Per la verità,
qualcuno asseriva di averlo visto sul ponte Bulsoj guardare accigliato le
acque della Neva, a pochi giorni dall’incidente, come se avesse avuto in
animo di fare un tuffo in quelle acque profonde e non tornare più a
galla. Come se avesse deciso di darsi da sé una morte pietosa, che fosse
rapida e gli risparmiasse le sofferenze che lo aspettavano. Sapeva a cosa
sarebbe andato incontro. E neanche Irina lo ignorava. A Gracyna, quando
lei aveva dodici anni, un mugik* era morto fra inenarrabili sofferenze,
dopo essere stato morso da un lupo idrofobo. Aveva anche sentito dire che,
qualche anno prima, uno scienziato francese** aveva sperimentato con
successo un antidoto contro la rabbia e forse…Ma era difficile. Non era
mai stata fortunata, si disse da sé sola, incamminandosi verso il luogo
che le era stato indicato.
Avrei bisogno di un pizzico di fortuna in più di
quella che ho avuto finora, si disse, mentre attraversava a passi veloci
la Prospettiva Nevskij senza lasciarsi distrarre dalle vetrine dei negozi
e dalle occhiate languide dei militari. Non aveva tempo da perdere, la
principessa l’aspettava, alla solita ora. Era generosa, la vecchia
principessa Jussupova, ed era soltanto grazie a quella generosità, se lei
poteva mangiare e continuare a pagare la pigione della soffitta all’angolo
della Starorusskaja che, per un anno, aveva diviso con Sasha. Non sta
lontano, le avevano detto. Non sta lontano. Ed è il solo che ti possa
aiutare a conoscere la verità, a sapere se è il caso di continuare a
sperare. O se è meglio per te entrare in una chiesa e pregare per la
salvezza della sua anima immortale.
C’erano parecchi soldati armati, in giro per la
strada. Tempi brutti, quelli, si diceva. La gente era scontenta dell’andazzo,
c’erano stati rivolte e moti di piazza, e i tempi che sarebbero venuti
sarebbero stati ancora più brutti di quelli, a Gracyna lo dicevano tutti
quanti. Fai male ad andartene. Ma dacché suo padre era morto, per lei non
c’era più posto in quella casa.
La sua matrigna le aveva proposto, anzi, ingiunto, di
sposare un vedovo cinquantenne carico d’acciacchi e di figli. L’alternativa,
lo aveva capito subito, era andarsene, e lei aveva preso il coraggio a
quattro mani, caricato le sue poche cose sulla carretta del vecchio Dima,
e raggiunto San Pietroburgo. Anche se erano tempi difficili e lo zar si
era trovato costretto tante volte a imporre l’ordine con la punta delle
baionette, o peggio. Pochi anni prima, il Paese era uscito con le ossa
rotte dalla guerra contro il Giappone e il popolo affamato reclamava pane,
gli intellettuali giustizia. Mentre nel resto del mondo il progresso
avanzava inesorabile, nella Grande Madre Russia si viveva ancora come nel
medioevo. O la situazione cambia, o tutto scoppia, dicevano gli uomini a
Gracyna, tenendo bassa la voce. E le vecchie si segnavano, dopo aver
rigirato tra le dita i grani dei loro rosari. Anche in quell’angolo
sperduto di mondo, tutti sapevano che c’erano i lavori forzati in
Siberia nel futuro dei sovversivi e dei ribelli.
Non ho niente da perdere, si era detta Irina Vasilievna
mentre, per l’ultima volta, si girava a guardare i tetti di paglia del
suo villaggio. Lei era vissuta in una casa di mattoni, mantenuta
decorosamente da suo padre, che era stato l’amministratore del conte
Golycyn, il feudatario locale. Dai sette ai quattordici anni era andata a
scuola dalle monache, che le avevano insegnato, oltre che a pregare, a
leggere, scrivere, far di conto, parlare il francese, ricamare e suonare
il pianoforte. Non dubitava che la sua istruzione le avrebbe permesso di
trovare facilmente impiego come governante presso qualche ricca famiglia
o, alla peggio, come commessa in un negozio elegante della prospettiva
Nevskij.
Sua madre era morta già da diversi anni e la donna con
cui suo padre si era risposato l’aveva sempre trattata con indifferenza.
Forse era invidiosa della giovinezza che lei non aveva più, Natasha
Ivanovna. Magari pure della bellezza che non aveva mai avuto, con quei
capelli quasi albini, gli occhietti slavati, la faccia larga e piatta, il
corpaccione grande e sfatto che si ritrovava. Come la matrigna cattiva
delle favole.
Irina sentiva su di sé gli sguardi ammirati dei
militari che presidiavano la strada e, quando si specchiava nelle vetrine,
vedeva una bella ragazza bruna e scura come una zingara. O come un’ebrea,
diceva Natasha Ivanovna sputando tra le labbra quella parola, quasi fosse
stata un insulto. Suo nonno, il padre di sua madre, ingegnere addetto alla
costruzione della ferrovia, era vissuto a lungo nelle province dell’Asia
Centrale e aveva sposato una ragazza khazaka. Anche sua madre era stata
bruna e scura, come lei.
Quanti soldati, pensò allungando il passo. E quanti
mendicanti cenciosi, quanti cani randagi dal pelo rognoso e dallo sguardo
sfuggente. Rabbrividì, prima d’infilarsi nel piccolo portone che si
apriva su di un andito buio come la bocca di un forno. Era arrivata a
destinazione.
*Bracciante agricolo
**Louis Pasteur, il biologo scopritore del vaccino
contro la rabbia.
Il PASSATO NON TORNA
Vorrà sapere chi sono e perché ho voluto incontrarlo.
La gente dice che sia un uomo terribile…Le due rampe di scalini
sconnessi dovettero sembrarle più invalicabili di una montagna. Stare
davanti a lui, parlargli, avrebbe richiesto tutte quante le sue forze e
chissà se ne sarebbe valsa pa pena o se anche Grigorij Efimovic, il
Piccolo Padre, le avrebbe detto rassegnati, ragazza, il passato non torna,
magari dopo averle svuotato le tasche fino all’ultimo copeco*. Si era
arricchito, si diceva, vendendo false speranze a poveri infelici come lei.
Nei pochi istanti che impiegò a salire quella scala
sconnessa e tarlata, Irina Vasilievna rivide gli ultimi mesi della sua
vita. Non era stato facile come credeva, trovare un lavoro con il quale
mantenersi, una volta giunta in città. I tempi si erano fatti difficili
per gli uomini, figurarsi per una donna sola. Ma Zina, la vecchia che le
aveva affittato un buco di stanza in un casermone cadente sulla
Starorusskaija, pretendeva di essere pagata con puntualità, e i risparmi
erano finiti in fretta. Ancora un paio di giorni, Babushka, mi hanno
promesso lavoro, una modista che sta sulla Suvorovskij cerca una commessa
e mi ha promesso che…Oggi è come ieri e come oggi sarà domani, le
diceva la vecchia fissandola con gli occhietti scoloriti da gallina. E
domani sarà tardi. E domani sarà inverno. E d’inverno, a venti gradi
sotto zero, si muore, di freddo e di fame, senza un rifugio che ti
protegga dal gelo, senza un piatto di stufato e una fetta di pane da
mettere sotto i denti.
Sapeva che a Gracyna non sarebbe tornata, si era detta
tante volte da sola, dopo aver contato i rubli che, di giorno in giorno,
diminuivano a vista d’occhio. Lavoro, niente. Anche se si sarebbe
accontentata di qualsiasi cosa, perfino di sfacchinare in fabbrica come
una schiava. Di qualsiasi cosa, già. Ma non di quello che facevano le
inquiline del piano di sotto, che le era capitato di incontrare tante
volte nell’androne, e avevano le facce dipinte,i capelli gialli e
tanfavano di sudore e di violetta di Parma. Erano puttane, quelle. E
magari, prima di diventarlo, erano state brave ragazze giunte dalla
campagna in cerca di un lavoro onesto che non avevano trovato.
Il giorno in cui l’aveva incontrato per la prima
volta, si era consumata le suole delle scarpe in cerca, tanto per
cambiare, di quello che non trovava, un lavoro onesto che le permettesse
di mangiare e di pagare la pigione della stanza. Aveva i crampi allo
stomaco perché da un paio di giorni non buttava giù che zuppe di latte e
pane raffermo, e le vesciche ai piedi. Il tempo stringeva, la vecchia Zina
reclamava i soldi dell’affitto, tra poco non avrebbe accettato più
scuse. E l’inverno non avrebbe impiegato troppo ad arrivare.
Aveva girato in lungo e in largo, eppure c’era
qualcuno, a due isolati da dove viveva, disposto a pagarla, in cambio di
un facile lavoretto. Sasha. Il suo angelo, colui che le aveva salvato la
vita per poi sparire, inghiottito dal nulla.
