...Ovvero, le ricette trovate su libri antichi.
Nota: tutte le ricette sono, volutamente, copiate e trascritte così come si trovano sui libri, Errori compresi, parole antiquate, ecc. ecc. :-)
Piglia le zuccolle tenere che non siano molto grosse, e poi che le avrai rasate le taglierai in fette sottili e le distenderai, gettandogli sopra del sale, tanto che piglino un poco detto sale. Poi friggerai in olio o butirro, secondo che vorrai, infarinandole però prima. E poi che seranno fritte le imbandirai ponendogli sopra finocchi freschi sgranati o agresto.
Cristoforo da Messisbugo da “Libro novo” (1559)
Metti in una padella le fette di zucca lessate e poi fritte, irrorale di salsa di cumino e aggiungi sopra un po’ di olio. Fai cuocere e servi.
Marco Gavio Apicio da “De re coquinaria” (I secolo d.C.)
La zucca, che da’ Latini vien detta cucurbita, è molto in consuetudine nelli cibi dell’omo, cotta in minestre in torte in frittelle, con la carne con l’olio con il formaio et in molti modi como bene si puol considerare appresso de buoni cuochi.
Costanzo Felici da “Lettera sulle insalate” (1564)
Farai così: taglierai la zucca per lungo a modo e grossezza di stringhe di maccheroni. Mettila poi in una conca e quando sarà stata per un’ora mettila sopra una tavola a scolare con un peso sopra acciò scoli bene, infarinala poi e friggila in olio bollente.
Francesco Gaudenzio da “Il Panunto toscano” (1705)
Fate cuocere la zucca tanto che non vi resti più umido e che sia tutta sfatta; dopo butirro e sale fatele fare del sugo, a parte fate scaldare del latte al bisogno e vi metterete il zuccaro che vi piace e l’unirete alla zucca, e avanti di metterla nel piatto vi metterete sotto fette di pane e la farete scaldare a piccolo fuoco nel medesimo piatto.
Anonimo reggiano da “Libro di casa” (1750 circa)
Li fungi voleno essere alesati e con quelli bullire i piri o freschi o sechi che de loro sono triaca, specialmente i salvatici, overo pezzi di pane cum uno poco de calamento. Dopo se manze cum bone spetie, dolce o forte, olio o sale.
Michele Savonarola da “Libretti de tutte le cose che se magnano” (1450)
In primo luogo si devono cuocere in acqua insieme con quella parte succosa del peduncolo con la quale sono attaccati al terreno, con mollica di pane, con pere o con germogli e piccioli di pere. Alcuni vi mettono l’aglio, ritenendo che sia efficace contro il veleno. Lessati e salati si friggono nell’olio o nello strutto. Come sono fritti, si spruzzano con agliata o con salsa verde. C’è chi li cuoce alla brace dopo averli voltati e rivoltati e poi se li mangia cosparsi di pepe e cannella.
Bartolomeo Platina da “De honesta voluptate” (1474)
Lo Spignolo ai giorni nostri è il fungo più pregiato e di maggior prezzo. Sono commestibili sia crudi che cotti, alla brace e coi sughi, freschi e secchi.
Costanzo Felici da “Lectio nona de fungis” (1571)
Quei che sono buoni mangiandone troppa quantità soffocano. Quei che si salano diventano sicuri col beneficio del sale. Bisogna mangiarne molto pochi e bevergli appresso vin buono ma in poca quantità.
Baldassarre Pisanelli da “Trattato della natura de’ cibi” (1611)
Si servono i funghi con butirro, o olio, un senso d’aglio, prezzemolo, acciughe, pepe e sugo di limone. Si servono con culì di prosciutto, o gambari. Si friggono in pastetta o infarinati e dorati. Se ne fanno zuppe. Si usano nei ragù. Se ne fanno salse.
Vincenzo Corrado da “Il cuoco galante” (1786)
Carne grossa di bove et de vacca vole esser allessa; carne de vitello, zioè il pecto davanti è bono allesso, et la lonza arrosto, et le cosse in polpette. Carne de castrone tutta è bona allesso, salvo la spalla, che è bona arrosto, et etiamdio la cossa. Carne de porco non è sana in nullo modo; pur la schina vole essere arrosto quando è fresco con cepolle, et il resto per salare o come ti piace. Carne di capretto è tutta bona allesso et arrosto; ma la parte de drieto è meglio arrosto. Similemente è l'agnello. Carne de capra è bona del mese de jennaro con la agliata. De la carne del cervo la parte denanzi è bona in brodo lardieri, le lonze se potono far arrosto, et le cosse son bone in pastello secco o in polpette. Similemente è bona la carne del capriolo. Carne de porco salvatico vole esser in peperata, o in civero, o in brodo lardieri. Carne de lepore è tutta bona arrosta, ma la parte de drieto è migliore, et la parte denanzi è bona in sapore, come è dicto. Carne de coniglio è meglio arrosto che in niuno altro modo, et li lumbi sonno la miglior parte di esso. Carne di urso è bona in pastelli.
