IL CONTE
Versante spagnolo dei Pirenei Settentrionali, Anno
Domini 777, tarda primavera.
Il sole di maggio non aveva sciolto
la neve sui picchi che si stagliavano contro il cielo
terso, ma il bosco pulsava di colori e di nuova vita,
pensò il cavaliere ammirando il paesaggio che lo
circondava, mentre il suo grande cavallo da guerra
procedeva al passo, fermandosi, di tanto in tanto, a
brucare un ciuffo d’erba fresca, che sapeva di fiori e
di aromi. C’era un buon profumo, nell’aria. Certo,
non era frequente, di quei tempi, godersi in tutta
tranquillità la bellezza del paesaggio incontaminato
senza essere costretti a guardarsi le spalle dai nemici.
Ma il tempo della guerra sarebbe tornato, come erano
tornati i voli delle rondini nel cielo, le margherite
sui prati e il profumo della menta nell’aria sottile e
frizzante del primo mattino.
E, in attesa della guerra, sarebbe
tornato il tempo della caccia, svago e necessità per i
nobili guerrieri come lui, perché ricca fosse la sua
tavola imbandita, caldo il suo letto e, inseguendo le
prede come fossero state Saraceni dalle scimitarre
ricurve e dai lunghi mantelli svolazzanti, Avari dalle
code equine, selvaggi Sassoni adoratori del tuono e
della pioggia, Longobardi mancatori di parola, non
disimparasse neanche per un istante chi era. Il fabbro
avrebbe fuso e battuto per lui frecce micidiali,
giavellotti leggeri come piume, spade, asce e
mazzafrusti. Per la guerra prossima ventura contro i
nemici di Dio e della Fede, pensò accarezzando l’elsa
della sua lunga spada: era un dono del suo signore,
realizzata con il migliore acciaio, e il suo filo
avrebbe potuto tagliare longitudinalmente un capello.
Nell’impugnatura, poi, erano state richiuse le sacre
reliquie di San Giorgio martire guerriero. Con quella
spada in pugno aveva giurato fedeltà a Dio e al re,
quando aveva ricevuto l’investitura a cavaliere. Con
quella spada aveva portato via la vita ai nemici,
Saraceni dalle scimitarre ricurve, Avari dalle code
equine, Sassoni selvaggi, traditori Longobardi.
Inseguendoli come soleva inseguire il cervo dagli ampi
palchi, guardandoli negli occhi prima di colpirli, come
era solito fare con i lupi, creature vomitate sulla
terra dall’inferno più profondo per portare al il
genere umano lutto, tormento, rovina e pericolo.
Quei boschi, pensò, dovevano
brulicare di selvaggina: daini, cervi, cinghiali, uri.
Ma anche lupi, linci e orsi. Gli sarebbe piaciuto
stanare qualcuna di quelle belve e sfidarla guardandola
negli occhi come in un duello all’ultimo sangue, per
poi colpirla al cuore e portarle via la vita. Il piacere
era anche dato dall’ebbrezza del pericolo, mai lui si
sarebbe abbassato a cacciare con il falcone anatre e
beccacce, come le donne e i preti.
Smontò da cavallo, si diresse verso
la roccia da cui il vento e la pioggia non avevano
cancellato quelle scritte, vergate in caratteri arabi,
nonostante fosse passato tanto tempo. Si morse la bocca
per non ricordare quel che aveva significato scoprirle e
costringere il priore di un non lontano convento a
leggergliele. Lui non era in grado di farlo neppure con
la sua lingua: del resto, chi ha detto che un guerriero
debba saper leggere e scrivere e debba anche conoscere
la lingua degli infedeli? Sono altre, e ben più
importanti, le abilità richieste a un combattente e
quelle mai gli avevano fatto difetto. Nemmeno quando l’amore
era stato a un passo dall’impadronirsi della sua
ragione, tanti anni prima.
Il sottobosco odorava d’erba
fresca, di terra smossa, dei primi frutti che la
primavera faceva nascere tra i rovi. Ma anche di piccoli
animali morti, di brandelli di carne che, rifiutati dai
predatori, marcivano al suolo, contribuendo a
concimarlo, a renderlo più fertile e più ricco. Si
stiracchiò, facendo schioccare le ossa della schiena.
Era sempre agile, integro e forte, si disse da sé solo,
ma non lo sarebbe stato ancora per molto: di lì a tre
mesi, avrebbe compiuto quarant’anni e, se era stato
fortunato ad arrivarci, quell’età rappresentava la
soglia della vecchiezza e l’addio definitivo ad una
vita che aveva preteso molto da lui. Ma l’aveva
appagato. Dopo, si sarebbe rassegnato a trascorrere gli
inverni nel suo castello senza attendere, con la
primavera, gli eventi che altri e non lui avrebbero
vissuto. E sarebbe finito il tempo della caccia al
cervo, al lupo e al cinghiale, degli inseguimenti tra le
forre, dei limieri* che fiutavano l’usta**, naso all’aria
e circondavano la preda terrorizzandola con i loro alti
latrati. Orlando, conte di d’Anglante e di Blaye,
nipote del Re e comandante delle sue guardie, si sarebbe
dovuto rassegnare a cacciare anatre e beccacce con il
falcone. Come le dame. Come i preti.
* Segugi.
**La traccia odorosa della
grossa selvaggina.
L’ORSA
Il cavaliere si chinò a raccogliere
un ciuffo d’erba fresca, solo per il gusto di
strapparla dalle sue radici e di gettarla lontano, quasi
con cattiveria. Come nove anni prima, quando aveva
scoperto, dalle parole dei pastori e dal balbettio
imbarazzato del vecchio priore che sapeva la lingua
degli infedeli, che la donna per cui moriva amava un
altro.
La donna per cui moriva, già.
Pensò. La donna che il destino non aveva voluto dargli
in sorte. Quella che voleva con tutto se stesso,
malgrado fosse legato a un’altra, alla madre dei suoi
figli. Ma l’avrebbe ripudiata senza rimpianti, se la
donna infedele, che aveva pelle d’alabastro, stretti
occhi d’ossidiana e capelli neri come le ali dei
corvi, avesse accettato le sue profferte invece di
fuggirlo come la peste. Nello stesso modo in cui suo
zio, il suo sovrano, aveva rispedito a Pavia presso il
padre, Ermengarda, la grassa e sciatta figlia di re
Desiderio, che la ragion di stato l’aveva costretto a
sposare senza amore e che non era stata neppure capace
di dargli un figlio che assicurasse continuità alla
casata d’Heristal.
Le parole che quasi lo avevano ferito
a morte erano ancora incise in quei frammenti di roccia
che non era riuscito a demolire colpendola con la spada
che, come la sua anima, era stata consacrata a Dio, non
a pensieri oziosi, a desideri carnali. Era stato l’uomo,
a inciderle con un punteruolo. Si chiamava Moahmed Hor*,
ed era un guerriero saraceno. I pastori gli avevano
detto che era giovane, bello come un angelo e ferito in
modo tanto grave che ben difficilmente sarebbe
sopravissuto. E invece…E invece era scampato all’inferno,
e l’aveva portata via. Inshallah, dicevano quelli come
lui. Sia come Dio vuole: anche se non è ciò che noi
vorremmo.
“Avrà avuto sì e no vent’anni e
non era certo quel che aveva detto d’essere lei, la
figlia del più grande re dell’Oriente, ma un semplice
fantaccino armato con una leggera corazza di cuoio, arco
e frecce. Erano belli, però, insieme, lei piccola e
bruna, lui alto e biondo come la statua di San Michele
sull’altare della chiesa …” Alto e biondo, già. E
con due occhi di un azzurro trasparente come l’acqua
gelida delle sorgenti dell’Ebro, ai piedi di quelle
montagne. Sembrava il ritratto di un Sassone o di uno
Scandinavo, quello, non certo di un Saraceno. Ma nel
momento in cui il pastore gliene aveva parlato,
mostrandogli il braccialetto d’oro che egli stesso
aveva donato alla donna come pegno del suo amore, la
rabbia e la gelosia gli avevano impedito di ragionare su
quelle incongruenze. Grazie a Dio, qualche santo gli
aveva messo le ali ai piedi, facendolo fuggire prima che
potesse uccidere il poveretto, testimone ignaro di ciò
che egli non avrebbe voluto accadesse.
Le dita di Orlando, conte d’Anglante
e di Blaye, corsero lungo le incisioni nella roccia,
accarezzando i nomi dei due amanti, Moahmed Hor,
miserabile infedele, e Han Cheng*, la figlia dell’Imperatore
del Catai**.
Possiate essere maledetti per sempre,
bofonchiò tra i denti, prima di voltarsi in direzione
del cavallo. Era tempo di tornare.
E fu allora che la sentì, prima
ancora di vederla. E quando la vide, era tardi: un’orsa
gigantesca che, sbucata dal nulla, gli caracollava
contro mostrandogli le zanne impressionanti, i lunghi
artigli taglienti come coltelli. Era primavera
inoltrata, il tempo in cui le femmine degli animali
avevano figliato da poco e la necessità di difendere i
cuccioli poteva renderle pericolose. I cuccioli, già.