Irina Vasilievna bussò. Le venne aperto quasi subito e
quando varcò la soglia si ritrovò in una grande stanza buia, con le
finestre schermate da pesanti cortine nere e illuminata dal bagliore di
cento candele. Appese alle pareti, rare e preziose icone antiche,
riproducenti volti ieratici di santi e di Madonne. Era stato il Piccolo
Padre in persona ad aprirle la porta. Un omiciattolo brutto e sporco, che
indossava una sorta di saio bisunto su cui ruscellavano una lunga chioma
forforosa e una gran barbaccia. La penombra della stanza non era
sufficiente a nascondergli i denti guasti e le unghie lunghe come artigli,
né il profumo dell’incenso così forte da mascherare il puzzo intenso e
nauseabondo che emanava. Tuttavia la voce dell’uomo era dolce e
ipnotica. E lo sguardo degli occhi chiarissimi, profondamente infossati
nelle orbite, sembrava davvero in grado di vedere ciò che gli altri non
vedevano.
*Centesimo
SASHA
Irina chiuse gli occhi, ingoiò il groppo che le
serrava la gola. Rivide sé stessa e Sasha, in quel minuscolo frammento di
istante, e tutto quello che di bello e di buono c’era stato fra loro,
prima che lui scomparisse ingoiato dal niente, annegato nel fiume,
fulminato da un colpo della sua stessa rivoltella o torturato e ucciso da
un male che non lasciava scampo.
Aveva saputo, e non ricordava chi gliel’avesse detto,
che il pittore che stava nel palazzo di fronte cercava una modella.
Neppure sapeva che nel grosso, squallido casamento dall’altra parte
della strada ci fosse un pittore. Forse si era trasferito lì da poco.
Sapeva però che le modelle, di solito, si mettono nude davanti agli
artisti che le ritraggono.Lei non aveva mai neppure baciato un ragazzo e
aveva vergogna del suo corpo. Ma sapeva che l’alternativa a quell’umiliazione
erano la fame,la strada, o la fine che avevano fatto quelle del piano di
sotto. In fondo, si era detta per darsi coraggio, i pittori vedono
talmente tante di quelle donne nude che i loro occhi, il loro cuore e il
loro istinti non provano più niente di fronte a quello spettacolo. Gli
artisti erano una razza a parte, diversi dai comuni mortali. Sicuramente,
quello doveva essere un vecchio. Meglio.
-Un grande dolore ti rode l’anima, figlia…
Irina sentì sulla testa la carezza della mano adunca
di Rasputin. Sì, Piccolo Padre, il tormento di non sapere mi sta
uccidendo.
-Sei innamorata. E’ per lui che piangi.
La luce delle candele gettava ombre cupe sulla faccia
pallida e barbuta dell’uomo. Era talmente vicina alla sua che la ragazza
poteva sentire le zaffate rancide del suo alito.
-Mi…mi aiuterete?
Le dita di Rasputin le si infilarono in mezzo ai folti
capelli neri che portava raccolti in due morbide trecce. A Sasha
piacevano, e si era rabbuiato quando lei gli aveva detto che avrebbe
potuto tagliarle e venderle a un fabbricante di parrucche per rimediare
qualche soldo. Guai a te se lo fai, le aveva detto: il tono della sua voce
era scherzoso, eppure gli occhi non ridevano.
Ma Sasha era il passato, non certo il presente e men
che meno il futuro.
La fetida bocca di Rasputin era vicinissima alla sua.
Sta per baciarmi, pensò Irina. Sta per farlo, ed io non posso fuggire.
Non voglio. Lui solo può squarciare il velo spesso che mi nasconde ciò
che è stato di Sasha. Del solo uomo che amerò. Per sempre.
Sul portone della soffitta dove alloggiava, c’era un
monogramma, inciso nel legno con un temperino. MDM, in caratteri latini.
Irina non si era domandata quale significato potessero avere, forse anche
quello faceva parte del suo bagaglio di eccentricità d’artista. Come i
lunghi capelli bianchi e le mani sottili che doveva avere. Neppure sapeva
come si chiamava, ma non gliene importava. L’unica cosa di cui le
importasse in quel momento erano i morsi feroci della sua fame.
L’uomo doveva avere poco più di trent’anni e,
nella luce del primo pomeriggio estivo che entrava dalle grandi finestre,
le sembrò incredibilmente bello: alto di statura, muscoloso e forte,
aveva le mani grandi e un po’ tozze di un boscaiolo, l’aria sana di
chi mangia bene e trascorre parecchio del suo tempo all’aria aperta.
Vestiva modestamente e i suoi colori erano comuni a moltissimi russi,
carnagione chiara, occhi blu, capelli e barba castano miele, ma non aveva
il naso concavo, le labbra strette, gli zigomi piatti e i tratti slavati e
indecisi e men che meno i denti gialli e guasti tanto consueti da quelle
parti. Doveva essere un lituano, si ritrovò a pensare, o magari un
polacco. O un tedesco, perché no. Questo avrebbe spiegato anche il
monogramma inciso sulla porta in caratteri latini invece che cirillici.
-Mi chiamo Sasha.
Le aveva detto. Aveva una voce morbida e calda, e la
sua espressione accigliata si era sciolta in un sorriso cordiale che gli
aveva disegnato due profonde fossette sulle guance ispide di barba.
-Come si chiamava?
Le dita adunche del Monaco Nero continuavano a giocare
con i riccioli che sfuggivano dalle trecce e le incorniciavano il viso.
-Sasha.
-E poi?
-Sasha e basta. E’ tutto quello che so di lui.
Era davvero così, anche se sembrava assurdo. Sasha.
Alexander, forse. Ma non glien’era importato nulla, quando, debilitata
dalla cattiva nutrizione, dalla febbre e dalla fatica, gli era crollata ai
piedi svenuta senza riuscire nemmeno a dirgli il suo nome. Per quanto
tempo aveva dormito il sonno senza sogni dell’ottundimento e dell’incoscienza?
In quell’ovattato dormiveglia,aveva perfino creduto di essere morta. L’aldilà?
E’ un invenzione dei potenti per tenere buona la povera gente. Lo diceva
sempre, il vecchio maestro ateo ed anarchico del villaggio e se quel che
aveva sentito lei in quei momenti era la vita oltre la morte, doveva
essere lui, non il pope* ad aver ragione.
-Corrispondeva il tuo amore?
-Vivevamo insieme. Come marito e moglie.
Irina arrossì, sentendosi scrutata dagli occhi chiari
e acuti di Rasputin. L’archimandrita** Feofan, il confessore della
zarina, l’aveva introdotto a Corte e non era passato molto tempo prima
che la poveretta cadesse sotto la sua nefasta influenza. Le aveva fatto
credere d’essere dotato di facoltà taumaturgiche e di poter rendere la
salute al granduca Alessio. Dopo quattro deliziose ragazze belle e sane,
la zarina aveva messo al mondo il tanto atteso erede maschio. Ma il
bambino aveva ricevuto in eredità dalla madre la maledizione dell’emofilia,
una malattia inguaribile che lo avrebbe ben presto condotto alla tomba. E
anche se le condizioni di salute dello zarevic*** erano tenute
segrete, tra la nobiltà come tra il popolo, notizie e dicerie
cominciavano a filtrare.
“S’illude che quel ciarlatano lo guarirà.
Comprendo il suo attaccarsi disperatamente a qualsiasi appiglio, anch’io
sono madre, forse nei suoi panni avrei fatto gli stessi sbagli. Ma quell’individuo
sta approfittando della sua posizione per influire negli affari di stato e
gettare discredito sulla Corona. I tempi sono difficili, il nostro Zar è
troppo debole per prendere in pugno la situazione e troppo influenzabile
per distinguere chi gli è amico da chi approfitta di lui.”
In casa Jusupov tutti quanti detestavano il Monaco,
anche la vecchia principessa che aveva gli occhi annebbiati dalla
cataratta, la pagava perché le leggesse Hugo e Dostoijevskij e amava
chiacchierare con lei di tante cose, davanti al samovar**** d’argento
che gorgogliava. Nessuno doveva sapere che era andata da lui per conoscere
se Sasha era vivo, se era ancora lecito sperare o conveniva rassegnarsi.
L’aldilà se lo sono inventato i potenti per mettere
paura ai poveracci e impedire che si ribellassero all’ordine costituito.