Maestro Martino da "Libro de arte coquinaria" (sec. XV)
Cicerone, over cigno, ocha, anetra, grua, ocha salvatica, airone et cicogna vogliono essere arrosto piene de aglio o cepolle et altre bone chose. Pavoni, fasani, coturnici, starne, galline salvatiche, pedarelli, quaglie, turdi, merule et tutti li altri boni ucelli vogliono esser arrosto. Pollastri arrosto. Pipioni son boni allesso, ma arrosto son migliori. Palumbi salvatichi son boni arrosto, ma son migliori allesso con pepe et salvia. Cappone bono vole esser allesso, et quando è ben grasso vole esser arrosto; similemente è la gallina. Per haver ogni carne bella allesso. Chi vole haver bella carne allesso la deve dividere in pezi come gli piace, et porla a mollo in aqua fresca per spatio de una hora, poi lavarla bene con aqua calda, et poi iterum con aqua fresca, et ponerla al foco in un caldaro dove non stia a stretto aziò che rimanghi più bianca. Poi gli devi ponere el sale secondo che è necessario, et schiumarla bene sopratutto; et se il sale non fosse netto, ponilo in una pocha d'acqua calda, che in breve spatio serrà dileguato, et converso in salimora, la quale come sia rasectata se potrà poner nel caldaro pianamente, aziò che non ve andassi la terra, che serrà sul fondo; et se la carne fusse vecchia et dura, specialmente cappone et gallina, cavala parechie volte da l'aqua bollente, et rinfredala ne l'aqua fresca, et in questo modo serrà più bella et più presto cotta.
Maestro Martino da "Libro de arte coquinaria" (sec. XV)
Per fare bello arrosto de pollastri, de capponi, de capretti, o de qualunche altra carne che meriti esser arrosta: prima, se fosse carne grossa, fagli trare un boglio, excepto se fosse de vitello giovine, et poi lardala, come se fanno li arrosti; se fosse cappone, fasano, pollastro, capretto, o qualunch'altra carne, che meriti arrosto, fa' che sia ben netta et polita, poi mettila in aqua bollente, et subito cavala fore, et ponila in aqua freda, et questo se fa aziò che sia più bella, et meglio se possa conciare; poi lardala, zioè con lardo bactuto, et altre chose convenienti odorifere onta bene, secondo el gusto del tuo Signore; et drento se te piace gli poni de bone herbe con prune secche, marasche, et viscioli o, in tempo, de l'agresto, et altre chose simile; poi mittila ordinatamente nel speto, et ponila al foco, et daglilo nel principio ad ascio ad ascio, perché sia bello et bono arrosto se deve cocere pian piano; et quando ti pare che sia presso che cotto, piglia un pane bianco, et grattugialo menuto, et con esso pane mescola tanto sale quanto te pare necessario per lo arrosto; poi gitta questa mescolanza de pane et de sale sopra lo arrosto in modo che ne vadi in ogni loco; poi dalli una bona calda de foco, facendolo voltar presto; et in questo modo haverai el tuo arrosto bello et colorito. De poi mandalo a tabula; quanto più presto, è meglio.
Maestro Martino da "Libro de arte coquinaria" (sec. XV)
Impastinsi libre tre di fior di farina con sedici uova ben battute et un poco di sale, facendo di modo che la pasta sia più presto tenera che soda; poi d’essa pasta faccisene una ciambellotta tonda; bagnisi amendue le pizze di chiare d’ova battute, acciocché s’attacchino insieme, infarinisi la pala del forno e pongasi sopra la ciambellotta e taglisi in tre luoghi e diasegli il colore con ove battute e subito si spolverizzi di zuccaro e ponghisino al forno che sia ben netto et alquanto caldetto; e come si comincia ad alzare e pigliare il colore, pongasi sopra uno sfoglio di carta, e cotta che sarà servasi calda, perché quando è fredda non è così buona, e non è così ghiaccente e saporita.
Bartolomeo Scappi da “Opera” (1570)
Pigliarai due libre di mandole ambrosine pelate, e biscottate in una teglia a fuoco lento, acciò non piglino il color rosso; pestate nel mortaro, li aggiongerai quattro once di fior di cedro, una libra di zuccaro fino, una libra e meza d’amido tamisato; ben pestata ogni cosa insieme, li aggiongerai sei chiare d’ova; e se vorrai mettervi un grano di muschio, o d’ambra, sarà a beneplacito; ed incorporando questi ingredienti, ne farai pasta, preparando una padella grande da forno, polverizzandola di farina, le disporrai dentro i biscottini, grandi come ducatoni, o a beneplacito, avertendo che il forno sia caldo a porzione, lasciando alquanto mitigare (se farà bisogno) l’attività del calore.
Bartolomeo Stefani da “L’arte di ben cucinare” (1662)
Prendete 2 once farina di riso e mettetela con 6 once zuccaro fino, quattro rossi d’ovo, un pizzicotto cedrone grattato. Battete tutto assieme in un mortaio per un quarto d’ora, dopo aggiungete otto bianchi d’ovo sbattuti bene e metteteli nelle cassette di carta unte con butirro e cuoceteli in forno dolce; dopo che saranno freddati li leverete e vi farete sopra un diaccio con bianco d’ovo, un cucchiaro zuccaro finissimo e un poco di cedrone grattato e battetelo bene che venga in spuma e mettetela sopra a detti e fateli seccare in forno.
