Sezione dove raccolgo i vari articoli in tema, il più possibile approfonditi
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Gli scaffali dei supermercati destinati ai sughi pronti diventano sempre più “frequentati”. Le varietà offerte sono numerose: tutte le specialità delle varie salse regionali sono presenti, dall’amatriciana al pesto, dalle vongole all’arrabbiata, dalla bolognese al pomodoro e basilico e via di seguito. Tante le marche e vari i prezzi. La produzione nazionale è in continuo aumento, siamo su quasi 45.000 tonnellate l’anno. Molte sono le ragioni di questo boom di consumi. Il tempo che si dedica alla cucina è sempre meno, si è disposti a pagare un po’ per non stare a soffriggere e spadellare, e avere, dopo una rapida riscaldata, un bel sugo pronto per la pasta. D’altro canto anche l’industria ha fatto passi da gigante fornendo un prodotto qualitativamente molto buono, lanciato da campagne pubblicitarie molto convincenti e pressanti che hanno allargato il mercato. Molto curioso notare che a trainare la crescita complessiva del comparto sono i segmenti del pesto e dei sughi non a base di pomodoro. L’effetto di spinta sui risultati del pesto è stato provocato dal lancio e dal sostegno pubblicitario sul pesto alla siciliana e alla calabrese promosso da una grande azienda nazionale. Da un punto di vista nutrizionale nulla da eccepire, anche se sono presenti grassi e, in alcuni casi, conservanti. Al riguardo, se si vuol essere scrupolosi, si possono preferire i prodotti a più breve scadenza che potrebbero avere meno conservanti oppure i prodotti definiti “biologici”, che tuttavia possono presentarsi di colore un po’ più spento per la mancanza di qualche “ravvivatore”. A questo punto ci sembra saggia la raccomandazione del prof. Andrea Ghiselli dell’Istituto nazionale ricerche alimentari e nutrizione, secondo il quale “ogni tanto sarebbe però opportuno, per un corretto attaccamento ai piatti che prepariamo, cucinare il sugo in casa. Anche perché preparare una semplice salsa al pomodoro richiede davvero poco tempo”.
I fagioli, per secoli, hanno sfamato generazioni povere del mondo contadino;
protagonisti di tante ricette regionali, vera prelibatezza dei buongustai, non
sembrano permanere nelle preferenze dei consumatori. Negli ultimi sessant’anni,
il calo dei
consumi è stato notevole: dai circa 6 kg pro capite l’anno, si è passati a circa
2 kg e mezzo. Questa mutata abitudine alimentare si è tradotta in una maggiore
dipendenza da prodotti di origine animale che, però, nel loro insieme sono meno
salutari dei legumi a causa del maggior contenuto di grassi e colesterolo. I
legumi sono un’ottima fonte di proteine e se vengono consumati insieme ai
cereali si riesce ad avere un apporto proteico corretto. Una ricerca canadese
svolta su migliaia di consumatori ha accertato che chi mangia regolarmente
fagioli ha un peso corporeo più adeguato, un ottimale giro di vita e soprattutto
un controllo della pressione migliore di chi non se ne nutre mai. Esistono circa
500 varietà di fagioli: cannellini, borlotti ecc. A Cristoforo Colombo va il
merito di averli fatti conoscere in Europa. Quasi nessuno, ormai, acquista i
fagioli freschi da sgranare, il maggior consumo è quello dei secchi, che si
conservano più a lungo, pur mantenendo le loro proprietà nutritive. Necessitano
prima del consumo di ammollo e di una lunga cottura. Tuttavia, vale la pena di
provarli poiché il gusto è certamente superiore a quello dei fagioli in scatola,
acquistati per praticità e rapidità. Se si acquistano fagioli secchi,
normalmente confezionati in sacchetti trasparenti, sarà opportuno preferire semi
integri, senza residui sul fondo della bustina. Verificare la data di scadenza e
la provenienza, che dovrebbero essere indicate in etichetta. Se si preferisce la
confezione in scatola, scegliere quella in vetro, che lascia vedere il
contenuto, anche se è un po’ più cara di quella in banda stagnata.