I potenti sono pieni di astuzia e di risorse, quando si tratta di
difendere il loro tornaconto. Del resto, è da secoli che lo fanno: da
quando gli uomini sono usciti fuori dalle caverne e si sono dati delle
leggi e un assetto sociale…Da quando hanno delegato a qualcuno il
potere, e sono cominciati i soprusi e le ingiustizie…Che strano, nel
dormiveglia le parole del maestro Metanov le echeggiavano nei pensieri ed
era proprio il sibilo della voce che veniva fuori dalla sua bocca sdentata
quello che le sembrava di sentire. Ma il tepore piacevole che sentiva
contro di sé era quello della pelle calda e sudata di Sasha, che le
giaceva accanto. Era il suo cuore che batteva i colpi lenti e regolari che
cullavano il suo sonno. Non ho approfittato di te, le aveva detto, quando
si era risvegliata. Avevi la febbre, Irina. Avevi freddo, nonostante l’estate
non sia ancora finita.
-Guardami negli occhi, ragazza…
Non era facile, reggere il suo sguardo gelido da
rettile. E poi forse aveva ragione la principessa Jusupova, quell’individuo
era soltanto un imbroglione della peggiore specie e aveva fatto male ad
andare da lui.
-Temi…che lui sia andato via con un’altra?
Rasputin aveva visto i delicati tratti asiatici della
sua interlocutrice indurirsi. Era bella, pensò. Più della contessa
Vyrubova che gli aveva aperto le gambe oltre alle porte dei salotti di chi
contava. E doveva amarlo davvero, quell’ingrato che l’aveva lasciata
per un’altra. Sentì di desiderarla. Seguimi nella mia stanza e te lo
farò dimenticare, ragazza. Forse non sono giovane e bello come lui, ma
conosco mille magie per rendere felice una donna. Nobili e principesse non
si sono vergognate a scaldare il letto di Grigorij Efimovic Rasputin, il
Santo. O l’Imbroglione.
-Temo che lui sia morto, Piccolo Padre.
Che cosa te lo fa credere? Il fatto che tu stessa
preferiresti saperlo morto piuttosto che disteso sul letto di un’altra?
Gli uomini sono brutte bestie, ragazzina. Tutti quanti.
Irina Vasilievna aveva labbra carnose rosse come
ciliegie e piccoli denti bianchi e regolari. La sua pelle aveva le
tonalità dorate tipiche delle genti dell’Armenia e dell’Iran e i
capelli erano neri come le ali di un corvo. Dio, quanto sei bella, aveva
pensato Sasha ogni volta che la guardava.
Si era spogliata completamente senza provare vergogna
per quel che sarebbe stato, era molto più facile di quanto avesse
immaginato, e si era adagiata sopra un vecchio divano dalla fodera tarlata
e bisunta. Non era così che si faceva? E lui? L’avrebbe trovata bella?
Era sparito, e l’aveva lasciata sola nello studio a togliersi tutti i
vestiti, mentre lui cercava i carboncini e il blocco degli schizzi in
qualche altro angolo della casa? Non doveva trattarsi di un artista
famoso. Diversamente, non sarebbe vissuto in quella soffitta squallida e
spoglia ma in una bella casa. Perché non èvero che chi vive della sua
creatività è destinato ad una vita grama. Qualche giorno prima, mentre
vagabondava in giro per la città alla ricerca d’uno straccio di lavoro,
le era capitato di incontrare il danzatore Nijiskij sulla Prospettiva
Newskij:sembrava un principe. Lui era stato fortunato. Ma Sasha era uno
dei tanti che si erano illusi. Forse aveva rinunciato ad una vita agiata e
serena, per rincorrere i suoi sogni. Probabilmente non andava in cerca di
facili guadagni, voleva soltanto seguire la sua vocazione e di vivere in
quella squallida soffitta non gliene importava nulla, perché dipingere
per lui era una necessità primordiale, come l’aria e il cibo. Come l’amore.
-Perché ti sei spogliata?
C’era durezza nella sua voce bassa e profonda. E gli
occhi azzurri che non riusciva a distogliere dal suo corpo non
nascondevano l’imbarazzo che provava.
-Non avrei dovuto? Le modelle non si spogliano per
farsi ritrarre?
-Io volevo ritrarre il tuo viso, Irina. Non ti avrei
mai chiesto di spogliarti.
A meno che non volessi farlo per me. Perché sei bella
e ti desidero, anche se non so quasi niente di te, chi sei, cosa fai, cosa
sogni…
Irina si era coperta i seni con un cuscino e gli aveva
raccontato che veniva da un villaggio dell’interno. Un brutto posto dove
l’aria stessa che si respirava sapeva di miseria e di fame.
-Tu la fame non l’hai mai provata. Sei cresciuta in
una bella casa…E sei andata a scuola.
Come avete fatto a indovinare? Avete forse osservato
che parlo correttamente e che le mie mani non sono sciupate dai bucati e
dalle rigovernature? O forse gli uomini come voi hanno esperienza delle
cose di mondo, e una donna gli basta guardarla per capire che…che vi
desidera, anche se è vergine, anche se non capisce niente della vita e
quasi non sa neppure chi siete. Ma sa bene che sicuramente sbaglia a
legare il suo destino a quello di un uomo come voi, che non può darle
niente.
Niente? Chissà se il modo in cui baciava era tutto
suo, o anche gli altri uomini facevano così. Il suo labbro inferiore era
soffice, carnoso. La barba pungeva, ma non era una brutta sensazione, tutt’altro.
Sei vergine, vero? Io sono il primo. Allora dimmelo adesso se devo
fermarmi perché tra poco sarà tardi e potresti essere tu stessa a
implorarmi di continuare.
“Mi aveva pregato di stare con lui. Da tanto tempo
sono solo, e la solitudine mi pesa, Irina. Io sono rimasta. E sono stata
felice, nonostante sapessi così poco di lui.”
“Alternava scoppi di allegria contagiosa a momenti di
tristezza infinita, durante i quali sembrava che volesse reggere tutto il
peso del mondo sulle sue spalle. Avevo accettato di dividere con lui la
sua casa perché non sapevo dove andare. E poi mi piaceva perché era
giovane e bello, ma anche dolce, gentile, generoso. Secondo il mio modesto
parere era bravo, ma lui era convinto di non avere le qualità dell’artista
destinato a diventare grande. Sono solo un mediocre imbrattatele, diceva,
e non diventerò qualcuno neppure dopo morto. Forse era quello che lo
rattristava tanto, perché l’arte era tutta quanta la sua vita. Non mi
parlava mai della sua famiglia e per questo mi ero fatta l’idea che
avesse deciso di tagliare i ponti con il suo passato, di andarsene,
abbandonando forse una vita agiata, per campare stentatamente dipingendo
quadri che vendeva per pochi rubli e collaborando come illustratore con
alcuni giornali. Era un uomo intelligente, colto. Ricordo un libro, sul
suo comodino. Un libro scritto in latino, con a fronte la traduzione in
francese. Le “Meditationes” di Marco Aurelio. E’ stato un grande
statista e un grand’uomo, mi disse una volta. Ebbe una vita infelice,
perché, uomo di pensiero, si sarebbe voluto dedicare soltanto ai suoi
studi e si ritrovò schiacciato dal peso del potere. Perché, uomo di
pace, fu costretto a trascorrere metà della sua vita sui campi di
battaglia. Perché, uomo di specchiata moralità, si ritrovò marito di
una sgualdrina e padre d’una figlia che, senza volerlo fare di
proposito, aveva reso egli stesso infelice e di un figlio debosciato,
crudele e vigliacco.”
“Un giorno, lui era già scomparso dalla mia vita,
presi in mano quel libro, lo sfogliai, lessi qualcosa: conosco bene il
francese. Trovai una frase sottolineata “Un ragno, quando ha
catturato una mosca, è convinto di aver compiuto chissà quale impresa. E
così crede chi ha catturato un Sarmata. Ma né l’uno né l’altro si
rendono conto di essere soltanto due piccoli ladri.”
-E’ ancora di questo mondo, Piccolo Padre? O farei
meglio a rassegnarmi e pregare per la salvezza della sua anima?
Gli occhi acuti di Rasputin non avevano lasciato un
attimo i suoi. Sta per parlare. Sta per dirmi se debbo continuare ad aver
fiducia o smetterla di illudermi, una volta per tutte. Ma forse ha ragione
la principessa Jusupova, costui non è che un piccolo ladro di speranze e
nel futuro non vede un bel niente. E’ solo uno squallido arrampicatore
sociale che ha trovato un filone d’oro con cui arricchirsi e che sta
trascinando l’Imperatore e la Santa Madre Russia verso la rovina. Un
ciarlatano che è stato reso onnipotente da quelle che lui sa benissimo
essere false promesse. E che adesso, dall’alto della sua posizione
privilegiata, può permettersi perfino di manovrare la politica interna ed
estera del Paese. Il popolo lo odia, lo Zar ne è succube. Se non troverà
il coraggio di liberarsene sarà la rovina. Per tutti.
