
Si può anche non essere d’accordo ma c’è solo da chiedersi perché il grande
Gianni Brera non abbia usato la parola “frittura di contrasto”. Forse perché
quando si hanno le idee chiare i pensieri vengono fuori semplici e
comprensibili?
di Alfredo Pelle
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Il Comitato dei produttori di Champagne ha deciso di adottare una bottiglia più leggera ed ecologica, che pesa 65 grammi meno dell’attuale bottiglia standard (900 grammi). Producendo meno vetro si ridurranno le emissioni di ossido di carbonio annue, pari alle emissioni di quattromila auto. | Il libro raccoglie le ricette di Paola, una delle più brave cuoche baresi
prematuramente scomparsa. La figlia Claudia e la migliore amica Giovanna
Quaranta hanno selezionato, dai suoi quaderni di cucina, le migliori
preparazioni che la raccontano nell'arte che amava di più. Il risultato è
l'incontro di piatti tradizionali pugliesi con sapori semplici, da gustare
in famiglia. Sì, perché dalle ricette contenute nel libro, traspare anche
la calda atmosfera in cui si gustano piatti della “cucina di mamma”
preparati con cura, talento e tanto amore. edizioni Fasidiluna www.fasidiluna.com E 12,00 |
“L’educazione è un viaggio lungo e faticoso per chi parte da lontano, ma possiamo cominciare con un primo passo alla prossima spesa, assieme ai nostri figli”.
Ciascun padre sa o dovrebbe sapere che l’educazione alla civiltà
della tavola inizia sin dalla tenera età. Fin dai tempi antichi i genitori si
sono posti il problema della corretta alimentazione dei propri figli ma nei
tempi moderni sembra si sia ulteriormente diffusa una pericolosa sensazione di
inadeguatezza. I motivi del disagio sono noti: moltiplicazione inverosimile
delle pietanze, inappetenza dei pargoli, scarsa concentrazione a tavola,
capricci dei piccoli che portano a ricatti e forzature. In questo panorama si
inseriscono i falsi miti creati per scopi commerciali dalla pubblicità, e si
avverte una diffusa paura di mettere in tavola cibi solo belli e non anche sani.
Eppure attorno a noi abbiamo numerose opportunità di approvvigionarci con
prodotti genuini per noi e per i bambini. Inoltre possiamo sempre contare su
preziose consulenze di ottimi pediatri e nonni presenti e premurosi. Ma a volte
la confusione, specie per i più “verdi”, è in agguato. Ed è ancora più evidente
per i giovani del “sesso forte”, che tra i fornelli spesso tanto forti non sono,
schiacciati dai (giusti) miti della cucina della mamma e della cucina della
nonna. Che fare quindi per superare dubbi e incertezze? Come educare al gusto i
nostri figli? Spesso la civiltà della tavola si trasmette con l’esempio. È del
tutto evidente che se proponiamo cibi gassati e merendine, sarà difficile che i
nostri figli richiedano spontaneamente frutta e verdura cruda di stagione. Ma
ragioniamo. Anzi, sediamoci. Cosa possiamo fare noi giovani per la nostra
famiglia? Innanzi tutto il momento della scelta degli ingredienti, che saranno
più tardi gli attori nel palcoscenico della tavola, è altrettanto importante
quanto quello in cui la giovane famiglia si riunisce attorno al desco. In Alto
Adige, accanto alla sempre ben fornita Grande distribuzione organizzata, che
propone una struttura e un’organizzazione di vendita e prodotti simili in tutte
le regioni d’Italia, fioriscono nel fondovalle numerosi mercati del contadino (“Bauermarkt”)
con prodotti locali in prevalenza sfusi, di stagione e del territorio. Offrono i
prodotti freschi, venduti spesso in abbinamento a una gratuita breve spiegazione
sulla loro provenienza e sulla loro coltivazione e non è difficile ricevere in
omaggio un pezzetto di formaggio, tagliato a coltello e offerto al bambino, con
un sorriso, da una giovane e ruspante contadina. Ci sono poi i mercati
tradizionali, qui proposti a cadenza bisettimanale, e i negozi specializzati in
alta gastronomia. Questi ultimi offrono il meglio della produzione
agroalimentare nazionale e internazionale, sistemata su banconi luccicanti e
affettata su Berkel satinate. In altura, i masi di montagna regalano non solo
vette
spettacolari e aria incontaminata, ma offrono il contatto con i veri produttori
delle materie prime e si scopre senza traumi che le mucche fanno degli ottimi
latticini che vanno dal colore giallo chiaro (Almkäse o formaggio da latte
vaccino da pascolo
alpino) a quello più carico (burro e formaggi di malga stagionati). Da vedere a
metà settembre è il rito della transumanza, ben noto in molte nostre regioni
alpine e appenniniche. In un bel paese dell’alta Val Passiria ogni anno, a
giugno, i pastori si dirigono con le loro mandrie di buoi e pecore alle malghe.
