SENTENZE
Il
Tribunale boccia l'obbligo di «badge» per il dipendente
Il
dovere del nome non può essere incluso tra le clausole contrattuali del
lavoratore
Il
Tribunale boccia l'obbligo di «badge» per il dipendente G. N.
Non ha convinto il
tribunale di Milano l'obbligo imposto da Esselunga ai propri dipendenti
che abbiano rapporti con i consumatori di indossare sulla divisa
d'ordinanza un badge con nome e cognome.
La
sentenza n. 305 della sezione Lavoro (cui Esselunga quasi sicuramente
proporrà appello) fissa alcuni paletti, con considerazioni di ordine
generale, su un obbligo che è andato diffondendosi anche al di là
degli uffici pubblici.
L'azienda,
davanti al giudice al quale era stato fatto ricorso da parte di un
lavoratore che lamentava, tra l'altro, la lesione del diritto al nome
previsto dall'articolo 6 del Codice civile e di quello alla
riservatezza, ha provato a spiegare le proprie ragioni.
E
lo ha fatto puntando sulle normative, di varia natura, che hanno
riconosciuto l'obbligatorietà di targhette porta nome con l'obiettivo
di migliorare i rapporti tra i dipendenti di aziende nel settore dei
servizi e i clienti.
Il
giudice non ha peraltro contestato le ragioni aziendali sottolineando
come siano anzi meritevoli in un Paese come il nostro dove non c'è una
grande tradizione di trasparenza nei rapporti con l'utenza.
E
in questo senso vengono a cadere quei motivi di ricorso che fanno leva
sulla riservatezza ma si traducono poi in una sorta di diritto
all'anonimato all'interno del luogo di lavoro e nello svolgimento delle
proprie mansioni.
Altre,
e di segno opposto, sono invece le osservazioni che la sentenza svolge a
proposito del diritto al nome che rappresenta espressione di quel
diritto
«di
essere sé stessi e nient'altro che sé stessi».
Nasce
così il problema della parte di sfera personale del lavoratore che può
entrare nel contratto di lavoro.
Così
le esigenze aziendali che stanno alla base dell'adozione del badge hanno
un segno di legittimità indiscutibile ma se «vengono soddisfatte
attraverso l'utilizzo del nome invadono una sfera che va ben oltre
quelle dell'identificazione, coinvolgono la persona del lavoratore in
momenti e per aspetti che vanno oltre gli obblighi contrattuali e si
colorano di illegittimità, in quanto fanno, in qualche modo, entrare la
persona del dipendente nel contratto a mo' di oggetto dello stesso».
Altra
questione controversa da dirimere è se l'esposizione del nome e del
cognome del dipendente rappresentino un mezzo strettamente necessario
per realizzare le necessità di trasparenza e correttezza nei rapporti
con la clientela.
Per
il giudice nome e cognome rappresentano solo uno dei possibili modi di
identificazione della persona e le esigenze dell'azienda, quando
possibile, possono anche essere soddisfatte altrimenti.
In
questo senso il giudice prova anche a indicare alcune di queste modalità
che, a suo giudizio, non sono lesive della dignità della persona:
pseudonimo, numero, codice.
Martedì
13 Febbraio 2001
fonte CUB Nazionale
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