Accanto al tronco marcio di un albero abbattuto, i due
orsacchiotti giocavano ignari. Avessi avuto l’arco e
le frecce. Avessi avuto…Non fece in tempo a pensare
ancora che sentì il puzzo acre e il peso della belva
travolgerlo, gli artigli lacerargli la carne del braccio
fino all’osso. Fece appena in tempo a raccomandarsi l’anima
a Dio, e poi fu il buio.
* Si tratta di Angelica e Medoro, i
famosi personaggi di ariostesca memoria. Li ho
ribattezzati con un nome arabo e un nome cinese per non
incorrere nelle trappole dell’incongruenza narrativa.
Cosa che, del resto, aveva già fatto lo scrittore
italiano Giuseppe Pederiali che, ispirandosi alle
canzoni di gesta e all’Orlando Furioso, ha scritto un
bel romanzo fantasy, “Donna di Spade”. Lui li aveva
comunque ribattezzati Mehmet Hor e Hen Je Lah.
**La Cina.
HILEZKOR
Non sono morto, si ritrovò a
pensare. No, non lo era. Perché se lo fosse stato, non
avrebbe sentito dolore, sete e arsura. Non avrebbe
avuto, negli sprazzi di lucidità tra un delirio e l’altro,
modo di vedere l’ampio letto dove giaceva: non aveva
cortine e baldacchino come i letti dei nobili signori ed
era coperto da soffici pelli d’orso e di lupo. Fuori,
ricordò, non faceva freddo, ma lui batteva i denti come
nel gelo dell’inverno, nonostante il fuoco che ardeva
gagliardo nel grande camino di pietra.
No, non era morto, il conte d’Anglante
e di Blaye. Non era morto ancora.
Chissà quanto sarebbe durato, pensò
l’uomo scotendo la testa. La fronte gli scottava come
il fuoco e la ferita che le grinfie dell’orsa avevano
aperto sul suo braccio era tanto profonda da lasciar
intravedere il biancheggiare dell’osso. Era brutta,
brutta parecchio, pensò ricacciando all’indietro con
un gesto nervoso della mano i lunghi capelli castani che
gli scendevano fino alle spalle. Lacera e sporca di
terra e di sangue incrostato. Cancrena. Il rischio era
serio e concreto, le ferite prodotte dai denti e dagli
unghioni degli animali avevano di frequente quella
terribile conseguenza. E se il destino ti risparmiava di
marcire ancora vivo potevano esserci gli spasimi e la
rabbia in agguato, che portavano inevitabilmente alla
morte dopo atroci sofferenze. Con un cenno della mano, l’uomo
ingiunse al suo servo di avvicinarsi.
-E’ un guerriero, Sidi*. Un
cavaliere del signore d’Austrasia e Neustria**…
Un nemico, avrebbe voluto dirgli il
giovane dalla pelle olivastra e dai tratti sottili che
gli era scivolato accanto leggero come il balzo di un
gatto selvatico sulla preda. Un nemico come avrebbe
dovuto esserlo lui, che era bianco e cristiano. Ma al
signore della rocca abbarbicata in mezzo alle montagne,
a colui che i Saraceni chiamavano Al Khalid e i
Guasconi Hilezkor, non importava nulla di quel
dettaglio. Chiunque fosse il cavaliere che, nel bosco,
aveva salvato dagli artigli di un’orsa inferocita,
aveva bisogno d’aiuto: un bisogno disperato.
-Il Profeta, se non mi sbaglio, ha
insegnato alla tua gente il valore dell’ospitalità e
della misericordia, Osman.
-Il Profeta ci ha anche ingiunto di
lottare contro i nemici di Allah, Sidi.
-Arroventa l’attizzatoio, Osman.
Possiamo riporre solo nell’azione del fuoco la
speranza di salvarlo. E chiama gli altri. Sentirà
parecchio dolore quando gli cauterizzerò la ferita e
bisognerà tenerlo fermo.
Eh già. Sarebbero occorse le braccia
di quattro uomini forti per inchiodare al letto un
individuo come quello. Era alto e snello, non più
giovanissimo, i capelli bruni e folti che portava
raccolti sulla nuca con un laccio di cuoio erano
attraversati da spesse striature grigie, al pari della
barba che gli copriva la gola e le mascelle. Ma i
muscoli asciutti ed allungati tradivano un grande vigore
fisico, tutta la forza di un guerriero abituato a
muoversi portando addosso una pesante armatura, a
sollevare lo scudo e a maneggiare la spada, la lancia e
il mazzafrusto. Non sarebbe stato facile tenerlo fermo.
Avrebbe inarcato la schiena e urlato come un ossesso, si
sarebbe dimenato rendendo difficoltoso il lavoro del suo
signore. Ma lui e i suoi compagni, quattro montanari
baschi dalla corporatura tarchiata e dalle facce
lentigginose cotte dal sole, avrebbero fatto del loro
meglio per impedirgli di muoversi.
-Fate attenzione… ai suoi denti e
alla sua bocca. Non credo che l’orsa fosse rabbiosa,
ma in questi casi la prudenza non è mai troppa.
-Quel che desiderate sarà fatto, Hilezkor.
Orlando, conte d’Anglante e di
Blaye, Paladino del Regno Franco, aveva sentito il fuoco
mordergli la carne, mentre la ferita veniva
cauterizzata. Aveva visto quattro uomini robusti
tenergli ferme le braccia e le gambe e un altro, anch’egli
grande e forte, avvicinarsi brandendo il ferro rovente.
E’ necessario, gli aveva detto, parlandogli nella sua
lingua. Questo lo sapeva. Non era medico né guaritore
ma, da combattente, aveva visto ferite di tutti i generi
curate sempre nello stesso modo: il fuoco arrestava le
emorragie, bloccando il flusso del sangue, e impediva
che la cancrena facesse marcire la carne ancora viva. Ma
non sempre. E gli artigli degli animali, la sua
esperienza di cacciatore gliel’aveva insegnato,
causavano le ferite peggiori, talvolta anche la rabbia,
che portava alla morte tra indicibili sofferenze.
Aveva stretto i denti per non urlare
come una donnicciola e, prima che uno svenimento pietoso
lo togliesse di coscienza, aveva sentito le voci di
quegli uomini farsi sempre più lontane, veduto i loro
lineamenti confondersi in una nebbia indistinta. Erano
giovani, tutti e cinque. Molto più di quanto non lo
fosse lui. Uno aveva la pelle scura e i tratti affilati
dei Saraceni, gli altri i capelli chiari e la sagoma
tarchiata dei contadini di quelle parti. E l’ultimo…
Era bello e gagliardo come Thor, il Signore del Tuono
che i suoi avi avevano venerato prima di conoscere il
vero Dio ai tempi ormai lontani di Clovis il Santo.
Aveva occhi chiari, un volto delicato incorniciato da
splendidi capelli e da una corta barbetta, grossi
bicipiti adorni di bracciali d’argento che il
giustacuore di cuoio privo delle maniche gli lasciava
scoperti.
I suoi servi lo chiamavano Hilezkor.
Aveva percepito quella parola in lontananza, il conte d’Anglante
e di Blaye, in un breve sprazzo di lucidità tra un
delirio e l’altro. Suo nonno gli aveva parlato di un
uomo che portava quel nome e che aveva combattuto con
lui a fianco di Carlo Martello a Poitiers, quando l’avanzata,
che sembrava inarrestabile, dei Mori era stata fermata.
Un gentiluomo basco dall’aspetto formidabile, uno
stratega abilissimo, un combattente temerario senza il
contributo del quale, forse, quella battaglia non
sarebbe stata vinta, e sui colli di Roma sarebbe stata
issata la bandiera verde dell’Islam.
Hilezkor. Così lo chiamavano i
montanari baschi. Sicuramente quell’altro doveva
essere stato un suo antenato, e con le terre e il
castello gli aveva trasmesso anche il suo soprannome. Hilezkor
era lo stesso di Al Khalid. Era così che
lo chiamava il suo servitore arabo. Due parole diverse,
in due diverse lingue, per indicare lo stesso concetto:
Immortale.
*Mio Signore, in arabo.
** Regioni del Regno Franco.
OSMAN
Osman si passò la mano sui corti
riccioli neri, poi si strofinò gli occhi per scacciare
il sonno. Il suo signore gli aveva ordinato di vegliare
accanto al ferito, finché un altro degli uomini non gli
avesse dato il cambio. Potrebbe morire, gli aveva detto,
e non voglio che muoia solo.
Come poteva prendersela tanto a cuore
per un individuo che non gli era niente? si domandò il
ragazzo. Forse perché, contrariamente a parecchi
cristiani, che avevano disimparato l’insegnamento del
loro profeta, lui si portava addosso la smania di
mostrarsi caritatevole ad ogni costo. Anche con i
nemici. Era un individuo strano, il suo signore.
Ma era anche un brav’uomo, Al
Khalid. Lo era stato pure con lui quando, a
dodici anni, si era ritrovato orfano e solo, dopo che un
manipolo di cavalieri come quello che adesso gli giaceva
davanti più morto che vivo, con gli occhi chiusi e il
braccio fasciato da una benda chiazzata di sangue e
materia infetta, aveva sterminato la sua famiglia e
incendiato la sua casa. Cavalieri di Re Carlo d’Heristal,
nemici dei nemici di Dio. Eppure, il Dio in cui gli era
stato insegnato a credere, Allah il Grande, il
Misericordioso, era lo stesso dei Cristiani e degli
Ebrei. Erano passati tanti anni da quando l’imam*
della moschea gli aveva detto che Ebrei, Cristiani e
Musulmani affondavano tutti quanti le loro radici in
Abramo e credevano negli stessi valori, oltre che nello
stesso Dio. Allora, perché li divideva il mare dell’odio?