-Ditemi…
Ti dirò, ragazza. Ti dirò ciò che i poteri che mi
vengono da Dio mi consentono di vedere. Ma non sperare che tornerà da te,
anche se è vivo. Conosco la genia di mascalzoni a cui appartiene.
Non ti ha mai rivelato il suo nome, non ti ha mai detto
del suo passato. Hai indovinato qualcosa nelle notti in cui accarezzavi il
suo corpo nudo e sentivi il rilievo delle cicatrici sotto le dita. Era
perfino marchiato sulla schiena. E quando gli hai chiesto perché, come al
solito, si è mostrato evasivo. Poi ti ha detto di essere stato arrestato
a causa delle idee in cui credeva. Idee di giustizia. Idee proibite. Ti ha
parlato di un guardiano sadico che lo avrebbe marchiato con un ferro di
quelli che si usano con il bestiame. E tu gli hai creduto, perché sai
poco di come va il mondo, ragazza…
Rasputin abbassò sugli occhi infossati le palpebre
cascanti, trasse un sospiro rauco e profondo, inghiottendo l’aria di
quella stanza, che sapeva di muffa, d’incenso e di candele. Li riaprì
subito dopo, e Irina vide il suo volto farsi paonazzo, le vene del collo
tendersi come funi. L’afferrò per le spalle con le sue mani adunche e
le gridò, soffiandole in faccia una zaffata del suo alito marcio,
vattene, esci da questa casa. E lei riuscì a divincolarsi e a fuggire
prima che, con uno spintone, Rasputin potesse mandarla a ruzzolare giù
dalle scale.
* prete ortodosso
**vescovo ortodosso
***erede al trono
****bollitore usato per la preparazione del the
IL CANE PAZZO
Tutti, dallo zar all’ultimo dei mendicanti sapevano
che la granduchessa Anastasia era una sventata. Una che avrebbe cambiato
volentieri la sua vita fatata con quella di una ragazza qualsiasi, né
troppo povera né troppo ricca, perché solo così avrebbe potuto godere
delle piccole gioie che danno senso all’esistenza. Queste bizzarrie di
solito gliela rendevano simpatica, ma quella mattina Irina l’aveva
maledetta perché s’era cambiata d’abito ed era uscita da sola, per
intrufolarsi in mezzo alla gente qualsiasi, per assaggiare il gusto del
pane nero o delle frittelle inzuccherate comprate in una bancarella da una
vecchia a cui tremavano le mani e che, vedendola vestita come una
qualunque, non l’avrebbe riconosciuta.
L’ho maledetta, pensava Irina allontanandosi a grandi
passi dal luogo dove aveva incontrato Rasputin. Se non si fosse decisa a
mescolarsi con la folla proprio quel giorno, la sua strada e quella di
Sasha non si sarebbero incrociate di fronte agli occhi vitrei e al muso
bavoso di un grosso cane malato di rabbia. Era sfuggito a coloro che
stavano per catturarlo, e doveva essersi parato dinanzi alla granduchessa,
pronto ad assalirla. A Sasha non importava chi fosse, probabilmente non l’aveva
neppure riconosciuta, ma generoso com’era lo avrebbe fatto per chiunque.
E Anastasia si era salvata dall’attacco del cane. Ma lui era stato
morso.
Perché, si domandò, Rasputin mi ha respinta senza
tendermi la mano e chiedere quanto gli è dovuto? Era come se la mia vista
gli facesse orrore, come se riuscisse a leggere la data precisa della sua
morte in fondo ai miei occhi. Non mi ha mandata via per non dirmi il tuo
Sasha è morto, si è gettato nel fiume, si è sparato in bocca per non
soffrire, oppure se n’è andato perché tu non fossi testimone della sua
agonia atroce. Eppure, esisteva una cura contro la rabbia. Era stata
scoperta e sperimentata di recente.Forse non era facile da reperire né
alla portata di tutte le tasche, ma la ragazza che Sasha aveva salvato dai
morsi del cane idrofobo era la figlia dello Zar…E Nicola II gli doveva
riconoscenza, per quello, se era davvero il gentiluomo che si vantava di
essere.
Il tuo Sasha è vivo, Irina Vasilievna. E sarà per me
causa di grande sventura. Per me, e per la Santa Madre Russia, che
crollerà dalle fondamenta se io morirò.
Irina aveva serrato forte le palpebre sugli occhi,
immaginando quel che avrebbe voluto il Veggente le dicesse. Non le aveva
detto nulla, l’aveva solo guardata come avrebbe guardato un rettile, e
scacciata via. Ma illudersi che quel pensiero assillante fossero le parole
dell’uomo che era andata a cercare per sentirsi dire spera ancora o
dimenticalo era balsamo per le ferite aperte e sanguinanti del suo cuore.
MAKSIM DIMITROVIC MEJIEV
Pietrogrado, marzo 1916.
Erano passati ormai quasi tre anni, dal giorno in cui
Irina si era recata dal Veggente per chiedergli se c’era ancora una
ragione per sperare. Tante cose erano cambiate. La Russia era entrata in
guerra a fianco delle potenze dell’Intesa, contro gli Imperi Centrali. E
alla grande città sul Baltico, porta sull’Occidente voluta dallo Zar
Pietro il Grande perché il suo Paese si aprisse al resto del mondo, era
stato cambiato nome. Non potendo cambiare la sostanza delle cose, si
cambia loro il nome, come se questo potesse servire a influire in qualche
modo sugli eventi. Forse, lo Zar l’aveva fatto per convincere il popolo
dei suoi sentimenti antitedeschi*. Forse, solo per distrarre la gente dai
suoi problemi e tentare di smontare la collera popolare, che saliva come
una marea. La guerra durava ormai da due anni, senza prospettive di una
conclusione nell’immediato futuro. L’economia ristagnava. La miseria
cresceva, il malcontento spesso esplodeva in violente, sanguinose rivolte
che repressioni altrettanto violente non riuscivano più a tenere sotto
controllo. Anzi, dall’esilio, i sovversivi rientravano in patria, per
fomentare la rabbia della gente. E si sospettava che dietro il ritorno del
più temuto, Vladimir Ulijanov**, si nascondesse la lunga mano della
Germania. Lo zar faticava a mantenere il controllo della situazione:
debole e irresoluto, non era che un ostaggio nelle mani delle grandi
famiglie nobili che, temendo di perdere i loro privilegi, ostacolavano
qualsiasi riforma volta alla modernizzazione della Russia. E l’ombra
sinistra di Rasputin continuava ad esercitare la sua nefasta influenza a
Corte e sulla vita politica di un Paese allo sfascio.
Tante cose sono cambiate, ma non la mia vita, pensava
Irina. Per raggranellare qualche soldo, continuava a recarsi quasi ogni
giorno al palazzo Jusupov per allietare, con la lettura dei suoi libri
preferiti, le giornate alla vecchia principessa, ormai ridotta alla
cecità dalla cataratta. Era difficile mettere assieme il pranzo con la
cena, e c’era anche l’affitto da pagare. Per arrotondare i guadagni,
quando le capitava, faceva piccoli lavori di rammendo e traduzioni dal
francese. Quello che racimolava era appena sufficiente a non morire di
fame e di freddo.
Dal Palazzo Jusupov a casa sua la strada era abbastanza
lunga perché le mani e i piedi le si gelassero, malgrado fossero protetti
dai guanti di lana e da robusti stivali foderati di pelo d’agnello. Una
volta giunta a destinazione, si sarebbe scaldata vicino alla stufa, poi
avrebbe preso in mano quel lavoro di traduzione, prima di cenare a pane e
latte e andare a coricarsi. L’ennesima d’una serie di giornate tutte
uguali l’una all’altra.
Infilando la chiave nella toppa, si accorse di non aver
chiuso la porta, prima di uscire. Era la prima volta che capitava e non
avrebbe dovuto farlo mai più, non era prudente. Ma era strano che fosse
capitato proprio a lei, di solito così metodica. C’erano dei risparmi,
in fondo a un cassetto del comodino, gli orecchini e la catena d’oro di
sua madre, il suo rosario di filigrana…Qualche malintenzionato avrebbe
potuto approfittarne. O anche farle del male. Avrebbe dovuto accettare la
proposta della principessa Jusupova, trasferirsi a palazzo. Ma di lasciare
quella casa non se la sentiva. Nonostante tutto, non aveva perso ancora la
speranza che Sasha tornasse.
Quando la fiamma balenò nella boccia del lume, lo vide
seduto al tavolo della cucina, i gomiti sulle ginocchia, la testa tra le
mani. Il cuore prese a batterle forte, quando si accorse di essere in
trappola. Forse lei aveva chiuso la porta e lo sconosciuto l’aveva
forzata. Non poteva fuggire, se ne sarebbe accorto e chissà…Non le
restava che mormorare una preghiera, invocare i santi e rimettersi alla
volontà di Dio.