Il misterioso Haccp
È al punto vendita dei prodotti alimentari, specialmente degli ortaggi, della
frutta e dei prodotti sfusi, che si corre il rischio di contaminazioni per
l’inosservanza delle norme d’igiene, con il pericolo di contrarre malattie che
insorgono a causa di alimenti contenenti microrganismi patogeni o tossine di
origine batterica. All’aspetto e al sapore l’alimento, nonostante la
contaminazione, si presenta normale, con le proprie caratteristiche
organolettiche. È quindi necessario cautelare il consumatore con rigide norme
d’igiene nelle manipolazioni dei prodotti alla vendita. Nei supermercati una
serie di precauzioni garantisce in un certo qual modo il consumatore. L’obbligo
di usare guanti nello scegliere i prodotti freschi nell’acquisto, il
preconfezionamento di vari prodotti, l’abbigliamento degli addetti ecc. Non è lo
stesso nei negozi al dettaglio dove spesso il rivenditore prende le fette di
prosciutto o di salame con le mani e lo stesso vale per il pane o i formaggi,
senza contare che frequentemente la stessa persona poi maneggia anche i soldi.
Ovviamente i consumatori vorrebbero che gli esercenti indossassero i guanti usa
e getta, ma ce ne vorrebbero migliaia al giorno. È prassi igienica indossare un
grembiule chiaro e un cappellino. Le varie norme in materia raccomandano un
accurato lavaggio delle mani, evitando di portare orologi e braccialetti, di
tenere un comportamento corretto evitando di starnutire, tossire e fumare.
Ovviamente una pulizia accurata delle mani, insieme a tutti questi comportamenti
precauzionali, dovrebbe eliminare in pratica il rischio di contaminazione ma
resta che il consumatore non può sapere se è stato rispettato il manuale Haccp (Hazard
analysis and
critical control points). L’Haccp è un sistema di autocontrollo che ogni
operatore nel settore della produzione di alimenti deve mettere in atto al fine
di valutare e stimare pericoli e rischi e stabilire misure di controllo per
prevenire l’insorgere di problemi igienici e sanitari. Le norme generali in
materia sono molto vaghe, risalgono a un decreto presidenziale del 1980, ma sono
minuziose nel prescrivere al personale il copricapo (anche per i calvi) e il
grembiule di colore chiaro in modo
che si possa notare l’eventuale sporco. Tutto il resto è rimandato ai vari
“Regolamenti d’igiene” di cui ogni Comune si dota a suo discernimento. Quindi
capita che i negozianti adoperino pinze e guanti usa e getta in alcune città e
in altre no.
Se le norme riguardano il personale e l’assetto del punto vendita, anche il
consumatore deve autodisciplinarsi e tenere un comportamento corretto nel “self
service”. Indossare sempre i guanti nel manipolare la frutta e gli ortaggi, non
palpare e frugare a lungo nello scegliere la merce, causandone un
deterioramento. Non portare al naso il prodotto per valutarne all’olfatto la
qualità. Non spiluccare nell’assaggio il grappolo d’uva o la ciliegia. Se si è
raffreddati o influenzati tenersi alla larga dai banchi evitando di tossire o
starnutire, e in ogni caso coprirsi il viso con un fazzoletto, se necessario.
Rispettiamo così il prossimo, per pretendere per noi lo stesso comportamento.
di Gabriele Gasparro
Un subdolo parassita si annida nelle carni dei pesci.