Non avresti dovuto uccidere l’orsa
che lo aveva assalito nella foresta, Sidi. E
adesso fai male a prodigarti per lui perché si salvi.
Se guarirà, se ne andrà. Ma non passerà molto tempo,
e lo vedremo tornare. Alla testa di un esercito di
fanatici che ci stermineranno tutti e faranno di quest’oasi
di pace un cimitero. Che bruceranno i tuoi campi come a
suo tempo bruciarono la mia casa.
Glielo dirò, quando lo vedrò.
Pensava guardando la sagoma del ferito che giaceva sul
letto, alzando con il suo respiro irregolare e affannoso
le coperte che lo avvolgevano per difenderlo dal freddo
che solo lui sentiva. L’aria era impregnata dell’aroma
resinoso delle torce e di un fetido sentore dolciastro
che gli indugiava nella gola, provocandogli una leggera
nausea. Era il braccio dell’infedele, a puzzare in
quel modo. Non si sarebbe salvato, e forse era meglio
così.
-Vai a dormire, Osman.
Sarebbe stato lui a dargli al cambio,
vegliando il moribondo perché non si ritrovasse solo,
nell’attimo del suo appuntamento col destino. Teneva
una torcia in mano ed era seguito dai suoi cani, una
coppia di giganteschi mastini bianchi del tutto simili a
quelli che vegliavano sulle greggi tenendo lontani lupi,
orsi e predoni. La luce della fiamma lo illuminava
abbastanza da permettere ad Osman di distinguere, nel
buio, i suoi tratti. Aveva morbidi lineamenti nordici,
grandi occhi azzurri, lunghi capelli castani sfumati di
miele e di rame, spalle possenti e grosse braccia forti.
Era come loro. Forse era uno di loro. Uno a cui era
stato insegnato a cavalcare, a battersi con coraggio e
sprezzo del pericolo, a considerare nemici tutti coloro
che professavano un altro credo e avevano pelle scura e
tratti stranieri. Uno a cui era stato insegnato che
anche i bambini dei nemici vanno sterminati, come si fa
con i cuccioli di volpe. Eppure, lui lo aveva salvato da
chi voleva ucciderlo, aveva curato le sue ferite, dato
cibo alla sua fame, conforto alle sue lacrime e rifugio
alla sua solitudine.
-Buona notte, ragazzo mio.
-Buona notte a voi, Sidi.
***
La notte non si era portata via la
vita dell’infedele come il suo signore aveva temuto e
lui, forse, sperato. Quell’uomo doveva avere una fibra
d’acciaio, com’era lecito attendersi da un guerriero
qual era. Nei momenti di lucidità che inframmezzavano
il suo torpore non emetteva un lamento, anche se il
braccio, che doveva fargli un male d’inferno, gli si
era gonfiato da mettere paura, e questo non lasciava
presagire niente di buono.
-Forse le sue condizioni
migliorerebbero se si riuscisse a spurgare quel braccio
dal sangue infetto.
L’aveva fatto con le sue bestie,
qualche volta, mai con gli esseri umani. Ma se non ci
avesse provato il ferito sarebbe morto. E’ giusto
farlo soffrire ancora? Doveva essersi domandato mentre
arroventava sul fuoco la lama del coltello. Il sangue
marcio gli sarebbe potuto con facilità schizzare
addosso, per cui si era tolto la tunica e Osman guardava
il suo corpo possente, segnato dalle cicatrici, i
muscoli contratti del collo e delle braccia, la smorfia
che la diceva lunga sugli sforzi che stava facendo per
ricacciare indietro la nausea che dallo stomaco gli era
salita fino alla gola.
Il bacile di rame raccolse parecchio
del suo sangue putrido, prima che la ferita gli venisse
lavata con l’aceto e fasciata con bende pulite.
Sembrava, o forse era solo il riflesso delle torce che
illuminavano la stanza, che le sue guance avessero
ripreso un po’ di colore, che il suo respiro si fosse
fatto più regolare. Ma anche quelle, sicuramente, erano
illusioni soltanto.
-Io credo che avrebbe bisogno di un
medico vero.
Disse Osman alzando le spalle. E non
di un cristiano. Erano ciarlatani, quelli. Non lo disse,
ma lo pensò e il suo signore Al Khalid che aveva
la pelle color dell’avorio e gli occhi azzurri, come
al solito gli lesse nel pensiero.
-Cercarne uno potrebbe comportare un
lungo viaggio, dacché Pamplona e Saragozza sono cadute
nelle mani di Re Carlo e i Saraceni e gli Ebrei sono
stati scacciati. Essere qui di ritorno con il medico
richiederebbe giorni, e non c’è tempo da perdere.
Trasportare il ferito, nelle condizioni in cui si trova…Sarebbe
impossibile, Osman. Morirebbe strada facendo.
Era triste, come se chi non poteva
aiutare fosse suo fratello non un estraneo o, peggio, un
possibile nemico. Che ve ne importa, avrebbe voluto
dirgli. Avreste dovuto lasciare che quell’orsa lo
uccidesse, che i lupi e i corvi si saziassero dei suoi
putridi resti. Certa gente non merita pietà, e voi
siete troppo buono, Sidi.
-Aggioga la mula alla carretta, Osman.
Quello di cui quest’uomo ha bisogno non sta molto
lontano da qui.
Un’intuizione. Un sorriso che si
accese sulle labbra del signore di quei luoghi e spense
quello del giovane moro. C’erano una decina di miglia
dalla rocca di Hilezkor e l’antica fortezza
romana nascosta dietro le colline ai piedi del Passo, in
posizione strategica. Quelli venuti dall’est stavano
lì da otto anni almeno con il consenso del suo signore.
Cercavano casa e rifugio perché erano in fuga, braccati
come lupi dai cacciatori, e molte costruzioni all’interno
della Fortezza erano solide ancora abbastanza da
accoglierli, malgrado lo scorrere implacabile del tempo
e il succedersi degli eventi. Con loro, si diceva, c’era
la donna più bella che mai si fosse vista, la preda
sulle tracce della quale si erano scatenati i cani
vestiti di cuoio e di ferro, i feroci cavalieri di Re
Carlo, che fossero maledetti.
Osman aveva aggiogato al carro la
vecchia mula. Avreste dovuto lasciar fare al destino,
pensava guardando due robusti montanari caricare sul
pianale il corpo inerte del moribondo, mentre il suo
signore, inforcato il cavallo, lo spronava a muoversi in
direzione sud-ovest. Verso la Fortezza.
Il destino mi sarebbe stato amico,
perché se quest’uomo che sta morendo di febbre e di
cancrena non è uno di loro, è quello che erano loro.
Invece, lo stiamo portando verso la salvezza. Perché
Kai Ge, il Saggio, salverà dall’inferno anche la sua
sporca vita.
* teologo dell’Islam. In questi
tempi in cui spesso sono balzati all’onore delle
cronache fatti tragici e inquietanti legati a certe
frange integraliste dell’Islam potrebbe sembrare
strano eppure, nell’alto Medioevo, la civiltà araba
era la più evoluta e tollerante del mondo conosciuto.
Fulgido esempio di tale cultura fu la Spagna, in cui
Musulmani, Cristiani ed Ebrei vivevano in pace
collaborando proficuamente. Carlo Magno e altri signori
cristiani dell’Occidente costringevano invece,spada
alla mano, i cosiddetti infedeli a conversioni forzate,
come accadde nel caso dei Sassoni pagani.
KAI GE
Orlando, conte d’Anglante e di
Blaye, sussultò alla voce che veniva dai suoi sogni ed
era quella di un vecchio. Come a un vecchio apparteneva
la piccola sagoma curva che avanzava verso di lui
appoggiandosi pesantemente a un lungo bastone, per poi
fermarsi ai piedi del suo letto.
Sto sognando. Si disse da sé solo
mentre le dita dell’uomo, fredde come le zampe di una
salamandra, gli sfioravano la fronte, la base del collo,
i margini slabbrati e infetti della ferita.
-E’ conciato piuttosto male, ma
sopravvivrà. La mia scienza, che è quella antica della
mia gente, stanerà il male dal suo corpo senza dolore e
senza lame roventi, semplicemente ricreando in esso l’equilibrio
tra caldo e freddo, acqua e fuoco, umido e asciutto,
maschile e femminile, positivo e negativo…Yn e Yang…
Stava sognando, sì. Un sogno che
veniva dai recessi di un passato nel quale aveva
rischiato la follia e da cui solo Dio l’aveva aiutato
ad uscire senza troppi danni. E il vecchio dalla voce
rotta, che faticava a pronunciare la lettera r,
apparteneva a quei giorni. Non poteva essere altrimenti,
la testa calva, gli stretti occhi orlati di rosso nel
volto pallido e rugoso erano una fantasia e un ricordo,
quello soltanto. Come la figurina delicata e sottile che
gli si era materializzata accanto e gli porgeva i lunghi
aghi d’argento che il vecchio conficcava nel suo
braccio quasi senza guardare, come se conoscesse a
memoria la geografia della sua carne, senza infliggergli
dolore, anzi, attenuando quello terribile della ferita
infetta.