L’uomo si voltò e le sorrise, guardandola. Non
dovete aver paura di me, le disse. E le sorrise ancora. Indossava un lungo
pastrano militare, sotto il quale si intravedevano gli stivali di pesante
cuoio nero. Si era tolto i guanti e il colbacco, e li aveva posati sul
tavolo. Non voglio farvi del male…Irina. Lei non sapeva se crederci o
no. Sulle maniche del pastrano, l’uomo portava cuciti gradi da
ufficiale. Le era sembrato enormemente alto e grosso, ma sicuramente quell’impressione
era uno scherzo crudele della sua mente agitata, anche perché il tono
pacato della sua voce lenta e grave sarebbe dovuto essere rassicurante.
Nonostante fosse evidente che si trattava di un soldato, non portava armi
con sé. A meno che non ne nascondesse qualcuna sotto il pastrano.
Le si avvicinò. La luce della lanterna illuminò
grandi occhi chiari, frangiati da lunghe ciglia e un volto dai tratti
delicati. Aveva capelli castani, tagliati corti, e le guance sporcate
appena da un’ombra di barba.
-Perdonate la mia intrusione, signorina, e lasciate che
mi presenti. Il mio nome è Maksim Dimitrovic Mejiev. Sono…Sono il
fratello di Sasha.
*Tanto il suffisso tedesco Burg che quello russo
Grad significano città.
**Lenin.
DAL PASSATO
-Vorrei che vi fermaste a cena, se questo vi fosse
possibile. Sono tante le cose che avrei da chiedervi.
-A proposito di Sasha?
Irina non rispose, ma si dice che chi tace acconsente.
Si sarebbe fermato, certo. Avrebbe consumato la cena con quella bella
figliola dagli occhi di cerbiatta che per oltre un anno aveva diviso con
suo fratello casa e letto. Sasha, quella testa matta.
Patate. Della salsiccia. Pane nero. Una bistecca
tigliosa di bue vecchio da dividere in due: grazie al cielo, sia lei che
il suo ospite avevano buoni denti. I tempi erano quelli che erano, e le
autorità avevano razionato i generi alimentari.
-E’ superfluo che vi chieda di accontentarvi. Non
sono mai stata un granchè come cuoca e in giro non si trova molto.
-Sono sempre stato abituato a mangiare qualsiasi cosa.
Eppoi, beh…Il profumino è delizioso: sarete sicuramente più brava di
quell’incapace che cucina il rancio a me e ai miei soldati.
Aveva la stessa bella voce profonda del suo Sasha, il
suo sguardo a tratti dolce, a tratti crudele.
-E così eravate fratelli, voi e lui…
-Gemelli. Perfino nostra madre faceva fatica a
distinguerci.
Irina si sorprese a sorridere. Tante volte aveva
cercato di immaginare come fosse Sasha sotto tutto quel pelo, e adesso la
risposta alla sue curiosità le stava davanti. La barba ombreggiava, senza
nasconderli del tutto, due nei che Sasha aveva sotto lo zigomo sinistro e
profonde fossette sulle guance e sul mento.E in qualche modo, gli induriva
i tratti delicati. Il viso rasato di Maksim avrebbe avuto qualcosa d’infantile,
non fosse stato per i grandi occhi sornioni e sonnolenti, che brillavano
di bagliori verdi, azzurri e dorati sotto le palpebre pesanti. Quelli
erano gli occhi di una tigre: anche a proposito di Sasha l’aveva sempre
pensato.
Che ne è di lui? E’ vivo? E’ morto? La domanda le
bruciava sulle labbra, ma non osava formularla, poiché temeva la risposta
che avrebbe ricevuto. E’ bello come lo era Sasha, continuava a pensare,
guardandolo. Ha la sua stessa voce profonda, le sue stesse labbra tenere,
i suoi stessi occhi acuti e ardenti. Se avesse la barba e i capelli
lunghi, sarebbe identico a lui. Identico in tutto, perfino in quei piccoli
nei sulla guancia. Possibile che due gemelli siano l’immagine speculare
l’uno dell’altro, senza nemmeno un neo che li distingua? Da bambina,
si era spesso domandata come le pecore del vecchio Dima potessero
riconoscere i loro piccoli, visto che gli agnelli sono tutti uguali. E il
pastore le aveva risposto che li riconoscevano dall’odore. Ciascuno di
noi, uomini e animali, si porta addosso un particolare odore ed è diverso
per tutti. Non esistono al mondo due creature viventi la cui pelle emani
lo stesso odore.
La luce bassa sull’orizzonte che filtrava attraverso
le imposte e quella più calda e viva del lume a petrolio gli accendeva
riflessi caldi sui capelli, che erano corti e ricciuti. Come quelli di
Sasha, avevano una base castana alla quale se ne mischiavano pochissimi
grigi e parecchi biondi o ramati anche se, essendo molto più corti, i
suoi sembravano più scuri.
Che dirgli? Sasha non mi parlava mai di voi, non sapevo
neppure che avesse dei fratelli. Lui le avrebbe risposto che se n’era
andato, che aveva tagliato i ponti con la sua solida famiglia borghese,
con il padre funzionario presso qualche ministero, la madre timorata e
benpensante, il fratello ufficiale, per farne quel che voleva della sua
vita. Sasha era come il vento, come un cavallo selvaggio e indomabile al
quale era impossibile imporre le briglie, la sella e il peso fastidioso di
un cavaliere. Sasha era l’uomo più generoso e gentile di questo mondo,
ma era anche terribilmente impulsivo: si ubriacava come un carrettiere,
usava con disinvoltura il peggiore turpiloquio che mai orecchie umane
pensassero di poter sentire, se c’era da menare le mani lo faceva senza
remore…Sasha era come una candela che brucia da entrambi i lati. Era
destino che Sasha morisse giovane.
Le avrebbe risposto così, se gli avesse chiesto di
parlargli di lui. E lei avrebbe continuato a chiedersi, senza peraltro
osare dirglielo in faccia,come mai se Sasha aveva davvero rotto i ponti
con la sua famiglia, lui aveva le chiavi di casa sua. Perché era evidente
che non aveva forzato la porta, per entrare lì dentro. E che non l’aveva
trovata aperta, come Irina aveva temuto in un primo momento. Era sempre
stata troppo prudente per fare qualcosa di così avventato.
-Siete qui in licenza?
-In convalescenza. Ho riportato una brutta ferita a un
fianco e poi, come se non bastasse, mi sono ammalato. Broncopolmonite. E’
un miracolo che io sia ancora vivo.
L’aveva detto tutto d’un fiato, come quando si
stanno raccontando a qualcuno delle bugie e non si vuol dare al proprio
interlocutore il tempo di accorgersene. E,come sempre succede in casi del
genere, era stato veloce a cambiare discorso. Le aveva detto di essere al
comando di un battaglione di cavalleggeri cosacchi e di aver preso parte a
numerose battaglie. Aveva le mani forti. Come Sasha. E il colorito sano
che non era certo quello di chi è sopravissuto per miracolo a una grave
ferita e a una malattia che di solito uccide.*
-Potrei offrirvi…del the?Non ho altro.
-Non vi preoccupate, Irina, sto bene così.
Conosceva il suo nome. Le si era rivolta chiamandola
così prima ancora che lei si presentasse. Era evidente che qualcuno
doveva avergliene parlato: non c’era il suo nome sul portone di casa. E
chi poteva essere stato, se non quel fratello che con la famiglia aveva
rotto i ponti per mettersi a campare d’arte, di sogni e di fame?
-Toglietevi il cappotto…Maggiore Mejiev.
-Maksim. Non siamo forse cognati?
Si era sganciato le bandoliere di cuoio che portava
incrociate sul petto, tolto il pesante pastrano di panno grigioverde, con
i polsi e il colletto in pelo di agnello d’astrakan. Qui non c’è
freddo, gli aveva detto lei posandolo sopra la sua vecchia poltrona e
aveva aggiunto, se non avete un posto migliore dove andare…questa è
casa vostra.In fondo al corridoio c’è una stanzetta con un letto. Lui l’aveva
ringraziata, senza dire né sì né no. Le si era avvicinato, e le aveva
preso il viso tra le sue grandi mani calde. Calde, già, nonostante il
freddo che faceva. Ma non era certo per quello che Irina rabbrividiva
mentre Maxim la baciava. Dolcemente, un labbro alla volta. Come faceva
Sasha. E lei, invece di schiaffeggiarlo, aveva lasciato che quel bacio
diventasse più selvaggio e bruciante, che la passione la travolgesse.
E’ da tanto che non tocchi una donna, Maksim
Dimitrovic. Già, la guerra è la guerra. Le sue dita lunghe e forti le
sbottonarono i vestiti e la biancheria, le stuzzicarono, attraverso la
camiciola di batista, i capezzoli tesi per il freddo e il desiderio.