L’Italia, durante il secolo scorso, travolta dalla passione per la cucina
multietnica figlia della globalizzazione, è stata sfiorata da nuove e diverse
tendenze gastronomiche, alcune delle quali hanno trovato terreno fertile per
lungo tempo, mentre altre sono state subito respinte. E così dalla Francia
abbiamo importato la “nouvelle cuisine”, che poi, dopo una travagliata
esistenza, è quasi scomparsa (i maligni erano soliti dire: “Poco nel piatto e
tanto nel conto”), mentre all’orizzonte sorgeva
un altro dilagante fenomeno: la moda orientale di mangiare il pesce crudo
chiamato “sushi”. È cosa nota che le carni dei pesci sono composte per il 90% di
acqua e quindi, quando un pesce si cucina, al forno o in padella o al vapore, la
porzione
viene drasticamente a ridursi di un 30-40% del suo peso, mentre da crudo
conserva immutati il suo peso e la sua estetica. Questo vuol dire che quattro
gamberi sgusciati e crudi fanno la loro bella figura in un piatto e possono
rappresentare una porzione di una pietanza, se ben guarniti da qualche
fogliolina di insalata, due fettine di pomodoro e uno schizzo di aceto balsamico
o di salsa di soia. Invece passati sotto un grill caldo e rimpiccioliti nel giro
di due minuti possono essere considerati semplicemente un appetizer. Riflettiamo
un attimo: in realtà i costi che sopporta il ristoratore sono gli stessi, in un
caso e nell’altro, con la differenza che mentre un secondo piatto compare sul
conto a una certa cifra, un piccolo antipasto non può essere addebitato al
cliente con lo stesso importo. I cuochi si saranno detti: “Ma guarda questi
orientali che furbacchioni, hanno inventato una cucina che non si cucina”, e
allora perché non lanciarsi sul pesce crudo? Ciò che avviene per i gamberi si
ripete con una sottile fetta di pesce spada, un filetto di branzino, una
tagliata di tonno appena sfiorata dalla fiamma esternamente, da affettare sotto
gli occhi dei clienti estasiati e quasi ipnotizzati dal balenare delle lame ben
affilate. Il pesce di allevamento poco si attaglia alla moda del sushi per le
modeste dimensioni di un suo filetto, anche se, date le modalità di allevamento
e di stabulazione in acque chiuse, non può essere infettato da certi parassiti,
come l’anisakis. Sebbene sia cosa abbastanza nota che oltre l’80% del pesce che
noi consumiamo è di allevamento, quindi abbastanza fresco, con un prezzo di
vendita che è circa un terzo rispetto a quello del pesce di mare, e che la t
glia media di tale pesce è adatta per una o due porzioni, purtroppo, anche se
ben cucinato, il suo sapore, per un palato molto raffinato, non raggiunge la
bontà del pesce di mare fresco. Il consumo del pesce fresco di mare, che spesso
di strada ne deve fare
tanta dal luogo in cui è pescato per arrivare nella cucina del ristoratore, è
protetto da una serie di leggi a tutela del consumatore, che se rispettate
riducono i rischi connessi al consumo del pesce crudo, leggi che purtroppo
spesso finiscono per essere trascurate, per i pochi scrupoli di alcuni e per la
scarsità di controlli. Infatti ogni pesce pescato non di piccole dimensioni,
prima di essere conservato in ghiaccio nei pescherecci di alto mare, deve essere
immediatamente eviscerato, proprio per evitare che l’anisakis perfori il suo
stomaco e migri, andando a posizionarsi nelle sue carni, dove - non visto -
continuerà a produrre larve che poi si trasformeranno in vermi. Tutte le specie
di pesci e di molluschi sono a “rischio anisakis”, il pesce azzurro in
particolare: lo sgombro, i merluzzi, le sardine, il pesce sciabola o spatola, e
poi la gallinella, la rana pescatrice, i totani, i calamari, i polpi, le
triglie, i cefali, la tracina, il grongo, le alici, i tonni, i pesci spada, le
ricciole. Sembra che, nel corso degli ultimi anni, l’aumento dei mammiferi
marini, legato alle misure di protezione delle specie di recente adottate, e la
loro capacità di spostamento, abbia facilitato la diffusione dell’anisakis in