Orlando, conte d’Anglante e di
Blaye, sentiva che la febbre lo avrebbe presto lasciato,
che la ferita si sarebbe rimarginata senza conseguenze,
anche se quella del vecchio doveva essere magia, opera
del demonio e ciò che gli stavano facendo, se non era
un sogno che gli mandava il delirio, sicuramente non era
giusto.
La donna, il cui volto era nascosto
tra le ombre di quella stanza male illuminata, indossava
una corta tunica scura, pantaloni ampi e aveva i capelli
corvini stretti in una spessa treccia che le arrivava
alle anche. Era minuta e sottile, molto più di quanto
non lo fossero le altre donne che Orlando aveva
conosciuto, Franche, Sassoni, Bavare, Italiche,
Longobarde, Saracene. Dal tavolino da notte, aveva preso
una ciotola piena d’un liquido dal profumo intenso e
pungente, che s’era affrettata a porgere al vecchio.
-Adesso avrei bisogno di qualche
pezza pulita, Han Cheng, mia principessa.
Gli occhi del conte d’Anglante e di
Blaye, Orlando, Paladino del Regno Franco, si
allargarono nella semi oscurità, quasi a voler
catturare quell’incubo scaturito dai recessi del
passato e della follia onde esorcizzarlo, una volta per
tutte . Han Cheng. Han Cheng…Angelica…
HAN CHENG
-Credi…che si renda conto di ciò
che gli succede intorno?
-Prima no di certo. Ora, non so. E’
stato sul punto di morire, e temo sia ancora in pericolo
di vita.
Conosceva a memoria quel viso, anche
se erano trascorsi quasi tre anni dall’ultima volta in
cui le aveva parlato, dall’ultima volta in cui… Il
signore della Rocca che guardava il Passo si morse le
labbra per non pensare a quei momenti.
-Perché lo hai portato qui?
Han Cheng non aveva la vocetta
sottile e petulante delle altre donne della sua piccola
corte, ma una voce bassa e melodiosa che gli rimescolava
ogni volta il sangue, non meno degli occhi neri, obliqui
come quelli di una lupa, che guardavano dritto dentro i
suoi. Ma non con la malizia d’una femmina di
malaffare: come lo avrebbe guardato un suo pari, un
uomo, un soldato, uno che esige risposte che non siano
bugie.
Erano passati tanti anni dalla prima
volta in cui l’aveva incontrata. Otto. Anzi, quasi
nove, se non ricordava male.
-Perché l’hai portato qui…Maximus?
-Mi sembra evidente. Quell’uomo
sarebbe morto senza l’intervento di Kai Ge.
-E tu avresti dovuto lasciarlo
morire.
La fiamma della lanterna illuminò il
volto delicato della donna. Gli anni sembravano passati
invano anche per lei, si ritrovò a pensare l’uomo.
Quanti erano? Trenta, se non di più. Eppure aveva
ancora il viso liscio di un pallore alabastrino, i
lineamenti minuti che la facevano rassomigliare a una
piccola statuetta intagliata nell’avorio dalle mani di
un artigiano dotato di una perizia e di una sensibilità
che travalicavano le capacità umane.
-Quest’uomo…
Avrebbe voluto dirgli quel che gli
aveva detto Osman: è un nemico, porterà scompiglio,
distruzione, rovina e morte in questo angolo nascosto
dove, finora, siamo stati dimenticati e lasciati in
pace. Forse aveva ragione. Se fosse guarito, il
cavaliere sarebbe tornato, perché quelli come lui non
conoscevano onore e gratitudine. Sarebbe tornato per
lei, pensò la principessa che veniva dai limiti
orientali del mondo e non lontano dagli altri estremi
limiti della terra credeva di aver trovato la pace che
cercava.
Potrei credere che lo conosca, pensò
il Signore della Rocca e del Passo guardando come l’ira
le accendeva lo sguardo. Han Cheng diventava stupenda
quando la tempesta le agitava il sangue, quando il fuoco
della passione o dell’odio accendeva i suoi occhi
impenetrabili, più neri di una notte senza luna e senza
stelle.
Il ferito si lamentò piano nel
sonno, sollevò le palpebre e la fissò a lungo, prima
di mormorare il nome che lei tanto odiava. Angelica.
Simile agli angeli. Qualcuno le aveva spiegato che gli
angeli erano creature di puro spirito, talmente perfette
da non provare nulla, né male, né desiderio ma nemmeno
felicità. Quella non era lei. Lei era una donna, non
uno spirito incorporeo. Una donna di carne e di sangue.
Qualcuna che lui, forse, considerava sporca e indegna,
perché i suoi occhi erano diversi, perché veniva da
lontano, perché non venerava il suo stesso Dio.
Angelica. Il Cavaliere ricoperto di cuoio e di ferro
aveva deciso di chiamarla con quel nome nel segreto del
cuore per giustificare in qualche modo i suoi desideri
impuri, le sue intenzioni malvagie. Aveva una moglie e
dei figli, le era stato detto. Eppure l’avrebbe presa
lo stesso, come un animale, appena avesse potuto. E non
contava che lei non volesse. La volontà di una donna
non contava nulla, a Oriente come a Occidente.
Han Cheng aveva mani piccole e
sottili. Mani delicate come il soffio della brezza e le
ali delle farfalle, ma che all’occorrenza sapevano
graffiare come artigli. Maximus tremò, sentendole
insinuarsi sotto la tunica e accarezzargli la carne
calda e sudata del petto.
-Voglio fare l’amore con te.
Maximus inghiottì il groppo che gli
serrava la gola quando sentì quelle parole graffiargli
l’anima così come le unghie lunghe, appuntite e
indurite da uno spesso strato di lacca bluastra gli
graffiavano la pelle del petto, delle braccia e della
schiena. Aveva dovuto dirle addio quando lei aveva
scoperto la verità sul suo conto: quell’uomo dolce e
gentile, che l’aveva salvata dalla morte, accudita e
nascosta, quell’uomo che le aveva insegnato l’amore,
non era come tutti quanti gli altri. Era inevitabile che
accadesse, come puntualmente era accaduto e sarebbe
continuato ad accadere con tutte, dacché era tornato
dal Regno delle Ombre grazie alla magia, quasi seicento
anni prima. E avevano deciso di non cercarsi mai più,
anche se ciascuno di loro era ormai entrato nel sangue
dell’altro e recidere quel legame sarebbe stato
terribilmente doloroso.
-Voglio fare l’amore con te,
Maximus. Come una volta. Voglio che tu mi faccia ancora
gridare e toccare il cielo. Voglio…
-Non qui. Non davanti a lui.
Maximus aveva cercato di sorridere, e
non era stato facile. C’è una stanzetta con un letto,
proprio a fianco di questa. E perché non nel tuo letto,
Han Cheng? Solo perché i servi non se ne accorgano e
non pensino male di te?
Le labbra della donna erano piccole,
e sinuose, e rosse come ciliegie mature. Il motivo non
era quello, intuì l’uomo guardando indurirsi quel suo
viso di bambola, gli occhi cupi scintillare come lame.
Perché voglio che ogni mio sospiro e ogni tuo gemito
siano coltelli piantati fino all’impugnatura nel cuore
di Orlando, conte d’Anglante e di Blaye, paladino del
Regno Franco. Di colui che odio con tutta quanta me
stessa.
***
Non te ne importa niente di quello
che sono Han Cheng? E’ ancora tutto come quando…non
sapevi? Quando ancora credevi che io fossi un uomo come
tutti gli altri, invece del mostro che sono?
Un lungo brivido caldo la percorse
dalla radice dei capelli alle unghie dei piedi, quando
lui,dopo averle imprigionato la bocca in un bacio
bruciante, la spogliò e la toccò. Gli piacevano la sua
pelle bianca come l’alabastro, i suoi seni non più
grandi di quelli d’una bambina di dieci anni, ma i cui
capezzoli turgidi e duri rivelavano la sua natura
sensuale di donna; gli piaceva il suo sesso
completamente depilato, innocente e impudico. Gli
piaceva sentirla fremere e rabbrividire, e gemere come
la femmina di un animale quando le sue dita, le sue
labbra, la sua lingua e il suo membro sollecitavano fino
allo spasimo le parti più sensibili del corpo di lei e
il confine tra il dolore e il piacere diventava qualcosa
di vago, indefinito…e terribilmente eccitante. Venne,
anche quella notte. Venne quando lui le succhiò i
capezzoli con l’ingordigia di un cucciolo affamato,
glieli leccò e glieli morse, mentre i peli ispidi della
barba graffiavano la pelle sensibile delle sue areole.
Venne quando lui tuffò la testa tra le sue gambe e
lambì il suo piacere e il suo miele. Venne quando lui
insinuò le dita forti nel suo varco, stupendosi, come
sempre, di quanto fosse stretto. E ogni volta gemette il
suo piacere e la sua eccitazione in un rantolo rauco che
divenne un urlo quando lui la penetrò e, muovendosi
dentro di lei, fece sì che raggiungessero insieme un
lungo orgasmo che li lasciò esausti e appagati.