Anonimo reggiano da “Libro contenente la maniera di cucinare” (1700)
Per fare bona peperata de capriolo, o lepore, o porco salvatico, o d'altra salvagina, piglia tanta aqua, quanto vino roscio, et lavavi bene drente la carne; dapoi passa questa lavatura per la stamigna agiongendoli tanto sale quanto te pare necessario; et poni a cocere la carne in la dicta aqua et vino; et quando è cotta cacciala fora, et volendone fare duo piattelli, tolli una libra et meza de uva passa, et falla pistare molto bene, et togli altrectanto pane tagliato in fette brusculato bene sopra la graticula, et ben mogliato in bono aceto pistalo insemi con dicta uva passa, et potendo havere del sangue, overo la coratella de la salvagina, sarebe optimo pestarla con queste chose, le quale ben peste se deve distemperare col brodo di questa carne, con un poco de sapa, zioè vino cotto in mosto, et coll'aceto dove è mollato el pane; dapoi passa questa materia per la stamigna in una pignatta, giungendoli spetie, pepero, garofali et cannella, over cinnamomo, secundo te parrà necessario; et questa peperata falla forte o dolce de aceto, et de spetie, secundo el gusto commune, o del tuo Signore. Dapoi falla bollire per spatio de meza hora sopra la brascia, in modo che non habia più foco da una parte che dall'altra, menandola spesse volte col cocchiaro; dapoi frigi la carne predicta con bono lardo, et spartila ne li piattelli, et coprila de la prefata peperata la qual quanto è più negra tanto è più bella.
Maestro Martino da "Libro de arte coquinaria" (sec. XV)
Per far brodo lardiero de ogni carne salvacina: in prima lava la carne in bon vino bianco mescolato con altrectanto aqua, et passa la lavatura per la stamigna, con la quale ponirai a cocere la dicta carne, agiongendovi bona quantità de lardo, tagliato in pezoli piccoli come dadi da giucare, et ponigli etiamdio bona quantità de salvia rotta con mano in tre o in quattro pezi; et quando è presso che cotta, poneraili de bone spetie, come se dice de sopra. Et per far che 'l brodo sia un poco spesso, togli duo o tre rosci d'ova, secondo la quantità et altrettante fette di pane ben brusculate al foco, et non troppo o niente abrusciate, ma solamente secche, et fane polvere; poi togli un poco de brodo, et distempera queste chose inseme, et ponile nel brodo; et possendo haver del sangue overo la coratella de la salvacina, pestala bene, et ponila a cocere nel prefato brodo, el serrà assai migliore. Ma nota che se del dicto brodo tu vorrai fare piattelli, la carne vole esser tagliata in pezi grossi de una libra o di meza; et volendone fare minestre, vole esser tagliata minuta. Nota etiamdio che la carne da far peperata, et da far brodo lardiero, se coce in la lavatura per non perdere quel sangue che esce fuori lavandola.
Maestro Martino da "Libro de arte coquinaria" (sec. XV)
Ruta:
Suffrucite ruderale delle Rutacee ( Ruta graveolens) di odore nauseante,con
foglie composte e fiori piccoli,gialli,in corimbi terminali; trova diversi
impieghi in medicina per le sue proprietà antielmintiche,ipotensive e sedative.
Santoreggia:
Erba aromatica delle Labiate ( satureia hortensis), con foglie lanceolate, fiori
rosei, profumati, coltivata negli orti; si usa in profumeria e in liquoreria o
in cucina come aromatizzante di condimenti.
Silfio:
Nome che i Greci davano ad una pianta della Pirenaica, alta sino a tre metri
dalle foglie caratteristiche a forma di coppa ove ristagna l’acqua piovana e
fiori in capolini gialli ed il suo succo veniva utilizzato in medicina e in
culinaria.
Coriandolo:
Pianta erbacea delle Ombrellifere ( Coriandrum satinum), con foglie pennate,
fiori bianchi o rosa in ombrelle, i cui frutti a forte sapore aromatico, se
secchi, vengono usati in cucina, in liquoreria e anche in medicina.
Levistico:
Pianta erbacea delle Ombrellifere ( Levisticum officinale), nota con il nome di
sedano di montagna.
Cumino:
Pianta erbacea delle Ombrellifere ( Cuminum cyminum), con foglie laciniate,
fiori bianchi o rosei in ombrelle composte, frutti contenenti diversi semi
aromatici, usati in cucina per condimento, in liquoreria per la preparazione del
kummel, e in medicina come tonici e diuretici.
Timo:
Piccolo arbusto delle Labiate ( Thymus vulgaris), spontaneo nei luoghi aridi
della regione mediterranea e coltivato come pianta per condimento o per estrarne
l’essenza; ha foglie piccole a forma di Losanga, tormentose nella pagina
inferiore, fiori rosei in spicastri.
Origano:
Erba aromatica delle Labiate ( Origanum vulgare), pelosa, spesso rossastra con
foglie ovali crenate, fiori color rosa in spicastri riuniti in pannocchie o
corimbi, le une e gli altri usati in cucina come spezie e per aromatizzare la
pasta di acciughe nonché in liquoreria.
Porro:
Pianta erbacea delle Liliacee ( Allium ampeloprasum): varietà di aglio di cui si
consumano oltre al bulbo anche le parti inferiori delle foglie, sia crude,
specialmente come ingredienti di salse e vivande.
Finocchio
Pianta erbacea delle Ombrellifere ( Foeniculum vulgare o hanetum foeniculum),
con steli eretti, scanalati e carnosi; foglie alterne pennatosette, abbraccianti
il fusto con guaine dilatate carnose, che costituiscono il caratteristico corpo
(o grumolo), una parte cioè che comunemente viene consumata come ortaggio, fiori
piccoli, gialli, in ombrelle, frutti a diachenio, o con semi aromatici.