tutti i mari del globo. Seguendo il suo ciclo vitale, si apprende che questo
parassita adulto vive nell’intestino dei mammiferi marini quali foche, otarie,
elefanti marini, delfini, orche, dugonghi, lamantini, balene eccetera. Le uova
del parassita vengono eliminate
tramite le feci nel mare e qui si schiudono dando vita alle larve. Le larve a
loro volta vengono ingerite da piccoli crostacei. I pesci, poi, si cibano di
questi piccoli crostacei e quando i pesci piccoli sono divorati da quelli più
grandi, il parassita vi si trasferisce a sua volta. I mammiferi marini, gli
uccelli e i rettili (serpenti di mare e coccodrilli) poi si cibano di pesci già
infestati e così il ciclo si compie. L’uomo quindi si infetta consumando pesci
crudi o poco cotti. Quali danni può causare la loro ingestione all’organismo
umano? Anche una sola larva può scatenare la patologia, ma non tutti si ammalano
nella stessa maniera. La larva arriva nello stomaco con il cibo e poiché riesce
a resistere all’ambiente acido cerca di forare la parete dello stomaco o
dell’intestino provocando forti dolori, poi muore ma dà origine, nel tempo, a un
granuloma che può essere anche scambiato per una patologia ben più grave. Dopo
alcune ore il parassita finisce per morire, ma ha il tempo di provocare problemi
gastroenterici, quali dolori addominali, diarrea, nausea, vomito, e poi reazioni
allergiche, orticarie, riniti o congiuntiviti, asma, finanche, in alcuni casi
estremi, shock anafilattico. Per evitare l’ingestione del parassita vivo e/o
delle sue larve è necessaria una completa cottura del pesce, portandolo oltre
70°. Altrimenti bisogna congelarlo nel freezer a -20° per almeno 24 ore, poi
basta scongelarlo e si può mangiarlo tranquillamente, anche crudo se si vuole. I
ristoratori che servono pesce crudo hanno l’obbligo di tenerlo nell’abbattitore
per almeno ventiquattro ore. Ma alcuni operatori non lo fanno perché questa
operazione porta via tempo e costa parecchio. L’apparecchio abbattitore dei
ristoranti congela molto rapidamente a temperature così basse che i cristalli di
ghiaccio che si formano non incidono sulla consistenza del pesce una volta
scongelato. Invece questo spesso avviene nei congelatori domestici, dove
difficilmente si raggiunge
una temperatura di -20°, e in breve tempo. Bisogna fare molta attenzione perché
la semplice marinatura del pesce, sia pure protratta per alcune ore, con aceto o
con limone, o con tutti e due, non è sufficiente a eliminare il pericolo, perché
sia le larve che il parassita sopravvivono tranquillamente a un simile
trattamento. Quindi evitiamo di mangiare le alici crude o i gamberi marinati,
preparati sia a casa che al ristorante, a meno che non siamo certi che siano
stati in precedenza surgelati a -20°. Secondo le più recenti statistiche
mondiali, la popolazione giapponese è quella più colpita dall’anisakis, a causa
dell’abitudine di ingerire pesce crudo, anche se molto fresco.
di Sergio Corbino
La castagna da sempre è stato uno dei cibi dei poveri, anche se dall’umile
caldarrosta si sale nella scala sociale dei cibi fino ai “marrons glacés”. La
castagna è un frutto atipico, ricco di amido come i cereali, buona fonte di
fibre, di potassio e di vitamine del gruppo B. Per centinaia di anni le castagne
hanno rappresentato la principale fonte alimentare delle popolazioni degli
Appennini durante l’autunno e l’inverno. Una volta erano molto più presenti
sulle mense familiari; il loro arrivo segnava l’avvicinarsi dell’inverno. In
Italia esistono moltissime varietà di castagne. La distinzione tra castagne e
marroni non è sempre chiara. Le castagne sono il frutto dell’albero selvatico.
Hanno forma, dimensione, sapore molto variabili anche se prodotte dallo stesso
albero e quindi tutta la gestione del prodotto è più complessa. I marroni sono
prodotti dall’albero coltivato e hanno caratteristiche più standardizzate.