Giacquero a lungo in silenzio, madidi
del loro sudore e degli umori dei loro corpi, che le
lucerne accese illuminavano come oro, come avorio
levigato. Chissà se ci sarebbe stata un’altra volta,
si domandò Han Cheng curvandosi su di lui e iniziando a
leccarlo con la sua morbida lingua appuntita. Avrebbe
dato a quel corpo stupendo il piacere che lui aveva dato
al suo, si ripromise, e il cane che giaceva più morto
che vivo nella stanza attigua avrebbe ascoltato ancora i
loro gemiti, i loro rauchi sospiri. E avrebbe sofferto l’inferno
in terra, perché era quello, e quello soltanto, ciò
che meritava.
Maximus. Significava il più grande,
le aveva spiegato lui, nell’antica lingua delle genti
che, un tempo ormai lontano, avevano dominato il mondo,
e quel nome gli si confaceva. Le era piaciuto non appena
l’aveva visto, quell’uomo grande e forte, dai tratti
delicati, dalla morbida barba e i lucenti capelli
castani marezzati d’oro e di rame come una pelliccia
di zibellino,dalle iridi che scintillavano simili a
frammenti di giada tra le palpebre pesanti, frangiate da
lunghe ciglia dorate. Le era piaciuto, anche se era
completamente diverso da lei e dagli uomini della sua
razza.
Aveva amato la dolcezza quasi materna
con cui si era preso cura di lei, la sollecitudine con
la quale aveva fatto sì che potesse riunirsi ai pochi
sopravissuti del suo seguito, il coraggio temerario con
cui era riuscito a recuperare parte del tesoro della sua
dote, che le era stato rubato. Dopo aver sistemato nella
Fortezza lei e i suoi servitori, si era preoccupato di
recarsi a Valencia per procurarle, tramite un gruppo di
mercanti arabi in affari con l’Estremo Oriente, tutto
quel che poteva occorrerle, dal mobilio alle
suppellettili, dagli abiti alle derrate di quella
granaglia biancastra che i Mori avevano iniziato a
coltivare nelle huertas* dell’Andalusia,
chiamavano al arroz**, sapeva di amido e di cera
e costituiva, per i cinesi, la base dell’alimentazione.
Si era sforzata di non amarlo, come
aveva giurato a se stessa che non avrebbe amato mai
nessuno, perché l’amore è una gabbia e lei di sbarre
ne aveva avuto abbastanza fin da bambina. Una prigione,
per quanto dorata e fastosa possa essere, è sempre una
prigione e niente e nessuno avrebbe potuto costringere
il suo spirito tra quattro mura. Aveva sei anni, quando
avevano tentato invano di storpiarle i piedi*** e né
lusinghe né minacce erano state capaci di domarla. Alla
fine, perfino suo padre, quella divinità distante che
ella stessa vedeva pochissime volte, prigioniero del suo
potere e della sua grandezza nei palazzi imperiali di Chang’han****
si era dovuto rassegnare. Han Cheng era una principessa
e poco sarebbe importato della grandezza dei suoi piedi
all’uomo a cui era stata destinata nel momento stesso
in cui era venuta al mondo, Abd Al Rahman, il Califfo di
Cordoba, signore dei limiti occidentali della terra. Gli
Arabi stavano diventando terribilmente potenti, sarebbe
stato impossibile innalzare a difesa dalla loro
ambizione un’altra Muraglia. Meglio la stipula di un’alleanza,
coronata da nozze reali. E il lungo, difficile cammino
di Han Cheng verso la libertà era cominciato.
* terre irrigue della Spagna
mediterranea.
** riso.
*** si fa riferimento all’usanza
invalsa tra i Cinesi, e consueta fino ai tempi della
rivoluzione comunista, di fasciare i piedi alle bambine
per impedir loro di crescere conferendo così alle donne
la tipica andatura saltellante che gli uomini trovavano
particolarmente sensuale.
****L’antica capitale dell’Impero
Tang.
I GIORNI DELLA TEMPESTA E DEL FUOCO (
parte prima)
Il lungo viaggio
Non apparterrò mai a nessun uomo,
sarò mia e soltanto mia. Era il proposito che aveva
giurato a sé stessa di mantenere fin da quando era una
bimba. Neanche a colui al quale le sue mani, le sue
labbra e la sua lingua stavano dando piacere, malgrado
lo avesse amato. E lo amasse ancora.
Sei bellissimo, gli sussurrò in quel
suo idioma che lui non capiva, senza stancarsi di
accarezzare il suo corpo, il petto largo e muscoloso,
coperto da una leggera peluria schiarita dal sole, i
capezzoli sensibili, il ventre, il vello fitto e
ricciuto del pube. I bianchi erano molto più pelosi
degli orientali, si ritrovò a pensare. Più pelosi…E
più grossi. Gli lambì delicatamente la pelle sensibile
delle cosce, il membro esausto e svuotato. La prima
volta, ricordò, aveva avuto paura di lui: le era
sembrato enorme, ed era il suo primo uomo. La prima
volta fa male, le aveva spiegato Qui Chong, la
cortigiana a cui suo padre aveva dato l’incarico di
insegnarle ciò che non sapeva affinché fosse pronta a
diventare una buona moglie per il signore che regnava
sugli estremi limiti occidentali del mondo. Ma il
piacere che verrà dopo diventerà il fulcro della tua
esistenza e pur di averlo daresti qualsiasi cosa. Anche
la tua libertà. Anche la tua vita.
Qui Chong era più alta di lei e d’una
decina di anni più vecchia. Aveva un viso gradevole, ma
lo sguardo sfuggente di chi mente per mancanza di
coraggio, e minuscoli piedini storpiati che le
impedivano di muovere più di qualche passo senza
stancarsi. Era morta a metà del loro lungo viaggio
perché, allevata per il piacere e non per la fatica fin
dalla più tenera età, si era ammalata strada facendo .
Han Cheng non ricordava d’averla pianta, quando le
avevano scavato la tomba ai margini del deserto, in
Mongolia occidentale. Non per lei, poveretta. Per quel
che era e rappresentava ai suoi occhi, una prigioniera
che non abbandonerebbe il suo carcere nemmeno trovando
spalancata la porta della cella e le sentinelle
tramortite.
Consuetudine. Diffidenza. Chiusura
mentale. Paura. Era quella la prigione in cui il suo
popolo, dall’Imperatore all’ultimo degli schiavi
aveva scelto volontariamente di rinchiudersi. Nel
timore, era assurdo ma era proprio così, più dei
cambiamenti che di possibili invasioni da parte di
popoli barbari e stranieri. Per difendersi da quelle,
bastavano i contrafforti della Muraglia, il valore dei
soldati e dei loro ufficiali…E i matrimoni stipulati
per sancire alleanze, come quello che l’avrebbe legata
a uno sconosciuto che non apparteneva neppure alla sua
razza, Abd Al Rahman, califfo di Cordoba, signore degli
estremi limiti occidentali del mondo.
Il viaggio, per mare e per terra, era
durato oltre due anni. Duecento soldati armati al
comando di suo fratello, il principe An’g Li*,
scortavano la promessa sposa e l’inestimabile tesoro
della sua dote. Cinquanta tra ancelle e domestici la
seguivano per servirla. Carri, cavalli e cammelli
mongoli trasportavano uomini, masserizie e vettovaglie.
Di tutti quegli uomini, cinque soltanto erano
sopravvissuti e dividevano adesso con lei gli
alloggiamenti della Fortezza, dopo aver diviso
drammatiche avventure: Kai Ge, il vecchio saggio, Shuy
Himou, la governante, una giovane cameriera con cui Han
Cheng, da bambina, aveva giocato, e due eunuchi
addestrati all’uso delle armi e alla micidiale lotta
con mani e piedi. Gli altri erano diventati tutti ossa e
polvere, anche An’g Li, l’amato fratello.
Non sai niente di come sono andate in
realtà le cose perché non ti ho raccontato la verità
come tu invece mi raccontasti la tua, quando il cavallo
che montavi s’imbizzarrì mentre cavalcavamo nel bosco
e lo spuntone di un ramo ti trafisse il braccio da parte
a parte. Eravamo amanti ormai da alcuni anni, e mai
avrei sospettato che tu fossi quello che eri. Mi
raccontasti tutto di te, e ti dileguasti ai miei occhi
fino al giorno in cui hai portato qui il cane dei
Franchi ferito perché lo curassimo. Temevi forse che
provassi orrore per te. Ti dileguasti come se la nebbia
che avvolge le cime di queste montagne ti avesse
inghiottito, eppure continuasti a occuparti delle nostre
necessità senza che io ti vedessi una volta soltanto.
No, non ho provato orrore per quel che sei un attimo
soltanto, Maximus, quando ho visto la ferita chiudersi
quasi subito e ho saputo che stavi al mondo da seicento
anni per opera di magia e che né vecchiaia, né
malattie né morte potevano niente contro di te. L’uomo
più retto, coraggioso e gentile con cui abbia mai
incrociato lo sguardo non sarebbe stato degno di
sentimenti tanto malevoli. Chiunque e qualsiasi cosa
egli fosse.