Il sale per i Romani non era solo un “condimento” ma anche un vero e proprio alimento. Era persino un sistema di pagamento e i soldati lo ricevevano anche come completamento della paga. | |
Le spezie durante l’ impero ebbero un’ enorme importanza per le mense dei ricchi; venivano importate da Asia, India e Africa. | |
I Romani facevano abbondante uso di spezie nella preparazione dei vari cibi. | |
Oggi, parlando di spezie, vengono in mente solo i condimenti del cibo ma gli scrittori classici per spezie intendevano anche le polveri aromatiche, i cosmetici, gli oli speciali e i profumi. | |
Apicio ci fa capire che per i buongustai romani la funzione delle spezie era soprattutto quella di conservare i cibi, di aromatizzarli e di insaporirli. | |
Apicio considerava le spezie come condimento moderno. Le più usate di queste sono pepe, ligustro, cumino, laser, origano, alloro, maggiorana, zenzero, santoreggia, resta, prezzemolo e rosmarino. | |
I testi scientifici dell’ epoca citano piante di spezie e relativi prodotti usati comunemente nella cucina dell’ epoca imperiale: sono circa 180 fra noti e meno noti. | |
Augusto aveva persino creata una flotta speciale che raggiungeva l’ estremo oriente. | |
La base di smistamento della maggior parte delle spezie era Alessandria d’ Egitto: qui confluivano i carichi arrivati per terra e per mare. | |
Tra le spezie maggiormente usate e provenienti da lontane terre troviamo lo zafferano che proveniva dalla Cilicia e il pepe che era l’ articolo più importante per il suo largo consumo; veniva utilizzato su qualsiasi alimento, dai dolci, alle carni, alle verdure. Ne esistevano tre specie diverse: il lungo, il nero e il bianco. Soprattutto il pepe nero veniva considerato merce di prima necessità. | |
Un intero quartiere di Roma veniva chiamato quartiere delle spezie ed era destinato al loro commercio. | |
Lo zenzero era come una costosa rarità. Era coltivato in Asia sud orientale, ma anche in Etiopia. Si usava ancora verde mescolandolo ai cibi bolliti. | |
Il laser, invece, era una specie di resina ricavata da una pianta coltivata in Libia ed era un misterioso e costosissimo ingrediente. | |
Fu probabilmente la prima droga non latina ad essere consumata dai Romani. | |
Il nardo proveniva dalla dalla Siria, ma se ne coltivava anche in Liguria. Le sue foglie erano utilizzate come aromatizzante. Inoltre era impiegato in medicina, in profumeria e in cucina per insaporire oltre che i cibi anche certe bevande. | |
Noce e macis erano usati anche in cucina come si fa al giorno d’ oggi. | |
Balsamo, incenso e mirra erano usati soprattutto in cosmetica, ma la mirra serviva anche a profumare il vino. | |
Il cumino reale ha trovato il suo migliore impiego come prodotto da mescolare ad altri condimenti o da spargere sulle pagnotte appena sfornate. | |
Le spezie venivano anche usate per insaporire il sale, dato che i romani lo
consideravano un contorno, lo mangiavano spesso con il pane e trovavano
logico cambiare e arricchire il suo sapore con le spezie. Il sale “condito”
non andava a finire tutto nei cibi, ma serviva in casa come medicinale di pronto uso per certi disturbi. |
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Il sale, praticamente indispensabile e purtroppo quasi introvabile, era importantissimo e il suo commercio e il suo uso si caricarono di simboli religiosi e sociali. La fornitura di sale alla Roma repubblicana era assicurata dalle saline create dal re Anco Marzio alla foce del Tevere. | |
Il sale nell’ uso quotidiano era conservato nel penus e da lì versato nelle saliere disposte sulla tavola. | |
Il sale costava molto anche se, molto spesso,veniva distribuito dagli uffici annonari, e molto spesso il suo prezzo aumentava per via delle spese per trasportarlo in località molto distanti dal mare. | |
Il sale che proveniva dalla salina era chiamato sal popularis e prendeva il
nomadi sal mollitus o tritus quando era macinata. |
Il farro, assieme ai legumi e le verdure fu alla base della alimentazione dei Romani sin dalle origini, mentre i Greci preferivano l'orzo che, però, era meno nutriente del farro visto che conteneva meno proteine e più carboidrati. A protezione di tutti i cereali i Romani avevano posto la dea Cerere e seguivano il parere di un medico, Galeno che raccomandava di lasciare da parte l'orzo, ottimo solo per i cavalli e adottare il farro che era molto più nutriente. L'orzo fu utilizzato solo nei momenti di carestia.
Il farro (triticum dicoccum) fu per circa tre secoli il cereale
preferito dai Romani. Era un grano duro la cui spiga non aveva barbe, rivestito
di glume molto aderenti e per queste ragioni non poteva essere trebbiato se
prima non era tostato,seppure leggermente.
La tostatura fu resa obbligatoria da Numa Pompilio secondo re di Roma.
Dal farro deriva il nome farina e con il farro gli sposi facevano offerte
agli dei al momento del loro matrimonio. Questa unione veniva appunto chiamata
confarreatio. Inizialmente il farro veniva macinato a mano usando due
pietre o con il mortaio. La mola ruotante fu scoperta più tardi , fu azionata
prima dagli schiavi , poi da asini e muli e, più raramente,
da cavalli.