L’Italia è da sempre uno dei maggiori produttori di castagne, con circa 70.000
tonnellate l’anno, e uno dei più importanti fornitori dei mercati esteri. Ma
ecco che, come per moltissimi altri settori merceologici, la castagna diviene…
“gialla”. Entra prepotente sul mercato mondiale la Cina, che riesce a
esportare perfino in Italia. Si tratta di un prodotto qualitativamente inferiore
al nostro, ma molto più conveniente per il prezzo d’acquisto. La performance
della Cina è da attribuirsi sia a una maggiore superficie investita nella
coltura, sia
al miglioramento delle rese. Molte nostre varietà tipiche regionali hanno
ricevuto i riconoscimenti Dop e Igp, come la castagna di Vallerano, quelle di
Cuneo, del Monte Amiata, di Montella, i marroni del Mugello, di Castel del Rio,
di Roccadaspide e di San Zeno. Sono tutte ottime produzioni che purtroppo non
raggiungono la vastità del mercato di largo consumo. È il consumatore che nelle
sue scelte deve accertarsi che il prodotto si presenti bene: le castagne devono
apparire sode, il guscio non deve cedere, se premuto con le dita, affinché non
si incorra nell’inconveniente evocato da un vecchio proverbio del Salentino:
“La fimmina ete comu la castagna:
bedda de fore intra tene la magagna”
di Gabriele Gasparro
Sauris è un piccolo paese di circa quattrocento abitanti, un gioiello per i turisti più raffinati amanti delle montagne friulane. È il comune più alto della regione. L’aria e la temperatura contribuiscono a rendere ottimo uno dei prodotti più tipici della zona, il prosciutto. Il prosciutto di Sauris ha ottenuto il riconoscimento europeo Igp (Indicazione geografica protetta) con un decreto pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale, che ha confermato il riconoscimento europeo. Nel corso dei secoli si è sviluppata una tecnica, divenuta vera e propria arte, che unisce l’uso tipico nordico dell’affumicatura al metodo latino della conservazione della carne mediante il sale. Le cosce si ricavano da giovani maiali allevati con prodotti naturali: farina di mais, orzo, patate, siero di latte. L’affumicatura è prodotta dalla combustione di legna di faggio, di ginepro e abete bianco in speciali caminetti il cui fumo è convogliato in canalizzazioni che lo distribuiscono attraverso il pavimento del locale. Al consumo, si riconosce dal marchio “Sauris” contornato da un ovale.
Le uova
L’uovo è un alimento importantissimo perché contiene in sé tutti i principi
nutritivi che lo rendono un alimento completo. La sua freschezza è essenziale.
Una volta, per accertarla, lo s’immergeva in un recipiente pieno di acqua
salata: se l’uovo rimaneva sul fondo era freschissimo, se stava a galla in
posizione verticale era vecchio di una diecina di giorni, se galleggiava, era
ormai da buttare. Le norme nazionali e comunitarie si sono da tempo preoccupate
di dare informazione al consumatore sulla freschezza dell’uovo. Ora c’è un
ulteriore decreto in attuazione di un regolamento comunitario secondo il quale
le uova devono essere ritirate dal commercio sette giorni prima della data di
scadenza riportata sull’imballaggio. Una curiosa disposizione ha stabilito
altresì che nelle confezioni la quantità netta può essere espressa in peso
oppure in numero delle uova, a discrezione del produttore. I produttori devono
apporre sulle uova e sugli imballaggi le seguenti diciture secondo il
sistema di allevamento:
1IT (allevamento all’aperto) | |
2IT (allevamento a terra) | |
3IT (allevamento in gabbie) | |
0IT (uova biologiche) |
Queste indicazioni interessano molto gli animalisti che considerano negativamente gli allevamenti in gabbie dove l’animale soffre della mancanza di movimento.