Perché, Maximus? Dimmelo adesso, gli
aveva chiesto mentre lui le accarezzava i capelli con la
grande mano callosa e lei non riusciva a staccare gli
occhi dallo strappo sulla manica della sua tunica
chiazzata di sangue, dalla pelle del suo braccio,
intatta laddove poco prima si apriva un’orribile
ferita. E lui le aveva raccontato di un grande
imperatore e del più valoroso dei suoi generali, di un
principe malvagio e di una principessa innamorata, di
giorni impregnati di lacrime e sangue, di notti popolate
da incubi spaventosi. Le cicatrici che ho sul corpo, le
aveva detto, risalgono all’altra vita. Certe sono
ferite di guerra. Altre…Ero diventato uno schiavo
costretto a lottare a morte contro altri schiavi per il
divertimento della plebaglia e di un sovrano pazzo,
malvagio e parricida, il mandante dell’assassinio di
mia moglie e mio figlio…Un singhiozzo gli aveva chiuso
la gola. Un singhiozzo che non poteva sciogliersi in
lacrime, perché agli Immortali non era dato di poter
piangere.
*Questo personaggio compare nell’”Orlando
Innamorato” di Matteo Maria Boiardo con il nome di
Argalia che ho, come quello di Angelica, “cinesizzato”
per questioni di coerenza narrativa.
I GIORNI DELLA TEMPESTA E DEL FUOCO
(parte seconda)
La prigioniera
Han Cheng si addormentò
raggomitolata contro il petto di Maximus . E sognò i
segreti che non aveva voluto rivelargli, mentre il cielo
della notte, gravido di nubi temporalesche, era
squarciato dalla luce dei lampi e il rimbombare cupo del
tuono squassava la valle e le vette innevate delle
montagne.
Il viaggio era stato lungo e talmente
faticoso da essere costato la vita a diversi membri del
seguito. Ma i molti popoli incontrati sulla loro strada,
cinesi, mongoli, persiani, sarmati e slavi, non si erano
dimostrati ostili nei loro riguardi e li avevano
lasciati in pace. Il Figlio del Cielo* era conosciuto e
rispettato ovunque, si diceva, e quella era la prova
tangibile che non si trattava di bugie.
Giunti a Bisanzio, avevano venduto le
bestie sopravissute al viaggio e si erano imbarcati su
alcune galee veneziane dirette in Spagna. Il viaggio per
mare sarebbe stato abbastanza lungo da consentire ad Han
Cheng di studiare un piano ben congegnato per
guadagnare, in quella terra lontana, non un marito di
nobile sangue e dal volto sconosciuto che l’avrebbe
relegata come una prigioniera e trattata come un
lussuoso oggetto, ma quel che sognava dacché stava al
mondo: la libertà.
Poi, era accaduto l’imprevisto: la
nave che doveva portarli a Valencia aveva attraccato a
Narbona, in territorio franco. Nessuno aveva mai capito
se si fosse trattato di un errore o di un’azione
intenzionale, dato che, in quel periodo, era guerra tra
Re Carlo e il Califfo di Cordoba, una contesa aspra,
come sempre lo sono quelle che affondano nelle
diversità razziali e religiose le loro radici. Quasi
tutti gli uomini della scorta erano stati massacrati, il
tesoro della dote saccheggiato e rubato, i pochi
superstiti presi prigionieri.
Prigionieri, già. Anche se quegli
uomini rudi, dalle gran barbe e dai lunghi capelli
chiari volevano dar loro a intendere che i principi del
Catai, Angelica e Argalia (che stupida mania avevano,
gli uomini bianchi, di storpiare i loro nomi e quello
della terra dov’erano nati, che era Chung Kuo,
e non Catai!) fossero ospiti del loro signore. Da che il
mondo è mondo non si è mai visto un ospite tenuto
sottochiave e sorvegliato da guardie armate. Re Carlo,
un uomo ancor giovane, dalle spalle larghe e dai fluenti
capelli fulvi, aveva affidato a un suo vassallo la
custodia della principessa, perché niente e nessuno
potesse ledere il suo onore, così diceva. Namo,
marchese d’Aquitania**, era un vecchio scorbutico che
amava soltanto i suoi cani e non avrebbe sprecato il suo
tempo e le sue risorse fisiche e mentali per fare il
cascamorto alla splendida, giovane dama giunta dal
lontano Oriente. Lui no, anche perché l’età aveva
spento i suoi bollori. Ma gli altri…Quasi tutti
avevano moglie e figli, eppure poco doveva
importargliene. Minuta e delicata come una statuetta
intagliata nell’avorio, i capelli corvini sempre
puliti, profumati e raccolti in complicate acconciature,
una meravigliosa pelle bianchissima, la figura elegante
e gli occhi obliqui che mandavano lampi, la principessa
del Catai non aveva niente a che vedere con le loro
grosse, bionde, lentigginose e sciatte donne. Erano
stati in molti a perdere la testa per lei. E Orlando,
conte d’Anglante e di Blaye, paladino del Regno Franco
e cugino del sovrano, più di tutti quanti gli altri.
“La donna del Catai sarà il premio
al tuo valore in battaglia” aveva promesso Re Carlo al
più ardimentoso dei suoi generali, e lei aveva udito
tutto quanto.
La distanza cambia i connotati degli
esseri umani, ma evidentemente non quello che hanno
nella testa, aveva pensato Han Cheng mordendosi la
bocca. Orlando era un uomo alto, magro e forte, nel
fiore dell’età. Portava i capelli, che erano bruni e
ricci, raccolti sulla nuca con un laccio di cuoio, aveva
una lunga cicatrice che gli attraversava la faccia dall’angolo
esterno dell’occhio sinistro fino alla commessura
delle labbra e poco tempo per darsi una sistemata alla
barba fitta e incolta, che cominciava a crescergli
appena sotto gli zigomi. Le ricordava un vecchio lupo
cacciato dal branco, sempre affamato, circospetto e
feroce. Si diceva che fosse abilissimo nell’uso delle
armi, che avesse una moglie segregata in uno dei suoi
castelli e quattro figli in tenera età. Han Cheng si
era sentita spesso bruciare addosso i suoi occhi di
brace e aveva giurato a se stessa che si sarebbe
ammazzata, piuttosto che lasciarsi toccare da un
individuo come quello.
Quando s’era accorto che la
principessa del Catai parlava l’arabo, il marchese d’Aquitania
le aveva messo alle calcagna una sua vecchia schiava
saracena, Zubeida, che era guercia da un occhio e più
brutta della fame. Ho conosciuto questi e anche la mia
gente, ragazza cara, le diceva. Sputava fiele ogni volta
che parlava, ma in vita sua doveva averne passate tante
e questo giustificava la sua acredine. Sì, i Mori
tenevano le loro donne segregate in casa e le
obbligavano a coprirsi con lunghi veli quando erano
costrette a mostrarsi in pubblico, cosa che i Cristiani
non facevano. Ma tra i Franchi era invalsa la
consuetudine di caricarle di busse a ogni minima
mancanza, di trattarle alla stregua d’ una merce e di
non farsi scrupolo alcuno a tradirle. Il vecchio Namo,
nei suoi anni migliori, aveva mantenuto un’amante
sotto lo stesso tetto della moglie e obbligato anche
lei, la sua serva, a soggiacergli al pari di una
prostituta. Re Carlo non aveva esitato a ripudiare la
moglie Ermengarda appena l’alleanza con i Longobardi
non aveva avuto più ragion d’essere e, soprattutto,
appena aveva avuto modo di conoscere la giovanissima
Hildegarde, che di quell’altra era assai più
graziosa. Suo nonno, Carlo Martello, il generale che
aveva fermato l’avanzata degli Arabi a Poitiers e
covava disegni ambiziosi nei riguardi del figlio Pipino,
aveva pagato fior di quattrini al conte di Laon perché
sua figlia, una bella ragazzona sana e vigorosa di nome
Berta, sposasse il suo rampollo, giovanotto intelligente
e ambizioso ma dall’aspetto tanto meschino da essere
soprannominato “il Breve”, onde rinvigorire il
sangue di una progenie destinata a regnare.
Gli uomini son tutti uguali, aveva
concluso la vecchia scotendo la testa e Han Cheng aveva
assentito. Possono gettarti via appena nata, storpiarti
i piedi per impedirti di andare lontano, costringerti a
nasconderti sotto pesanti veli, picchiarti, tradirti,
scacciarti…”Dovevamo nascere uomini, ragazza mia.
Però i disegni di Allah erano altri, e non si po’
andare contro la volontà del Misericordioso.”
Ma Han Cheng di una cosa era sicura:
non avrebbe accettato passivamente il suo destino, si
chiamasse Orlando o Abd Al Rahman o in qualunque altra
maniera.
* titolo di cui si fregiava l’Imperatore
della Cina.
**nei poemi cavallereschi questo
personaggio è designato come duca di Baviera. Ho
cambiato il suo titolo e la sua signoria per le solite
questioni di coerenza narrativa.
I GIORNI DELLA TEMPESTA E DEL FUOCO
(parte terza)
La fuga
Maximus stava uscendo da lei dopo le
terza volta in quella notte, ed Han Cheng sospirò.