Starai con me questa notte, Maksim Dimitrovic? Le strofinò le labbra sui
seni, prima di scoprirglieli e di continuare ad eccitarla, con le labbra,
i denti e la lingua, scendendo poi sul ventre, tra le cosce. Lei lo
guardò spogliarsi e aspettò con il cuore in tumulto e il respiro ansante
implorandolo che la prendesse, che le entrasse dentro …E che non le
lasciasse il tempo di impazzire.
Maksim Dimitrovic Mejiev giaceva appagato, dopo aver
versato il suo seme dentro di lei. Forse l’avrebbe presa ancora, quella
notte. Irina se lo augurò, mentre lasciava scorrere la mano sul corpo
gagliardo del suo amante. Era forte, come lo era stato Sasha. Chiaro di
carnagione, sotto la leggera abbronzatura. I muscoli che gli si gonfiavano
sulle braccia e gli si allargavano sulle spalle e sul petto erano sodi e
definiti. Gli accarezzò delicatamente un capezzolo e si ritrovò a
pensare a quanto fosse sensibile, lì. Tanto quanto lo era lei. Tanto
quanto lo era stato Sasha.
Come Sasha, anche Maksim era grande, potente.
Dappertutto. Irina ripensò alla prima volta e sorrise, rivivendo le sue
paure. Ma Sasha era un amante tenero e dolce, e il dolore della prima
volta era stato assai meno devastante del piacere che aveva provato. Irina
chiuse gli occhi, abbandonò la testa sul largo petto di Maksim , lasciò
che la sua mano gli percorresse lentamente la pelle calda, che le narici
ne percepissero il sentore pulito, mascolino. E rivide sé stessa,
bambina, seduta su una catasta di tronchi fuori dall’isba** del vecchio
Dima. Quando gli aveva domandato come facessero le pecore a riconoscere i
loro figli, visto che gli agnelli sono tutti uguali, lui le aveva risposto
che li riconoscevano dall’odore. Dio ha dato a ognuno il suo, le aveva
detto. Non esistono due creature viventi che abbiano lo stesso odore. E
questo vale per tutti, uomini e bestie.
-Sasha…
-No, non Sasha. Maksim.
Irina scosse la testa, gli sorrise. Non puoi continuare
a mentire. Credi che avrei fatto l’amore con te, se non fossi stata
sicura di chi eri? Quando sei sparito dalla mia vita e non sapevo se eri
vivo o morto, avevo giurato di appartenere soltanto a te. Per sempre.
I giuramenti e le promesse sono fatti apposta per
essere infranti, Irina. Parole, quelle, che suonavano strane, sulla bocca
di un soldato.
Puoi mentire quanto vuoi, Sasha. Ma l’odore della tua
pelle non può mentire. E nemmeno le cicatrici. Dimmi: chi sei veramente?
Un uomo che viene dal passato. Un uomo che ha vissuto
mille altre vite. Non le avrebbe risposto, ne era sicura, se gli avesse
chiesto come aveva fatto a sopravvivere al morso di un cane idrofobo, a
qualcosa di molto peggio di una ferita o di una malattia, per quanto gravi
potessero essere. Dimmi, è lo Zar che ti ha fatto curare? E’ lui che ha
fatto venire chissà da dove il siero che ti ha salvato? In fin dei conti,
se non avessi rischiato la vita per lei, quel cane avrebbe morso la
granduchessa Anastasia…E il nostro sovrano è un uomo di parola, lo
sanno tutti.
Avrebbe dovuto dirle che la vita di un sovversivo non
vale la parola di un re. Che lo Zar non s’era neppure degnato di
ringraziarlo, anche se aveva salvato sua figlia e che non aveva alzato un
dito per aiutarlo. Sarebbe stato difficile convincerla che sbagliava a
pensare che forse quel cane non era idrofobo ma solamente inferocito…Eccome
se lo era! Prima di essere abbattuto, aveva morso e contagiato altri
cinque cani. Ma come dirle senza essere preso per pazzo, che lui non
poteva morire?
La strinse a sé, la baciò, e lei si abbandonò
nuovamente alla passione, come se avesse dimenticato tutto quello che le
aveva detto e quello che non le avrebbe detto mai. Che Sasha e Maksim non
erano due gemelli, ma la stessa persona. Che il suo vero nome non era né
l’uno né l’altro, che non era un pittore, né un sovversivo, né il
comandante di un battaglione di cavalleggeri cosacchi. Che non era neppure
russo. Che da ben oltre mille e settecento anni aveva pagato alla morte il
suo tributo e vagava ramingo per il mondo, e avrebbe continuato a vagare
fino alla fine dei secoli, perché qualcuna che lo amava gli aveva
regalato la maledizione della vita immortale.
* Prima della scoperta della penicillina, molto
spesso la broncopolmonite aveva esiti fatali.
**Baracche di tronchi d’albero in cui vivevano i
contadini.
INTRECCIO DI DESTINI
E’ tornato. E non me ne importa niente se di lui non
so nulla, se da quel che ha detto ho capito solamente che non è chi
credevo. Ma è vivo, ed è con me, e conta questo, e questo soltanto.
Irina si accomodò sulla poltrona, a fianco della
vecchia principessa cieca. Doveva essere stata bella,Olga Pavlovna
Jusupova, nei suoi giorni migliori. Lo pensava ogni volta che la guardava
perché il tempo non era riuscito a demolire completamente le vestigia
della sua bellezza. Le mani piene di macchie e deformate dall’artrite
dovevano essere state lunghe e sottili, il profilo delicato, le labbra
tenere. I capelli bianchi come fiocchi d’ovatta dovevano aver avuto i
bagliori dell’oro fuso, gli occhi spenti le sfumature del cielo nelle
calde giornate d’estate…Chissà come mai non c’era, nei suoi
appartamenti, un ritratto che avesse fissato per sempre sulla tela lo
splendore della sua giovinezza.
-Che cosa desiderate ascoltare oggi, principessa?
Le piaceva quella giovane riservata, che parlava il
francese con buona pronuncia e aveva modi gentili ed educati ma non
servili. Sapeva che la vita l’aveva duramente provata, malgrado non
avesse che venticinque anni. Ma le avversità le aveva affrontate con un’encomiabile
forza d’animo, e adesso era felice:il suo uomo, che credeva morto, era
ricomparso nella sua esistenza. La sua perseveranza era stata premiata.
Anche se la vita avrebbe avuto in serbo per lei altre prove, altri dolori,
questo era certo.
-“Anna Karenina.”
Irina non le domandò come mai, proprio quel giorno, la
principessa Jusupova desiderasse che le venissero letti alcuni capitoli di
quella storia così terribilmente triste.
-L’ho conosciuto, Lev Tolstoij. Era un uomo strano.
Come tutti gli artisti.
Strano come lo era stato il pittore Alexander
Dimitrovic Mejiev, il suo Sasha, prima di rinascere con il nome di Maksim
e i gradi di maggiore di cavalleria? Chissà se era tornato per restare,
per decidere di costruire con lei qualcosa di solido e concreto, una
famiglia, dei figli. Lo avrebbe desiderato tanto, Irina, anche se si
sarebbe accontentata, pur di restargli accanto, di vivere il suo amore
giorno per giorno, senza pensare al domani.
“Mio caro, mio adorato, piccolo Cutik…-disse Anna
chiamandola con il nomignolo che soleva dargli quando egli era piccino-E
tu non mi dimenticherai…Tu…”
La principessa Jusupova alzò la mano, le disse basta
così, ne ho a iosa di lacrime e di tristezza. Allungami una tazza di the,
Irina. Per favore. E abbi la pazienza di sopportare questa vecchia noiosa
che oggi ha voglia di scambiare quattro chiacchiere con te.
Le parlò di suo nipote Feliks. Quel ragazzo debole ed
effeminato era il suo cruccio, più del tempo che passava inesorabile,
più dei suoi occhi spenti. Odiava il Monaco, anche lui, ma non avrebbe
osato far niente contro di lui. Non avrebbe fatto niente, no, anche se,
frequentando la Corte, poteva vedere ogni giorno come quell’individuo
stesse trascinando la Russia verso una catastrofe che avrebbe travolto,
inevitabilmente, anche tutti loro. Avevano offerto allo starec del
denaro per ritirarsi in buon ordine dalla Corte e dalla vita pubblica, e
quel denaro l’aveva rifiutato. Ormai, solo uccidendolo avrebbero potuto
liberare il Paese dall’influenza nefasta di quel parassita. Qualcuno di
coloro che frequentavano il Palazzo Jusupov ne aveva parlato. Il granduca
Dimitri Pavlov. Vladimir Puriksevic, il deputato alla Duma*. Ma
Feliks cambiava discorso.Era molto delusa da suo nipote, la principessa
Jusupova.