Per celebrare il ritorno nel fondovalle, dalla locale Pro loco viene organizzata
a fine estate una grande festa e a mezzogiorno inizia la transumanza con slitte
trainate da cavalli e circa 200
capi di bestiame. Un’occasione unica per fare incontrare i figli con i
produttori in un modo giocoso. Altra scoperta da fare con i bambini riguarda le
erbe e i fiori commestibili, in un castello in Val Venosta, dove si può
gratuitamente entrare in un bel giardino e scoprire assieme ai propri giovani
allievi alcune piante semplici, con molti profumi diversi e talvolta con poteri
curativi. Proviamo a riconoscere non solo il basilico e la camomilla, ma anche
il sambuco e la lavanda, la melissa e la malva, la piantaggine e la salvia.
Trasformare l’acquisto di ciascuno di questi ingredienti in un’esperienza
giocosa e profumata è un momento di comunione con i pargoli indimenticabile. Far
comprendere quanta fatica si fa a raccogliere gli asparagi porta
a rispettare il piatto che si ha davanti. E rispettare il cibo significa
rispettare se stessi. Altro dilemma per il giovane Accademico è la
trasformazione degli alimenti. Non è questa la sede per discutere dei diversi
metodi di cottura, ma è intuitivo che vi sono alcuni metodi (piastra, griglia,
cartoccio, stufatura, bollitura) che sono da preferire ad altri (frittura). Il
tempo che si dedica alla cottura potrebbe essere utilizzato per riflettere sul
valore dell’attesa. È importante tenere a mente che la preparazione del pasto
dovrebbe essere un rito festoso. I bambini non hanno bisogno di un piatto
“stellato”. Chiedono però organizzazione in cucina, goliardia spirito di
squadra, e un pasto semplice e genuino preparato con amore. E tempo passato
assieme. Impastare e preparare con le mani, tentare abbinamenti dolci e acidi,
caldo e freddo diventa sperimentazione, crescita, conoscenza delle proprie
inclinazioni. Infine, seguire il ritmo delle stagioni fa bene all’economia
locale, al portafoglio e anche alla salute. È un viaggio lungo e faticoso per
chi parte da lontano, ma possiamo cominciare con un primo passo alla prossima
spesa, assieme ai nostri figli. Ha scritto Lao Tse: “Un albero il cui tronco si
può a malapena abbracciare nasce da un minuscolo germoglio. Una torre alta nove
piani incomincia da un mucchietto di terra. Un viaggio di mille miglia ha inizio
sotto la pianta dei tuoi piedi”. E, modestamente aggiungo io, il canederlo più
buono del mondo è fatto con il pane di ieri.
di Rauol Ragazzi
Curiosità ed approfondimento |
Curiosità ed approfondimento |
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In un passato molto remoto l’albicocca era conosciuta come mela d’Armenia.
Quando la conobbero, i Romani chiamarono appunto la pianta “Armeniacumcum malum”, perché pur essendo pianta di origine asiatica, nel suo lentissimo percorso di occidentalizzazione, “sostò” vari secoli in Armenia dove trovò ideali condizioni di clima e terreno. Pianta antichissima al punto da far pensare a storici fantasiosi della prima ora, convinti, per le conoscenze dell’epoca, che il Paradiso terrestre fosse da quelle parti, che la perfida Eva indusse al peccato il progenitore Adamo con un’albicocca, dà un frutto delizioso e accattivante, dalla buccia irresistibile di velluto rosa, soffusa di raggi tra l’arancione e il tenue vermiglio. Questa bellezza esterna del frutto sembra già essere preannunciata dai fiori che, per dirla con Francesco D. Guerrazzi, “bianchi non si possono dire e vermigli né meno, bensì di una tinta che sembra aver dato il tono alle guance di una vergine al primo parlar d’amore”. Ancora oggi, nel nome scientifico dell’albicocco, Armeniaca vulgaris, si ricorda l’Armenia