Chissà se il cane franco, che dormiva istupidito dal
succo di papavero nella stanzetta adiacente, aveva
sentito i rumori della loro passione e sofferto lo
strazio che gli aveva augurato per anni. Perché se An’g
Li, il suo adorato fratello gemello, era morto, era
stato a causa sua. Ed era giusto che Orlando soffrisse e
pagasse, per quel che aveva fatto ad entrambi.
-Non hai nostalgia della tua terra,
qualche volta?
Le aveva chiesto Maximus, tanto tempo
prima. Han Cheng aveva chiuso gli occhi ed evocato con
la forza del ricordo le montagne innevate e le foreste
rigogliose, i fiumi possenti dalle acque torbide che
attraversavano fertili pianure, i bufali che ruminavano
nelle risaie, le città fervide di vita e di lavoro, le
giunche* nei canali, i palazzi dorati di Chang’han.
Nostalgia? No. Come posso provare nostalgia…di una
prigione?
Quando Orlando le aveva afferrato il
braccio e sibilato tra i denti un “Sarai mia” che le
aveva gelato il sangue, la donna si era resa conto che
il tempo stringeva. Anche perché era autunno inoltrato
e l’inverno avrebbe complicato terribilmente i suoi
piani di fuga.
-Se andrai a nord costeggiando le
montagne, potrai trovare le terre di Al Khalid,
il signore che controlla il passo di Roncisvalle-le
aveva detto Zubeida- E’ un uomo generoso, sempre
disposto ad aiutare chi si trovi in difficoltà, com’era
capitato a mio padre dopo la disfatta di Poitiers.
Ammesso che sia ancora vivo, perché dovrebbe essere
molto vecchio, se così fosse. Ma se lui è morto, l’erede
dei suoi beni e soprattutto dei suoi insegnamenti,
dovrebbe darti ugualmente l’aiuto di cui hai bisogno.
-Si tratta di un Saraceno?
-No. La mia gente lo chiama così, ma
lui dovrebbe essere di sangue basco. I Baschi
commerciano con gli Arabi e odiano i Franchi. Sono un
popolo selvaggio, indipendente e fiero. E il loro
signore era un guerriero audace, astuto e possente. Con
lui saresti al sicuro da quell’immondo maiale di
Orlando. E anche dallo sposo che non vuoi.
Zubeida continuò a parlare senza che
Han Cheng l’ascoltasse più. Certo, sarebbe potuta
fuggire,magari portandosi appresso suo fratello, ma come
eludere la continua, occhiuta sorveglianza del vecchio
marchese Namo? Come fare in modo che i superstiti della
sua piccola corte potessero seguirla? Non era neppure
pensabile abbandonarli lì, esposti alle possibili
rappresaglie dei carcerieri che aveva eluso.
Ma il destino non le fu nemico, in
quella circostanza. Agli inizi di ottobre, Namo d’Aquitania
fu colto da un’apoplessia che non lo uccise ma lo
lasciò paralizzato e incapace di articolare parola. E
pochi giorni prima era giunta a Tolosa una carovana di
mercanti bizantini che dovevano recarsi a Bayonne. A due
passi dalle terre di Al Khalid. Curioso,
pensò la donna. In arabo, quel nome significava
Immortale.
I mercanti , ben equipaggiati,
scortati e capeggiati da un certo Aristobulo, dietro
pagamento di una cospicua somma, avevano accettato di
accompagnare fino a Bayonne, alla frontiera del
territorio basco, i servitori di Han Cheng. Per
prudenza, sarebbe avvenuto tutto di nascosto, ma gli
uomini di re Carlo, che stava cercando d’intrecciare
un’alleanza con la basilissa Irene**,
non avrebbero di certo perquisito i carri dei Greci alla
loro ricerca rischiando l’incidente diplomatico,
qualora avessero scoperto la fuga dei Cinesi. Han Cheng
e suo fratello, per raggiungere più in fretta il Passo,
si sarebbero invece allontanati a cavallo. E così fu.
Han Cheng era abituata fin dalla più
tenera età a cavalcare come un uomo invece che seduta
di traverso sulla sella com’erano solite fare le
donne. E cavalcava anche meglio di parecchi uomini, il
che permise ai due di garantirsi un cospicuo vantaggio
su coloro che, una volta scoperta la fuga, si erano
lanciati all’inseguimento.
Ma Orlando, conte d’Anglante e di
Blaye, suo cugino Rinaldo di Mont-Auban e Astolfo,
marchese di Bretagna montavano destrieri veloci come il
vento e la muta dei loro limieri erano in grado di
seguire piste vecchie di giorni. Li scovarono dopo
sette, in una boscaglia a poche miglia da Bayonne. E li
catturarono.
Li rinchiusero, perché non
fuggissero ancora, dentro il capanno abbandonato di un
carbonaio, che, a turno, sorvegliavano, mentre gli altri
pattugliavano i dintorni. In quella zona spesso erano
stati avvistati soldati mori in avanscoperta ed era il
caso di premunirsi. Non meno pericolosi dei lupi che
infestavano quei boschi erano poi i briganti guasconi,
che si dicevano cristiani eppure, in odio ai Franchi,
avevano fatto lega con i Saraceni infedeli.
-Ti riporterò indietro, dovesse
essere l’ultima cosa che farò. Ma prima…
Han Cheng aveva capito a malapena il
senso delle parole che Orlando, conte d’Anglante e di
Blaye, aveva pronunciato senza staccarle gli occhi di
dosso. Ma le intenzioni le aveva capite alla perfezione,
prima che con una mano le afferrasse i capelli e con l’altra
le lacerasse i vestiti.
-Tu sarai mia.
Han Cheng urlò, pur sapendo che a
nulla sarebbe servito. Suo fratello tentò di difenderla
ma fu colto di sorpresa prima di poter mettere a segno
qualcuno dei colpi della micidiale lotta con mani e
piedi che trasformava in armi letali gli esili corpi dei
Figli del Cielo. Un pugno sferrato con estrema violenza
lo mandò a cadere rovinosamente a terra. E la donna
vide con orrore i suoi occhi rovesciarsi all’indietro,
il sangue fluire copioso dalle labbra semiaperte e dalle
narici. Il conte Orlando aveva ucciso il suo amato
fratello An’g Li.
Un pensiero rapido come folgore le
attraversò il cervello. Farò la sua stessa fine, prima
di lasciarmi prendere da lui. Avrebbe resistito. A costo
di lasciarsi uccidere.
Ma fu Orlando a dover desistere.
Astolfo di Bretagna e Rinaldo di Mont-Auban gli furono
addosso e lo stesero a suon di pugni.
-Sei impazzito? Disonorando la
principessa del Catai ti saresti macchiato
irrimediabilmente di fellonia agli occhi di Dio, del tuo
popolo e del tuo sovrano.
-E perché…hai ucciso suo fratello?
Sì, il desiderio per quella donna
giunta dai limiti estremi del mondo a tormentare il suo
corpo, la sua anima e i suoi sogni,di quella creatura
della notte, di quella figlia del demonio, l’aveva
reso pazzo. La testa gli ciondolava sulla spalla e li
fissava con occhi folli mentre lo legavano alla sella
del suo cavallo, lo sguardo ebete, un filo di bava mista
a sangue che gli colava dalla bocca semiaperta.
-E voi… andatevene. Andatevene
lontano da qui, prima che sia troppo tardi.
Astolfo di Bretagna, rivolgendosi a
lei in un discreto arabo, le aveva porto il mantello
foderato in pelo di volpe. Il suo volto dai tratti
puntiti, gli occhi verdi e i capelli rossi facevano
sembrare una volpe anche lui.
-Vostro fratello si è dimostrato
coraggioso. Avrà onorata sepoltura in questa terra che
non ha saputo ospitarlo degnamente. Ve lo prometto sulla
mia spada e sul mio onore…Angelica.
* Case barca del pescatori cinesi
** Si tratta (come nel caso del
califfo Abd Al Rahman) di un personaggio realmente
esistito. Vedova dell’imperatore d’Oriente Leone IV,
assunse alla sua morte la reggenza, nell’attesa che l’
erede al trono Costantino raggiungesse la maggiore età.
Una volta che questo accadde, rifiutò di cedere i
poteri al figlio e l’Impero fu funestato da crudeli
lotte dinastiche e religiose.
I GIORNI DELLA TEMPESTA E DEL FUOCO
(parte quarta)
Tra i pastori
Libera inaspettatamente e con il
cuore pesante d’odio e di dolore per ciò che era
stato del povero An’g Li, Han Cheng aveva trovato
rifugio ed accoglienza presso alcuni pastori che
vivevano in quei paraggi. Baschi dalle lunghe barbe
incolte, che si difendevano dal freddo coprendosi con
zimarre di pelli puzzolenti e dormivano negli stazzi
abbracciati ai loro cani, gigantesche bestie dal pelo
candido che le ricordavano i feroci mastini dei
mandriani del Tibet e le mettevano paura quando
abbaiavano con voce cavernosa per tenere lontani dal
villaggio gli orsi e i lupi.
Nella famiglia che l’aveva accolta
c’erano un vecchio semicieco, un gigante dal volto
barbuto, sua moglie e una nidiata di bambini dai grandi
occhi scuri. La donna era un’araba grassa e remissiva
di nome Soraya e le piaceva chiacchierare con la
principessa giunta da lontano, mentre preparava la loro
magra cena o allattava l’ultimo nato. E Han Cheng non
chiedeva di meglio che poter dividere con qualcuno che
la capisse il peso che aveva sul cuore.