Il pane vero e proprio arrivò sulla mensa dei Romani molto tardi (IV sec
a.C.) perché , in origine, con il farro si preparava solo la notissima puls
la polenta.
Plauto afferma che i Greci chiamavano i Romani "polentoni"
puliphagonides. La puls era l'alimento base e, di volta in
volta, era arricchita con quel che si aveva sotto mano: legumi,
formaggi, verdure, aromi, pesci sotto sale e pezzi di
carne.
Con l'arrivo del frumento ,che si poteva ridurre più facilmente in
farina, nacque il pane; non solo, ma i soldati, e molti altri con loro,
masticavano anche crudi, durante le lunghe marce, "questi nuovi granellini
" che venivano dalla Sicilia e dalle coste settentrionali dell'Africa. Man mano
che Roma si arricchì si cercò di affinare la farina destinata al
pane setacciandola con setacci più o meno fini di crine di cavallo
che fornivano farina grossa (cibarium) media (sivigo)
e finissima (flos). Nel passare dalla puls al pane (nel II sec.
a.C.) si attraversò uno stadio intermedio con una specie di focaccia che
si cuoceva sotto la cenere e che si mangiava con companatici diversi. Quello che
veniva chiamato pane era in origine soltanto una sorta di galletta dura non
lievitata, che diventava subito cattiva e che era anche costosa. Successivamente
si scoprì che il pane lievitato era più digeribile, più morbido e persino
più gustoso. Se ne produssero vari tipi: quello scuro, popolare (cibarius),
quello integrale (prediletto da Augusto il secundarius), quello quasi
bianco (panis), quello tenero (siligineus), Quello
cotto allo spiedo come si faceva ad Alessandria, e il piceno cotto in
vasi di coccio, il nauticus per i marinai, il militaris per il
soldati combattenti, il pane al burro ad uso gallico, il pane con
frutta, il pane rotondo.
Quello rotondo era il più comune e la pagnotta era divisa in
quattro porzioni per via di due tagli praticati in superficie prima di essere
cotto. Ovviamente il pane più raffinato non entrava in quelle distribuzioni
gratuite alla plebe di cui abbiamo notizia. I soldati avevano le loro
gallette, i Romani imprigionati per debiti avevano diritto a 327
grammi al giorno di pane di farro, un schiavo nel I a.c.
a due pagnotte.
Ma se uno schiavo era incatenato ai lavori forzati riceveva l'equivalente
di 1600 grammi giornalieri. I soldati in zona di guerra durante
l'impero ricevevano quasi 1200 grammi al giorno, però non mangiavano mai
carne si nutrivano di agli, cipolle, formaggio e lardo conservato. Le prime
panetterie comparvero a Roma alla fine del III sec. a.c. quando il
pane non era ancora lievitato. I panettieri man mano, per soddisfare i
gusti di una clientela che diventava sempre più varia cominciarono a porre sui
loro banconi pane per tutti i gusti e tutte le tasche. Produssero: un pane
speciale da mangiare con le ostriche, un pane al latte, un pane
alle uova, un altro insaporito al succo di uva disseccata.
Focaccia e pane divennero sempre meno duri e meno acidi e fatti con
grano sempre migliore, quello che affluiva dai cosiddetti granai di Roma
,l'Egitto e la Libia, macinato e setacciato con sistemi sempre più moderni. Si
arrivò a produrre un tipo di pane più degno di una pasticceria che di una
panetteria. Si chiamava artolaganus ed era confezionato con farina
sceltissima e impastata con miele, vino, latte, olio,
frutta candita a pezzetti e il solito abbondante pepe nero in
grani. Nella Roma imperiale le panetterie pubbliche erano 258 e pullulavano di
pasticceri, operai, garzoni, schiavi che iniziavano a lavorare molto prima che
spuntasse il sole per garantire la sopravvivenza di tutti i cittadini. I prezzi
erano amministrati e sul lavoro dei panettieri vigilavano i funzionari
dell'Annona e gli incaricati di fornire il grano necessario alla panificazione.
Gli edili controllavano giornalmente la qualità di pane che ogni panetteria
doveva produrre, il prezzo praticato alla clientela e la qualità del prodotto.
Il pane più semplice e meno costoso veniva ritirato dalle autorità che dovevano
poi effettuare materialmente la distribuzione gratuita ai meno abbienti ( un
chilo di pane a testa a tutti coloro che erano muniti dalla tessera
frumentaria). I fornai che avevano in concessione la preparazione di questo pane
dei poveri se la passavano piuttosto bene, ma chi aveva più inventiva, chi
preparava un pane speciale, per le ricche borse guadagnava ancora di più. Il
lavoro nella panetteria iniziava con la pesatura del grano alla presenza degli
ispettori pubblici, poi il frumento era vuotato dagli operai nelle pesanti
macine azionate da asini o, più frequentemente, da schiavi. Seguiva la
setacciatura regolata a seconda del tipo di clientela da servire. Setacci a
maglia stretta per ottenere farina molto fine e bianca per i tipi di pane
pregiato; setacci a maglia larga per farina scura e grezza adatta a preparare il
pane della plebe. Solo in epoca tardo repubblicana si era cominciato ad usare il
lievito ottenuto mescolando mosto, miglio o crusca o farina acida e, in epoca
più recente quello derivato dalla birra. Le impastatrici con i loro lunghi
bracci di legno, erano manovrate da schiavi e poi la pasta era distribuita su
assi speciali, le si dava la forma richiesta e si infornava. Alcuni tipi di pane
erano ulteriormente trattati da pasticceri che li decoravano con anice,
semi di papavero e di sesamo e altre essenze fissate sulla crosta
con bianco d'uovo. Per i ragazzi venivano preparate piccole focacce a
forma di animali, di vari oggetti, di armi, fatti con pasta
variamente dolcificata. I lavoratori della panetteria se di condizione libera,
godevano di una buona paga e di un orario di lavoro fissato dalle autorità. Ma
la maggior parte degli operai lavorava senza limite di orario e con paga da fame
e non sempre il salario veniva loro versato. Gli apprendisti accettavano queste
condizioni perché dovevano imparare il mestiere, altri subivano questa sorta di
ricatto nella speranza di potersi riscattare dalla condizione di schiavo.