e si cita una leggenda locale secondo cui per il fabbisogno di legna di un esercito invasore, fu decretato l’abbattimento di tutte le piante improduttive. Tra queste rientravano albicocchi selvatici cari a una splendida fanciulla che, sapendo di perderli, si addormentò piangente sotto le loro chiome. Al mattino, svegliandosi, trovò i rami carichi di frutti, per cui le piante vennero graziate. L’imperatore Yu, che regnò in Cina verso il 2200 a.C., menzionò l’albicocco, ma la coltivazione della pianta cominciò solo tre secoli prima di Cristo. Teofrasto di Lesbo (371-276 a.C.) non lo menziona nella sua “Storia sull’origine delle piante”. Plinio il Vecchio fa delle citazioni, ma non sembrano verosimilmente riferibili all’albicocco, piuttosto ad altre drupacee, tipo pesche ancestrali. [segue nel box a destra] |
Per i Romani la prima menzione dell’albicocco fu di Columella, nel I
secolo, mentre per i Greci fu Dioscoride, contemporaneo dello scrittore
latino. È supponibile che i primi passi verso l’Europa, detto frutto li
fece con i soldati di Alessandro Magno nel 327 a.C. In Italia si pensa che
l’abbiano portato i crociati dal Vicino Oriente, quindi molto dopo l’anno
1000. Anticamente i medici studiavano per ciascuna pianta ogni possibile impiego farmacologico, ma inizialmente l’albicocco ha avuto in tal senso più avversione che consensi. Soprattutto medici arabi e medievali lo accusavano di provocare le peggiori febbri. Successivamente, per la medicina popolare araba, l’albicocca passò come toccasana per l’afonia e il mal d’orecchi. Gli studi più recenti hanno dimostrato che questo frutto ha insospettate virtù terapeutiche. Per esempio stimola la produzione di emoglobina, che trasporta ferro e dà colore al sangue. I gastronomi, invece, proprio durante il proibizionismo dell’albicocca per i mali su accennati, non hanno mai cessato di porre in atto squisite ricette di conserve, di marmellate e canditi del frutto messo al bando. Oggi ben sappiamo che l’albicocca è ricca di vitamine C e A (o della crescita): è molto benefica per bambini e adolescenti e il suo succo spremuto fresco lo è anche per i lattanti. In cucina, a parte le marmellate, le conserve e i canditi, abbiamo ancora l’impiego del succo nella gelatina che viene usata per “apricottare”, cioè spennellare torte o pasticcini prima di glassarli. Un tipico esempio è la notissima Sacher. Vi sono anche salse adatte all’accompagnamento di carni rosse e ad accostamenti salati. Nell’albicocca si trovano anche le vitamine B e PP, oltre ai sali di magnesio, fosforo, ferro, calcio e potassio. È quindi un frutto nutrizionalmente molto importante perché aiuta l’anemico, lo stressato e il depresso. Amedeo Santarelli |
"Attraverso le arti figurative si può seguire il rapporto tra uomo e cibo nella storia"
Che vi sia una specie di contaminazione fra arte e cucina è cosa
nota, così com’è noto che vi sia un rapporto ben preciso fra l’uomo e il cibo.
Questo rapporto si fonda su basi sociali connesse alle condizioni ambientali,
alle abitudini, agli stili di
vita ed è in perenne evoluzione. Insomma si può vedere, attraverso l’opera
d’arte, la storia dell’uomo sotto il profilo del cibo, dell’alimentazione.
Diceva D’Annunzio: “Se la fame e la sete sono gli impulsi primitivi nell’uomo (e
nella bestia) l’associare tali impulsi a «valori estetici» è un servire la causa
della cultura ben più efficacemente che le noiose ed oziose dissertazioni morali
e filosofiche”. Così guardare una natura morta o una scena di vita diventa
strumento non solo per l’esplorazione concreta del reale ma anche, per dire come
Lévi-Strauss, un modo per accedere alla conoscenza della società del tempo.