I francesi amano la pizza
Fu Caterina de’ Medici la prima a portare il gusto italiano sulle tavole francesi: era il 1533 quando la duchessa fiorentina andò sposa al futuro re di Francia Enrico II portandosi al seguito cuochi e pasticcieri. Da allora il consumatore francese, pur orgoglioso della propria cucina, cominciò ad apprezzare anche la nostra e soprattutto i prodotti alimentari italiani. Durante lo scorso anno si è calcolato che ogni francese ha speso almeno 500 euro in acquisti di salumi, formaggi, pasta, conserve e altri prodotti italiani. Ma il gran successo italiano in Francia non è più quello dei manicaretti rinascimentali o di altre raffinate preparazioni ma quello più popolare della pizza. Ogni francese mangia circa 10 kg di pizza l’anno, più pizza di un italiano, che ne consuma solamente la metà. Si calcola che in Francia ci siano più di ventimila pizzerie, con un fatturato annuo di tre miliardi di euro.
Il vino alla spina
Del vino sfuso se ne stava perdendo la memoria. Ora è tornato di moda, certo
per la crisi ma anche per quella moda che induce il consumatore a “spillare” il
vino da solo dai grandi serbatoi di acciaio che sono apparsi in molti punti di
vendita. Non c’è certo l’enfasi della “cavola” di legno dell’antica botte in
cantina, ma è comodo e sbrigativo. Si sceglie il vino che si preferisce fra
un’ampia scelta di Doc o non, si prende un contenitore in pvc a disposizione,
normalmente di due o più litri, lo si riempie e si passa a pagare alla cassa. Il
vino sfuso sta anche aumentando nelle vendite all’estero. La recessione
economica, la ricerca di un prodotto a basso prezzo, hanno provocato un aumento
della domanda internazionale di vino sfuso. Vino che una volta era destinato
esclusivamente al taglio, ora è importato per essere imbottigliato sul posto. Ne
stanno facendo una vera e propria strategia di mercato soprattutto i Paesi nuovi
produttori quali l’Australia, il Cile, il Sudafrica, l’Argentina. Spinti dalla
necessità, anche i produttori italiani stanno attuando la stessa manovra,
specialmente con il mercato russo. Vendiamo molto, ma incassiamo meno. Fanno
cassa i nostri produttori. Si liberano delle eccedenze, per fortuna vendono
senza
denominazione e così non squalificano il buon nome del vino di qualità italiano,
acquisito con impegno e serietà di lavoro. Una qualifica di qualità che dà
prestigio al “made in Italy”.
di Gabriele Gasparro
Appena finite le feste, è tempo di saldi, anche in campo alimentare. Non è
raro, infatti, in questo periodo, trovare, oltre a quelli industriali, panettoni
artigianali a prezzo stracciato. Recita un antico proverbio latino: “Malus male
cogitat”, cioè “Il cattivo o il maligno pensa a cose malvagie, cattive”. Non
sempre è vero, non mi reputo per niente malvagio o cattivo, ma ogni volta che si
approssimava il Natale, nell’osservare nei magazzini della grande distribuzione
i panettoni di produzione industriale, che proprio grazie alla
commercializzazione di massa erano messi in vendita a poco più di 3 euro al
chilo, mi veniva da pensare a quelli prodotti artigianalmente che si aggiravano
da 18-20 euro in su, fino a raggiungere cifre più elevate nel caso di
pasticcerie quasi blasonate, dai nomi altisonanti. E mi meravigliavo del fatto
che nessuno avesse ancora pensato di fare quello che poi in realtà hanno fatto
alcuni pasticcieri a dir poco disonesti, che ogni anno vengono scoperti dai Nas
in diverse parti d’Italia. Tralasciando l’utilizzo di un olio minerale
paraffino-naftenico, un derivato del petrolio, scoperto di recente negli
stabilimenti di produzione di biscotti vari, perché indispensabile per la
plastificazione delle confezioni, vorrei un momento riportare l’attenzione alla
truffa di natura economica, che nulla di male poteva fare alla salute dei