Virgilio Eurisace, un liberto, fornitore di stato, si arricchì a tal punto
da potersi costruire un sepolcro monumentale presso la odierna Porta Maggiore a
Roma. Nel sepolcro è stato rinvenuto un bassorilievo in cui sono riportate tutte
le fasi del lavoro in una panetteria con i lavoranti, i pasticceri, le sale di
macinazione, gli schiavi che lavoravano nei forni a temperature micidiali e il
pane sfornato e posto sui banconi per la vendita.
Il vino aveva un'importanza particolare per i Romani in quanto era la bevanda
più amata e concludeva tutte le cene.
Veniva prodotto sia nella qualità rossa (vinum atrum), sia nella qualità
bianca (vinum candidum), era commerciato in larga scala e addirittura si
formarono anche alcune cooperative per la vendita di questa
bevanda ( collegium); a Roma è stata verificata l'esistenza di un porto e
di un mercato attrezzati essenzialmente per la vendita del vino (portum
vinarium e forum vinarium). Il Vino era raramente limpido e veniva di
solito filtrato con un passino (colum), si beveva quasi sempre
allungato con acqua calda o fredda (in inverno a volte anche con neve) in modo
da ridurne la gradazione alcolica di solito da 15/16 a 5/6 gradi. I tipi più
pregiati erano il Massico e il Falerno (dalla Campania), il
Cecubo, il Volturno, l' Albano e il Sabino (dal Lazio)
e il Setino; i più scadenti erano il Veietano (come tutti i vini
dell'Etruria ), il Vaticano e i vini di Marsiglia ( i vini della
Gallia narbonese venivano affumicati e spesso contraffatti ); vi erano anche
alcuni vini resinati, ma considerati di cattiva qualità in quanto la resina si
aggiungeva ai vini più scadenti in modo che si conservassero più a lungo. Sulle
anfore utilizzate per il trasporto era impressa in una targhetta (pittacium)
l'origine e la data di produzione per tutelare l'acquirente, anche se già in
quell'epoca esistevano casi di adulterazione; ad esempio in una ricetta di
Apicio si insegna a trasformare il vino rosso in bianco.
I vini aromatizzati erano chiamati Aromatites, che erano preparati
all'incirca come i profumi, prima con mirra poi canna, giunco,
cannella, zafferano e palma. Il Gustaticium era un
aperitivo che si beveva a digiuno prima del pasto, mescolato con miele (mulsum).
Il Passum era un vino fatto con uve secche usato, in genere, come
medicinale. Alcune famiglie pompeiane si erano specializzate nella viticoltura e
facevano invecchiare nelle cantine le anfore di mulsum. I vini invecchiati
(quelli che avevano passato l'estate successiva alla data di produzione) erano
di grande pregio sulle tavole dei ricchi Romani, i quali li ostentavano nei loro
banchetti. Esistevano anche surrogati del vino come la lora, ricavata
dalla fermentazione delle vinacce con acqua subito dopo la
vendemmia e la posca, formata da acqua e vino inacidito (acetum).
Il consumo del vino ebbe il suo apice durante il periodo imperiale,quando
affluivano a Roma grandi quantità di vino sia italico che di importazione. I
prezzi andavano dai 30 denari al sestiario (0,54 l) per i vini pregiati (Falernum,
Sorrentinum,Tiburtinum), ai 16 denari al sestiario per i vini di media qualità,
agli 8 denari per i vini di basso pregio. Il consumo medio di vino in un anno è
stato calcolato in 140 - 180 litri a persona, questo grande consumo si pensa che
sia dovuto anche al grande apporto calorico che dava alla dieta romana
costituita in gran parte da cereali e vegetali.
Ius in dentice asso [Salsa per dentice arrosto]
piper | |
ligusticum | |
coriandrum | |
mentam | |
rutam aridam | |
malum Cydonium coctum | |
mel | |
vinum | |
liquamen | |
oleum |
Calefacies, amulo obligabis [Scalderai,
legherai con amido]
da: De re coquinaria 460
Minutal Matianum [Pasticcio maziano]
Adicies in caccabum oleum, liquamen, cocturam, concides porrum, coriandrum esicia minuta. Spatulam porcinam coctam tessellatim concides cum sua sibi tergila.Facies ut simul cquantur. Media coctura mala Matiana purgata intrinsecus, concisa tessellatim mittes. Dum coquitur, teres piper, cuminum, coriandrum viridem vel semen, mentam, laseris radicem, soffundes acetum, mel, liquamen, defritum modice et ius de suo sibi, aceto modico temperabis. Facies ut ferveat. Cum ferbuerit, tractam confriges et ex ea obligas, piper asparges et inferes.