Guardiamo allora quel mangiatore solitario che è il contadino con la scodella di
fagioli del Carracci, la frugalità della scena, la rozzezza dei modi e dei
comportamenti, e intuiremo il modo di vivere di un’intera classe sociale o, se
cerchiamo di capire la felicità dei mangiatori di ricotta del Campi (anch’esso
della seconda metà del Cinquecento), con il loro ridere sdentato,
il loro vestire raffazzonato, la bocca piena di ricotta, capiremo molte cose del
bello e del buono in alcune classi sociali. Ma la ricchezza portava ben altri
cibi sulle tavole: lo stesso Campi (il quadro è a Brera) dipinge una cucina
nella quale vi è ogni ben di Dio di volatili, oche, anatre, galli, capponi, e
poi pavoni spennati, beccacce, fagiani, lepri. Della stessa natura e abbondanza
il quadro che ritrae la pescivendola: dallo storione all’aragosta, dalla carpa
alla trota, alla rossa triglia, tutto
indica una tale ricchezza di cose da far intuire la sontuosità della tavola. In
origine il termine “natura morta”, coniato verso la seconda metà del XVIII
secolo, aveva un lieve senso dispregiativo, perché si contrapponeva, con i suoi
oggetti inanimati, all’atmosfera della “natura vivente”. Da sempre la curiosità
dell’uomo di conoscere i particolari della vita dei propri antenati ha trovato,
nelle arti figurative, elementi di grande importanza. Per quanto ci riguarda
innumerevoli mosaici romani ci hanno illustrato le ghiottonerie alle quali non
sapevano resistere i nostri progenitori: interi pavimenti di pesci a Pompei o il
mosaico nella villa del Fauno ci mostrano il livello di ricercatezza al quale
erano arrivati in gastronomia. E anche dal
Medioevo abbiamo tracce evidenti di come dovessero essere la quotidianità e la
festa: il Theatrum sanitatis o le innumerevoli miniature tedesche (penso a un
macellaio di Norimberga del XIII secolo intento a tagliare un cinghiale) ci
rimandano a un’alimentazione semplice ma abbondante. Ma fu la pittura fiamminga,
con la naturale propensione a un luminoso cromatismo e a un minuzioso realismo,
a tramandarci con chiarezza i cibi che arrivavano sulla tavola. Vediamo così le
carni arrostite sulla tavola nel “Banchetto” di Hals; la quantità incredibile di
frattaglie, testa di vitello, piedini di maiale, nella “Piccola macelleria” di
Peter Aertsen; la sontuosità nel bue squartato di Rembrandt, tanto quanto vi è
di abbondanza nella “Cucina ricca” di Brueghel il Vecchio. Della tavola come
spettacolo si hanno testimonianze fino alla fine del Settecento: il Bella
dipinse pranzi a Venezia (memorabile quello dei Duchi del Nord del 1782) ma,
prima di lui, con altri intenti artistici, il Veronese dipinse le “Nozze di Cana”
e il Caravaggio ci mostra la sacralità del cibo nella “Cena in Emmaus”. Anche
l’Ottocento ci ha lasciato istantanee di piatti o di cibi. Ricordate il
prosciutto di Manet, già in parte affettato, con la cotenna marrone di
affumicatura? O il “Pasto” di Gauguin dove un’enorme ciotola campeggia su una
tavola? O “Le petit déjeuner” di Monet con biscotti, uova, acetiera e oliera in
tavola? Manca, però, il fascino dello scoprire: di quella bella fetta di
prosciutto si sente quasi il profumo. Vediamo ancora con curiosità la “Vucciria”
di Guttuso nell’accurata descrizione di carni e verdure del mercato di Palermo e
poi arriviamo ai quadri di Andy Warhol, che attinse i temi dal repertorio
pubblicitario. Ma qui è come mangiarsi un’identità: la ricerca è finita.
di Alfredo Pelle
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Con una cerimonia assai semplice ma densa di significato storico e
normativo è stata celebrata la codifica notarile di una delle più antiche
ricette della tradizione cucinaria abruzzese: la nèvola di Ortona. Si
tratta di una cialda dal sapore delicato, arrotolata a forma di cono,
costituita da un impasto di farina, mosto cotto e olio, aromatizzata con
semi di anice, cotta tra due apposite piastre di ferro arroventate. Il
nome deriva dal latino “nèbula” (nebbia); è chiamata nei vicini territori pure “ferratella” o “catarretta” oppure “pezzella”. La sua esistenza è documentata sin dal XV secolo, infatti Maestro Martino (De Rossi), nel suo “Libro de arte coquinaria”, cita le nèvole nella ricetta “Per fare marzapane”, laddove consiglia di predisporne “assieme ad acqua di rosa”. Il sapore delle nevole ortonesi “dipende dal tipo di ferro impiegato”: quello, cioè, appartenente a ogni famiglia che rispetti la tradizione, ha fatto notare il prof. Franco Cercone, in occasione della riunione conviviale seguita alla cerimonia di codifica. Egli ha inoltre spiegato che un tempo il mosto cotto utilizzato nella preparazione delle nevole proveniva dall’uva Pergolone o “uva di San Francesco”, che ha segnato la storia della cittadina adriatica attraverso i decenni e che, oggi, costituisce il più lacrimato dei rimpianti a causa della sua decadenza ampelografica seguita, fatalmente, da un’inquietante emarginazione culturale. Infatti, tutti i tentativi di riportare quel frutto all’antico splendore hanno finora prodotto soltanto risultati deludenti, a dispetto di sforzi operati con l’antica passione ortonese coniugata alla moderna tecnologia, con intenti non solo meramente commerciali. di Pino Jubatti |
La ricetta Per 150 nevole, occorrono:
Preparazione: |