-Ha paura. Tempo fa, lo starec profetizzò allo
Zar che i destini della Russia erano legati a doppio filo alla sua vita.
Se morirò nel corso di una rivolta popolare, ci saranno lunghe lotte, ma
alla fine trionferete. Se sarà un boiaro** ad uccidermi,
scoppierà una rivoluzione nel corso della quale perderete la corona ma
avrete salva la vita. Ma se a uccidermi sarà qualcuno legato a Voi da
vincoli di sangue, allora perderete anche la vita, Maestà. E per il
nostro mondo sarà la fine.
Irina rabbrividì. Quell’uomo era in grado di leggere
nella mente e negli occhi degli altri il passato, il presente e il futuro.
Le era bastato poco a capirlo, quando era andata a cercarlo nella sua casa
sulla Gorohavaja, per conoscere se Sasha era vivo o era morto. Anche se la
principessa continuava a sostenere che si trattava soltanto di
superstizioni e che lo starec era semplicemente un individuo
malvagio e astuto, capace di servirsi senza alcuno scrupolo dell’influenza
che riusciva ad esercitare sugli altri per i suoi sporchi tornaconti: dai mugik,
che lo veneravano come un santo, all’abulica e annoiata nobiltà
pietroburghese, alla zarina, che lo considerava l’unica medicina in
grado di rendere la salute all’infelice zarevic, e non gliene
importava nulla delle chiacchiere della gente.
-Vorrei che Feliks fosse diverso da com’è. Che mi
somigliasse, almeno un po’. E’ vergognoso che l’unico uomo di questa
famiglia sia una vecchia cieca.
L’aveva vista trarre un profondo sospiro dal petto
scarno, prima di chiederle vuoi che ti racconti un paio di storie, Irina
Vasilievna? Mi pagate per questo, avrebbe voluto rispondere lei: per
leggervi a voce alta i libri che preferite, e per ascoltarvi rivangare i
ricordi del passato. Ma non parlò, e accennò a un sì con la testa.
-Allora ti racconterò di me, e potrai scoprire curiose
analogie tra le mie vicende e quelle di Anna Karenina. Anch’io sposai
per convenienza, a vent’anni neppure compiuti, un uomo che non amavo, e
che sarebbe potuto essere mio padre. Anch’io conobbi l’amore vero e lo
vissi di nascosto, per non compromettere il mio buon nome e la posizione
di mio marito, che non ho mai amato, ma stimavo e rispettavo. Non credo
che avrei avuto il coraggio di andare fino in fondo, come quella
poveretta, di abbandonare la mia famiglia per trasferirmi a vivere con
lui: non lo avrei fatto neppure se non avessi saputo…se non avessi
saputo che…
Un breve, secco colpo di tosse e un rauco sospiro
interruppero le sue parole. Poi la vecchia principessa riprese fiato e
ricominciò a raccontare.
-Era un uomo di bassa condizione sociale, un ex soldato
che mio marito aveva ingaggiato perché insegnasse a nostro figlio a
cavalcare e a tirare di scherma. Aveva modi riservati e cortesi ed era
bellissimo.
Ricordare quegli attimi le faceva chiudere gli occhi
spenti per riassaporare la felicità perduta e sembrava avesse il potere
di spianare le rughe sulla sua fronte, ringiovanendola di parecchi anni.
Si chiamava Maksim, le disse. E, chissà come mai, lei rabbrividì fino
alle ossa. Eppure, anche se non comunissimo, quel nome non era nemmeno poi
così raro.
Neppure lei sapeva perché le avesse chiesto “Com’era?
Descrivetelo.” Un uomo che potrebbe entrare nei sogni di qualsiasi donna…anche
nei tuoi, Irina. Aveva capelli castani non troppo scuri, occhi azzurri,
tratti regolari e un bellissimo corpo. Un corpo capace di risvegliare in
me sensazioni mai provate…Eravamo coetanei. Avevamo entrambi trentatré
anni.
Gli occhi della principessa Jusupova la fissavano senza
vederla, e il suo viso era tornato ad essere quello di una vecchia d’ottant’anni
che le vicissitudini dell’esistenza avevano indurito e piegato senza
tuttavia riuscire a spezzarla.
-E’ come se la sentissi ancora sotto le dita, la sua
pelle di seta. Aveva molte vecchie cicatrici, sulle braccia, sul collo,
sulla schiena, e io sulle prime pensai a colpi di kurbash***. Una,
invece, sembrava un marchio impresso con un ferro rovente. Non gli chiesi
nulla, ma scoprii il perché, e chi era, quando un giorno…
Volevano appartarsi in una piccola dacia****in
mezzo ai boschi, il luogo consueto dei loro incontri segreti. Ma mentre
cavalcavano alla volta del posto, un bandito solitario li aveva assaliti
per rapinarli e, forse spaventato dalla vigorosa reazione dell’uomo,
aveva sparato un colpo di pistola che lo aveva centrato in pieno petto.
-Mi vidi perduta, Irina. Come te, quando hai saputo
che, per salvare la granduchessa Anastasia, il tuo uomo aveva affrontato
un cane idrofobo ed era stato morso. Per lui sarebbe stata la morte, per
me l’infelicità e il disonore, pensai. Era evidente per chiunque, la
gravità di quella ferita. Com’era altrettanto evidente che non avrei
potuto far altro che tenergli la mano e guardarlo morire. Invece…
-Invece impiegò pochi minuti a rimettersi in piedi, e
del ricordo di quella grave ferita restava solo il sangue che gli
impregnava lo sparato della camicia. Sulla pelle, nessun segno. Non ci
avrei creduto, se non l’avessi visto con i miei occhi. Non mi lasciò il
tempo di domandarmi perché, men che meno di spaventarmi; e quando mi
strinse la mano e mi chiese di seguirlo dentro la dacia lo feci
senza esitare. Mi raccontò tutto di lui. Fu l’ultima volta che ci
vedemmo, dopodiché scomparve dalla mia vita. Per sempre. Almeno, così
credevo.
Perché dite questo, principessa? Se è tornato dal
vostro passato, adesso sarà un vecchio cadente. O forse…Irina si morse
il labbro. Come Sasha era sopravvissuto al morso di un cane rabbioso, il
lontano amore della principessa Jusupova non era stato ucciso da una
rivoltellata in pieno petto. Aveva tratti somatici che potevano essere i
suoi, le stesse cicatrici, lo stesso nome con cui si era presentato quando
era tornato, millantando l’identità di un ufficiale delle cavalleria
cosacca.
-Mi disse di un uomo che, per non tradire i principi in
cui gli era stato insegnato a credere, era stato crudelmente privato dei
suoi affetti, spinto a faccia in giù nella polvere…Era stato un
valoroso generale, al servizio dell’imperatore di Roma Marco Aurelio,
che lo avrebbe adottato come figlio e designato quale erede al trono,se
non fosse morto all’improvviso, senza lasciare disposizioni sulla
successione. Lui non inchinò la testa di fronte al nuovo Cesare, il turpe
Lucio Aurelio Antonino Commodo e pagò il suo atto d’insubordinazione
con lo sterminio dei suoi cari e con la riduzione in schiavitù. Divenuto
gladiatore, fu costretto a battersi alla morte per il sollazzo della
plebaglia…E’ alla sua prima vita che risalgono le cicatrici che gli
segnano il corpo. La prima di tante vite, perché da quando una donna
perdutamente innamorata di lui, la principessa Annia Lucilla Galeria, con
l’aiuto della magia lo riportò indietro dal mondo dei morti, non deve
temere il tempo,la vecchiaia, le ferite, le malattie…Capisci adesso
perché, nonostante non sia stato curato, non è morto di rabbia? E
perché quel colpo di pistola non l’ha ucciso?
Irina strinse forte le palpebre sugli occhi. Colui che
nella grande arena di Roma era crollato morto dopo aver ammazzato il
tiranno…Colui al quale una donna innamorata aveva regalato la
maledizione della vita eterna…E’ tornato, Irina. Massimo Decimo
Meridio è tornato per te. Ma anche per infondere il coraggio nel cuore di
coniglio di Feliks Feliksovic Jusupov…E’ tornato perché possa essere
compiuto un atto di giustizia e i pericoli che la minacciano siano
stornati dalla Santa Madre Russia.
* Parlamento.
**Rappresentante della grande nobiltà.
***Frusta
****Villa in campagna.
FERRO, FUOCO E VELENO
Nella sua prima vita aveva ucciso. Molte volte. Perché
la guerra è guerra; perché l’uomo è un lupo nei confronti dei suoi
simili. Un lupo. Proprio così, pensò accarezzando l’elsa del suo
pugnale, un ricordo dell’altra vita, qualcosa che veniva, come lui, da
un lontano passato. Un passato nel quale gli era stato ingiunto di
uccidere, da schiavo, altri schiavi: ammazza, o muori, gli aveva sibilato
il suo padrone, minacciando di levargli via la pelle a frustate, se non si
fosse deciso a combattere. Ma se il suo corpo viveva, la sua anima era
morta, e di quel che ne sarebbe stato di lui non gliene importava nulla.