Traduzione: Metterai a cuocere in una terrina olio, garum,taglierai un
porro, coriandolo e piccole polpette. Taglierai a pezzettini una spalla di
maiale con la sua cotenna. Farai in modo che cuociano insieme. A mezza cottura
aggiungerai mele Maziane pulite all’interno , tagliate a pezzettini. Durante la
cottura triterai pepe, cumino, coriandolo verde o seme, menta, radice di silfio,cospargerai
di aceto,miele, garum,un po’ di vino cotto, e il suo sugo, stempererai con un
po’ di aceto. Porterai ad ebollizione. Quando bollirà, friggerai la sfoglia e
legherai con quella, Cospargerai di pepe e servirai
da: De re coquinaria 168
Tiropatinam [Tiropatina]
Accipies lac, adversus quod patinam aestimabis, temperabis lac cum melle quasi
ad lactantia, ova quinque ad sextarium mittis, si ad eminam, ova tria. In lacte
dissolvis ita ut unum corpus facies, in cumana colas et igne lento coques. Cum
duxerit ad se, piper aspargis et inferes.
Traduzione: Prenderai tanto latte quanto entrerà nel tegame,
scioglierai latte con il miele quasi per farne un dolce al latte, metti 5 uova
per sestiario ( 542 ml) o 3 per emina (271 ml). Sciogli nel latte in modo da
fare un corpo unico, cola in una Cumana ( terrina bassa con coperchio) e cuoci a
fuoco lento. Quando sarà rappresa cospargi di pepe e servirai.
da: De re coquinaria 302
Ova sfongia ex lacte [Omelette al latte]
Ova quattuor , lactis eminam, olei unciamin se dissolvis ita ut unum corpus
facies. In patellam subtilem adicies olei modicum, facies ut bulliat et adicies
impensam quam comparasti. Una parte cum fuerit coctum, in disco vertes melle
perfundis , piper aspargis et inferes
Traduzione: Mescola 4 uova, un ‘ emina (271 ml) di latte un’ oncia d’olio in modo da fare un corpo unico. Metterai in una padella sottile un po’ d’olio , farai in modo che frigga e aggiungerai la mistura che hai preparato. Quando sarà cotta da una parte la girerai in un piatto, cospargi di pepe e servirai.
da: De re coquinaria 303
Siamo nel '500, in pieno Rinascimento, nel secolo dello sfarzo, dell'opulenza, dei grandi mecenati, che amano circondarsi di artisti, pittori, letterati, musici, sarti, scalchi, paggi, saltimbanchi, e...cuochi! Nelle cucine dei palazzi si spande l'aroma delle spezie esotiche e sulle tavole riccamente imbandite compaiono per la prima volta i pomodori, le patate, il mais, il tacchino, i fagioli, il caffé, il cioccolato, e altri prodotti del Nuovo Mondo scoperto da poco. Firenze ebbe un ruolo importante in questo periodo storico, protagonisti principali i Medici, Granduchi di Toscana, che influenzarono la vita di corte europea. Caterina de'Medici portò alla corte di Francia l'arte culinaria fiorentina, quando nel 1533 s'imbarcò a Livorno quattordicenne per andare sposa al futuro Ennico II, accompagnata da sarti, gioiellieri, profumieri, cuochi e pasticcieri. I suoi gastronomi fecero scuola a generazioni di cuochi francesi, provocando una rivoluzione della tavola in Occidente e segnando l'origine della grande cucina moderna. Nella biblioteca medicea non sarà certo mancata "L'opera nova chiamata EPULARIO, la quale tratta il modo di cucinare ogni carne, uccelli, pesci etc", composta dal Maestro Giovanni de' Roselli, stampata a Venezia nel 1518. E' da quest'opera che abbiamo scelto la ricetta, come un "assaggio", per rievocare un'epoca che appartiene a Portoferraio, epoca del massimo splendore dei Medici e della nascita di Cosmopolis, per opera di Cosim. I de 'Medici, nel 1548. [quella sotto e alcune altre che seguono, tutte con la dicitura di Ricetta di: A tavola con i De Medici]
Habbi doi libbre de mandorle monde: et ben piste et habbi uno puoco de acqua
rosata er de brodo de riso quando cotto et con questo distempirai le diete
mandorle et passeralle per la stamegna et pigliarai una libbra de riso. Et cotto
che sia et macinarai molto bene con le mandorle, aggiungendovi doi onze de
lievito biancho et uno pocho de farina de amido o vero uno poco de ova de luzzo
passato per la stamegna come e dicto de sopra; et una libbra de zuccharo. Idem
una onza de pignoli
mondati et rotti uno poco nel mortaro, ma non pisti; et fornita de cocere gli
mettarai sopra del zuccharo er de lacqua rosata. Et nota che questa torta non
vole essere troppo cota.
Ricetta di oggi
Ingredienti per 4 persone:
1l latte | |
250 gr riso | |
250 gr zucchero | |
1 baccello vaniglia | |
150 grmandorle sbucciate | |
3 uova 3 | |
1/2 bicchiere rum | |
350 gr pasta sfoglia |
Preparazione:
Mettere a bollire il latte con il baccello di vaniglia; unire il riso e cuocere
finché non avrà assorbito tutto il latte. Dovrà avere la consistenza di un
risotto. Togliere la vaniglia e aggiungere gr. 150 di zucchero, il rum, i tuorli
d'uovo, e le mandorle tagliate a pezzetti e tostate leggermente. Foderare una
tortiera con la pasta sfoglia, forellare sul fondo con una forchetta, e versarvi
dentro il composto. A parte, fare caramellare il resto dello zucchero con un
cucchiaio d'acqua, cospargere sulla superficie della torta e far cuocere in
forno a 180° per circa mezz'ora.