consumatori, se non alla loro tasca, cioè quella dei panettoni, nostro simbolo
del Natale, che a quanto pare ha coinvolto parecchi operatori del settore. Ho
immaginato, così, cosa potesse essere accaduto, magari in una piccola bottega
artigiana a conduzione familiare, per stare al passo con la crisi economica e
competere con la grande distribuzione. Insomma potrebbe
essere andata che, un giorno, l’ipotetico figlio, pasticciere rampante, di un
onesto artigiano, convince padre e madre a farsi furbi e a spacciare per
artigianale un panettone industriale. Come? Semplicemente andando ad acquistare
panettoni industriali in alcuni supermercati fuori zona, e riconfezionandoli con
carte da regalo colorate e lucide, con bei nastri e un bel rametto verde di
vischio beneaugurante, sistemandoli in vetrina con il cartello “panettone
artigianale”. Non solo, dopo aver preso gli ordinativi con un piccolo anticipo
(il panettone artigianale deve essere ordinato prima, soprattutto se si lavora
in un piccolo locale che non può tenere scorte), prima di consegnarli, li
facevano stare per pochi minuti nel forno e, nel metterli in mano ai clienti,
avrebbero raccomandato: ”Fatelo raffreddare del tutto, ma ricordatevi di aprire
la confezione qualche ora prima di mangiarlo, è più fragrante!”. Ma sarà andata
proprio così? È meglio riderci sopra, ma comunque quando dovrete acquistare un
panettone artigianale, anche in “saldo”, fateci un pensiero e comunque aprite
bene gli occhi, perché i pasticcieri seri e per bene mai farebbero una simile
azione.
da un articolo di Sergio Corbino
Di fronte al dilagare dei medicinali sintetici, sempre di più si ripensa ai
rimedi naturali. Crescono i negozi di erboristeria, dove erbe e tisane sono
richieste con fiducia e alla “pillola blu” si contrappone con sempre più
frequenza il bulbo antico, prezioso ingrediente della cucina mediterranea,
l’aglio. Diverse recenti ricerche hanno dimostrato il suo effetto stimolante del
desiderio e la sua facoltà di combattere l’impotenza. Ne ha parlato persino
l’autorevole Bbc, con un suo documentario
dal titolo “Aglio come il Viagra”: il giorno dopo le vendite dell’odoroso
tubero in Gran Bretagna sono aumentate del 30%. Rimane sempre il problema di
come assumerlo. Plinio suggeriva di pestarlo insieme a coriandolo fresco e
prenderlo con il vino. Alcuni raccomandano di preparare una bevanda facendo
bollire mezzo litro d’acqua, alla quale aggiungere tre spicchi d’aglio, un gambo
di sedano e un rametto di santoreggia. In Inghilterra, alcuni ricercatori
raccomandano d’ingerire quattro spicchi d’aglio al giorno, per tre mesi
consecutivi, per avere effetti terapeutici sull’impotenza maschile. L’aglio
entra prepotente nella gastronomia, dà sapore e gusto alle vivande, da sempre è
considerato diuretico, battericida. I Paesi mediterranei
sono sempre stati grandi consumatori di aglio, e può darsi che sia questo il
motivo per cui i loro abitanti godono fama di grandi amatori. Non è dato però
avere una conferma sicura dei benefici dell’aglio fintantoché la medicina
ufficiale non lo avrà consacrato. Nel frattempo l’omeopatia e i poteri naturali
delle piante, aglio compreso, continuano a svolgere il loro compito egregio,
come sempre è stato. È anche utile sapere che la cipolla rossa tropeana contiene
ossido di azoto, ovvero il principio attivo del Viagra. Ma c’è un ma: lo
svantaggio dell’odore che allontana e disgusta con il suo forte afflato. Nulla
elimina quest’odore antisociale che porta a rimanere soli, a meno che la persona
amata non disdegni anch’essa una bella bruschetta di pane casereccio,
abbrustolito a dovere, lievemente accarezzato da uno spicchietto d’aglio, ben
irrorato da olio d’oliva extravergine, possibilmente del nuovo raccolto, e
battezzato con un pizzico di sale.
di Gabriele Gasparro