Si sarebbe lasciato morire, non fosse stato per quel demone che gli rodeva
l’anima come un cancro. Non ci sarebbe stata giustizia, finchè Commodo
avesse continuato a camminare sopra la terra, a gozzovigliare, a
divertirsi rubando la vita agli altri. E Massimo, il Generale,la vittima,
il gladiatore aveva vissuto gli anni della sua abiezione unicamente in
ragione di quell’odio di cui il suo cuore si nutriva solo per non morire
prima che giustizia fosse fatta.
-Maksim Dimitrovic Mejiev…
Jusupov, Puriskevic e il granduca Dmitrj Pavlovic gli
avevano esposto i loro piani. Gli avevano detto che altri tentativi di
eliminare lo Stregone non erano andati a buon fine. E che c’era bisogno
dell’aiuto di un uomo come lui per sperare che, finalmente, il piano
funzionasse a dovere. Era possibile che qualcuno avesse rivelato loro il
suo segreto, o quelle erano semplici frasi di circostanza? Optò per la
seconda ipotesi: era la più logica. Jusupov, infatti, non lo guardava
certo come si dovrebbe guardare qualcuno tornato dall’aldilà per
sempre: era un bel ragazzo biondo, dalla corporatura minuta e dai tratti
delicati e, non fosse stato per i capelli corti e i sottili baffetti che
gli ombreggiavano il labbro superiore, lo si sarebbe potuto
tranquillamente prendere per una donna. Delle sue stranezze parlava tutta
Pietrogrado, ciò nonostante Maksim era vissuto abbastanza da imparare che
non sono le preferenze sessuali di un uomo a determinare ciò che egli è
nel profondo del cuore. Eppure, quel giovane vagheggino non gli piaceva.
Così come non gli piaceva l’idea di contribuire a spedire all’altro
mondo qualcuno che non gli aveva fatto nulla. E’ un pericolo per le
istituzioni, aveva detto il deputato Puriskevic. Istituzioni che non sono
giuste, aveva pensato lui, e che cambieranno. In forza di nuove leggi che
quelli come voi non vogliono…O di una rivoluzione che farà scorrere il
sangue a fiumi.
-E’ andato il dottor Lazavert, a prenderlo. Lui, sì,
travestito da cocchiere; non penso che impiegherà molto ad arrivare.
-Come avete fatto a…A convincerlo a muoversi da casa
sua? Da quando la terra gli scotta sotto i piedi e teme per la sua vita,
non uscirebbe da lì neanche se casa sua prendesse fuoco.
Jusupov si guardò le unghie.
-Gli ho promesso cibo buono, fiumi di madera,il suo
vino preferito, e una decina di avvenenti e spregiudicate puttane
reclutate dai bordelli di Pietrogrado, tutte pronte a soddisfare qualsiasi
suo desiderio.
-Un’orgia?
-Mettetela come volete…Io la chiamerei una trappola.
Cibo, vino e ragazze sono solo l’esca per farcelo cadere dentro.
-Mangiare a crepapelle, ubriacarsi come una spugna,
fottere come un dannato…Quale uomo direbbe di no a una proposta così
allettante?
-Lui no di certo. Anche se ha sempre il nome di Dio
sulla bocca non ha mai rinunciato a spassarsela, il nostro amato starec
che la Zarina crede un santo…
Puriskevic ridacchiò. Alcuni valletti in livrea
introdussero vassoi carichi di cibo e diverse bottiglie di vini, liquori e
vodka.
-Non toccate i dolci e il madera: sono avvelenati.
Spero solo che quegli imbecilli dei servitori non abbiano assaggiato
qualcosa, secondo il loro solito. Dentro quella roba c’è abbastanza
cianuro da sterminare una mandria di cento buoi.
-…e qualche valletto goloso…Se ne mangiasse, tanto
peggio per lui. E le puttane quando arrivano? Non è che avete spalmato
con il cianuro anche la fica delle nostre ragazze, Jusupov?
Mentre gli altri ridevano sguaiatamente, Maksim taceva,
tormentando con le mani il pugnale che nascondeva sotto i vestiti:
tagliava come un rasoio e aveva l’elsa finemente cesellata in forma di
testa di lupo. Sarebbe servito a qualcosa, si domandava, mentre fuori la
neve cadeva a larghi fiocchi. A niente, si rispose da solo. E quasi non
sentì la voce del maggiordomo annunciare l’arrivo dello starec.
Il madera esalava un sottile aroma di mandorle amare,
ma lo starec non sembrò avvedersene, mentre ne tracannava a larghe
sorsate un bicchiere via l’altro. Eppure, il dottor Lazavert, che glielo
aveva preparato sapendo benissimo a cosa gli sarebbe servito, aveva
raccomandato al principe Jusupov di maneggiarlo, o farlo maneggiare, con
estrema cautela. “E fate attenzione anche agli animali che tenete in
casa, principe.”
Ma nonostante il vino e i pasticcini contenessero
abbastanza cianuro da sterminare una mandria di buoi, lo starec
continuava a masticare e a tracannare come se il veleno non riuscisse a
sortire sul suo organismo alcun effetto. Che si trattasse davvero di
magia? Che l’uomo fosse davvero in possesso di poteri paranormali?
Jusupov si sentiva scrutato fin nel profondo delle sue ossa dai piccoli,
penetranti, chiarissimi occhi del Monaco. Era solo con lui in uno dei
salotti del palazzo, gli altri gli avevano detto vi aspetteremo in un’altra
stanza, quando il veleno sortirà i suoi effetti. Invece niente.
Jusupov rabbrividì. Doveva trovare una scusa, pensò,
per uscire senza destare sospetti, e avvertire gli altri che Rasputin,
nonostante tutto il veleno che aveva in corpo, non si decideva a morire.
Pavlovic. Puriksevic. Il dottor Lazavert. O il maggiore Mejiev. C’era,
in fondo agli occhi azzurri di quel bell’uomo grande e forte, qualcosa
che lo inquietava, anche se neppure lui aveva capito di che potesse
trattarsi. Era come se…Come se lui e il Monaco fossero della stessa
natura. Ma era chiaro che il suo cervello sconvolto stava lavorando di
fantasia.
-Mi sento poco bene. Vi domando il permesso di uscire
un attimo. Non tarderò a tornare.
Tornò, e c’erano Puriksevic e Mejiev con lui. Il
primo impugnava una piccola rivoltella, con la quale fece fuoco, dopo
averla puntata al petto del Monaco. Rasputin non provò quasi stupore,
malgrado il deputato che era, come tutti i gentiluomini russi, un ottimo
tiratore, non avesse di certo sbagliato la mira. Gonfio di veleno, il saio
intriso di sangue, riuscì a prendere la porta, a fuggire nel grande parco
che circondava il palazzo.
Non andrà lontano, disse Puriksevic. Sono sicuro di
averlo preso al cuore.
Maksim Mejiev lo cercò. E lo trovò. Era ancora vivo,
era ancora in piedi, e lo fissava con i suoi occhi spiritati.
-Credi che la mia fine possa servire a qualcosa….Immortale?
Non lo so, pensò Maksim sfilando il pugnale. E’ il
destino a volere che tu muoia così, Grigorij Efimovic.
L’arma calò una sola volta su di lui, recidendogli
la carotide, e, questa volta, il Monaco crollò morto per davvero, sopra
la terra dura di ghiaccio. Maksim si chinò a guardarlo, cercò, per
pietà di chiudergli gli occhi. Non ci riuscì. Poi ripulì dal sangue il
suo pugnale strofinandolo con una manciata di neve. Era appartenuto al
Cesare Marco Aurelio Antonino, pensò. Al suo padre putativo. A colui che,
un mare di tempo prima aveva scritto nelle sue memorie di un ragno, di un
legionario, di una mosca e di un barbaro sarmata.
Con l’aiuto dei domestici il corpo di Rasputin venne
avvolto in una coperta, legato e gettato nel canale Malaja Mojka. Per una
sequenza di errori e di eventi sfortunati il segreto del complotto durò
meno di quarantotto ore. Il 19 dicembre 1916 veniva ripescato il corpo
congelato e devastato di Grigorij Rasputin. Meno di un anno dopo, sarebbe
scoppiata la Rivoluzione. Come predetto dal Monaco, lo Zar e la sua intera
famiglia furono sterminati dai Bolscevichi presso la località di
Ekaterimburg, dove erano tenuti prigionieri, il 16 luglio 1918.
FINE
Lalla, 6 /10/2002