A tavola con i De Medici: '500 circa
Pisterai molto bene una libra di casio freschissimo tanto che te pare essere
retornato lacte et haverai tre o quatro onze di fiore di farina; et ecto bianchi
de ova, et mezza libra di zuccharo, miscolando queste cose et incorporandole
bene insieme et haverai la padella senza pasta o crosta et in sul fondo di
dentro ve metterai de bon distructo facendone uno solo che sia alto un deto o
circa. Et metterai la ditta padella in su la brasia tanto chel distructo sia ben
caldo et dentro ve metterai
questa tale compositione dandoli el focho temperato sotto et sopra como e dicto
a laltre torte. Et quando sara cocta cavala fora et sovra ve metterai del
zuccharo fino er acqua rosa.
Ricetta di oggi
Ingredienti per 4 persone:
400 gr ricotta fresca | |
75 gr farina | |
4 uova | |
sale q.b | |
pepe q.b. | |
70 gr strutto raffinato | |
marmellata di frutti di bosco | |
cannella in polvere q.b |
Preparazione:
In un recipiente lavorare bene la ricotta con la frusta. Aggiungere la
farina e incorporare le uova; mescolare sino ad ottenere un composto omogeneo.
Salare e pepare. Aggiungere un pizzico di cannella. In una padella di ferro per
friggere, far sciogliere lo strutto e versarvi la quantità di composto
necessaria per ottenere una frittata spessa circa mezzo centimetro. Far dorare
da entrambe le parti. Procedere fino ad esaurimento dall'impasto. Si dovrebbero
ottenere quattro grandi frittate. Lo strutto potrà essere sostituito dall'olio
di oliva. Accompagnare con marmellata di frutti di bosco.
A tavola con i De Medici: '500 circa
Per fare brasiole toglie de la carne de vitello magra de le cosse et
tagliarla in fette sottile ma non troppo sottile et battile bene con la chosta
delo coltello. Dopoi togli sale et fenochio overo pitartema et ponerai sopra a
ogni canto de le fette et puoi mettele in soppresso per spacio de meza hora;
setu hai el tempo, et doppoi mettele a rosto sopra la gratucula voltandole
secondo che de bisogno tenendoli continuamente una fetta de lardo de sopra per
mantenerle morbide. Et queste tale
brasiole o brasiate non debbono esser troppo cote et mangiate de subbito calde.
Ricetta di oggi
Ingredienti per 4 persone:
4 costolette di vitello | |
20 gr semi di coriandolo | |
8 fette di lardo o di pancetta | |
1 mazzo radicchio rosso | |
aceto balsamico q.b | |
olio extravergine di oliva | |
sale q.b... | |
pepe q.b. |
Preparazione:
Appiattire leggermente la carne con la costola di un coltello e schiacciare i
semi di coriandolo distribuendoli uniformemente sulla carne. Bardare la carne
con le fette di lardo o di pancetta, ricoprendola completamente e legandola con
dello spago bianco. Lasciare riposare per un po' di tempo, affinché la carne si
insaporisca e cuocere a fuoco moderato sopra la griglia. Si serve, dopo aver
tolto lo spago, sopra un letto di radicchio rosso condito con aceto balsamico e
olio di oliva. Si possono sostituire i semi di coriandolo con dei semi di
finocchio selvatico.
A tavola con i De Medici: '500 circa
La prima toglie una libra e meza, et nettalo bene et lavalo et cocilo con brodo de cappone de pollo grasso, o altro brodo et falli bollire assai et misticando lo spesso con lo cocchiaro et quando e coto mettili pepe et bone specie et toglie roscio de ova et distempera bene insieme et dopoi mettila nel dicto farro. Mescola molto bene et vole essere giallo de zafferano.
Ricetta di oggi
Ingredienti per 4 persone:
8 dl brodo di cappone | |
40 gr burro | |
1 cipolla rossa piccola | |
300 gr farro decorticato | |
1 bicchiere vino bianco secco | |
1 bustina zafferano | |
parmigiano grattugiato abbondante | |
2 uova | |
sale q.b. | |
pepe q.b. |
Preparazione:
Preparare un buon brodo di cappone e carne di manzo con un bell'osso di
ginocchio, come per il tradizionale pranzo di Natale. Mettere a bagno il farro,
almeno la sera avanti, per farlo rinvenire. In un tegame di rame stagnato o di
terracotta, far rosolare la cipolla con una noce di burro; aggiungere il farro e
farlo insaporire bene nel soffritto. Bagnare con ii vino bianco, nel quale
avremo fatto sciogliere lo zafferano. Lasciar evaporare e aggiungere il brodo, a
poco a poco, come si fa per il
risotto. Portare a cottura. Ci vorrà più di mezz'ora. Spegnere il fuoco,
aggiustare di sale, se necessario. Mantecare con il restante burro crudo e il
parmigiano. Lasciar riposare per qualche minuto. Unire due tuorli d'uovo,
amalgamare bene e portare in tavola. Si consiglia una spolverata di pepe
macinato fresco.
A tavola con i De Medici: '500 circa