E’ molto lontano da qui il passo di
Roncisvalle ?Aveva chiesto una volta e Soraya glielo
aveva indicato con la mano. No, non distava molto, ma
nella brutta stagione la nebbia lo nascondeva e il
ghiaccio e la neve lo rendevano insidioso. C’erano un’antica
fortezza disabitata, in quei paraggi, e la rocca del
signore del luogo, che i suoi conterranei chiamavano Al
Khalid e i baschi come suo marito Hilezkor.
Immortale.
Le scure labbra pendule avevano
tremato, mentre pronunciava quella parola. Dicono sia un
jinn*. Un demone vomitato dall’aldilà e dal
passato. Dicono che nelle notti di luna piena si
trasformi in lupo e che né spada né veleno né
vecchiaia né malattia possano nulla contro di lui. Ma
il Profeta ha condannato la superstizione come peccato.
L’hai incontrato, qualche volta? Sì, ma ho distolto
subito gli occhi da lui, come comanda la creanza. E’
un infedele, dai lunghi capelli e dagli occhi chiari. Un
uomo possente, un guerriero.
Han Cheng aveva esitato un po’ a
raccontare a quella donna gentile tutta la sua storia:
le esperienze passate le avevano insegnato a diffidare.
Quel posto le era sembrato tranquillo, quella gente
buona e ospitale. Ma Orlando sarebbe potuto tornare a
cercarla, non era la prima volta che i pastori
avvistavano uomini armati sulle colline e non di
trattava sempre di guerrieri mori dalle larghe
scimitarre, i volti sottili incorniciati dai cappucci di
maglia d’acciaio e gli elmi a cupola sormontati della
mezzaluna del Profeta. Non era un mistero che Re Carlo
volesse estendere anche su quelle terre la sua podestà.
E non era un mistero che il cavaliere catafratto** che
un pastorello aveva avvistato nel bosco potesse essere
un guerriero franco, forse addirittura lo stesso
Orlando.
-Verrà a cercarmi, lo so. Non appena
potrà lo farà.
-E voi aspettatelo, Signora. Gli
uomini sono creature semplici, in fondo. Dacché esiste
il mondo, noi donne abbiamo imparato ad ingannarli. Se
gli farete in qualche modo credere che appartenete a un
altro…è sicuro che vi lascerà in pace.
-Ma dovrei parlargli…E non voglio
neppure vederlo.
Da ragazza, Soraya era abituata ad un’altra
vita. Figlia di un facoltoso mercante, era stata
promessa in sposa a suo cugino ma, prima che il
matrimonio fosse celebrato, era caduta prigioniera dei
soldati franchi. Riscattata da quello che poi sarebbe
divenuto suo marito, non rimpiangeva niente di ciò che
aveva dovuto lasciare. Forse i libri che raccontavano
storie, visto che sapeva leggere e scrivere. Ma i libri
costavano e, anche potendoseli permettere, non avrebbe
avuto il tempo di dedicarsi alla lettura.
-Ingannatelo, Signora. Recatevi a una
fonte che non dista troppo da qui: i cavalieri che
passano da queste parti, Saraceni, Franchi e Guasconi,
sono soliti abbeverarci i loro cavalli e rinfrescarsi il
volto e le mani. Ci sono rocce che si incidono con
facilità, tutt’intorno…Scrivete qualcosa che gli
ricordi voi…E poi qualcosa che possa fargli credere
con certezza…che appartenete a un altro.
Forse il conte Orlando, come molti
gentiluomini franchi, come lo stesso Re, non era neppure
in grado di leggere, ma la donna sapeva per certo che
conosceva il suo monogramma. Nel caso, si sarebbe
incuriosito e avrebbe chiesto a qualcuno di farlo al suo
posto. Ad Han Cheng, promessa fin da bambina al Califfo
di Cordoba, era stato insegnato a parlare e a scrivere l’arabo
e fu in quella lingua che incise le parole che avrebbero
dovuto non solo disingannare, ma anche ferire il conte d’Anglante
e di Blaye.
“ Ti ho tenuta nuda tra le braccia.
Ho assaporato le fragole scure dei tuoi seni, Han Cheng,
mia amata. Ho lambito il tuo miele di donna, penetrato
il tuo calore…”
Non era mai appartenuta a un uomo, ma
era stata debitamente istruita a proposito di quel che
succede tra due amanti e non aveva dubbio alcuno che
quelle parole sarebbero penetrate come aghi infuocati
nell’anima di colui che tanto odiava. Che nome, che
identità dare a quell’essere fittizio? Un’identità
saracena, questo era fuori da ogni minimo dubbio.
Qualche giorno prima, Soraya le aveva raccontato di un
suo fratellino morto piccolo. Si chiamava Mohamed Hor.
Se dovessero chiedervi di lui,
inventate qualsiasi storia. Dite che la sua bellezza e
il suo animo gentile hanno colpito il mio cuore. Che
sono fuggita con lui. Che ci stiamo dirigendo verso
Oriente.
* spirito maligno
** cavaliere rivestita da una
pesante armatura.
MOHAMED HOR
Il ringhio sordo di uno dei grossi
cani che la seguivano la fece voltare, prima ancora che
Orlando, conte d’Anglante e di Blaye l’afferrasse
per un braccio e le sibilasse, in un arabo stentato, “E’
lui…Mohamed Hor?”
Era magro, pallido, con la barba
incolta e gli occhi stravolti. Se era guarito, non lo
doveva a qualche miracolo, come credeva, bensì alla
scienza di Kai Ge. Lo avessero lasciato morire, lui e
Maximus, maledetta fosse la loro generosità. Se ne
sarebbe andato. Stava per andarsene. Ma sarebbe tornato.
Presto. A portare in quella valle scompiglio,
distruzione e morte.
-Mohamed Hor non è mai esistito: me
lo sono inventato perché mi lasciaste in pace una volta
per sempre…Signore.
Han Cheng aveva riso. Mohamed Hor e
il Signore della Rocca che guardava il Passo, colui che
i Saraceni chiamavano Al Khalid e i baschi
Hilezkor non erano la stessa persona. Del resto,
per chi avesse qualche conoscenza delle cose di mondo,
non sarebbe stato difficile appurare che quell’uomo
chiaro di capelli, d’occhi e di carnagione non poteva
essere un Arabo. Ma che fosse l’amante della donna era
fuori da ogni ragionevole dubbio…E questo gli rodeva
il cuore.
Era maledettamente bella, Angelica,
quando rovesciava la testa all’indietro e rideva.
Bella da dannare l’anima e portare un uomo alla
pazzia. Com’era accaduto a lui.
I cani le trotterellavano a fianco,
voltandosi di tanto in tanto a guardarla con i loro
nostalgici occhi ambrati. Erano coperti da un pelame
candido e folto e portavano pesanti collari irti di
punte. Il maschio, gli aveva detto Maximus, si chiamava
Draco. La femmina, Puella*. Nomi latini. Il latino era l’antica
lingua del popolo che aveva dominato il mondo, le aveva
spiegato ben prima di dirle che di quel mondo splendido
e crudele anche lui aveva fatto parte. Nel bene e nel
male.
Han Cheng non aveva mai amato
particolarmente i cani. La sua gente li mangiava e
quelli che venivano tenuti per la caccia, la guardia e
la guerra erano talmente grossi e feroci da incutere
terrore. Maximus, invece, li amava e si dimostrava
orgoglioso di loro, quando ne parlava, neanche si fosse
trattato dei suoi figli. I miei cani, le aveva
raccontato, possono saltare alla gola e uccidere un
uomo. Anzi, forti come sono, potrebbero abbattere un
bue. Orsi, lupi e briganti non osano avvicinarsi ai
luoghi dove questi colossi al mantello candido montano
la guardia. Ma non sono feroci senza ragione, perché
sanno per istinto di chi possono fidarsi. E poi…I cani
di questa razza vengono addestrati a portare soccorso ai
viandanti che, d’inverno, finiscono sepolti sotto la
neve rischiando di morire assiderati. Proprio com’è
accaduto a te.
Già, com’era accaduto a lei
quando, per l’ennesima volta, era fuggita. Nel bosco
erano stati rinvenuti i cadaveri di due giovani
guerrieri mori. Avevano il petto trafitto dalle frecce
rosse degli arcieri di Orlando, conte d’Anglante e di
Blaye. Se il suo persecutore si trovava nelle vicinanze,
anche la vita dei suoi amici era in pericolo. Doveva
fuggire, e farlo di nascosto, perché era novembre
inoltrato, e non l’avrebbero lasciata andare. “Che
male possono fare a noi poveretti?” era solita dirle
Soraya con un mezzo sorriso ” Derubarci? E di che cosa
se non possediamo nemmeno la polvere che imbratta i
nostri piedi?” Lei aveva stipato i suoi pochi averi in
una bisaccia, rubato un bastone e una zimarra di pelo e
all’alba, mentre tutti dormivano, se n’era andata.
Il freddo e la solitudine non le
avevano fatto apprezzare la libertà che aveva
conquistato. Aveva trascorso due notti nei capanni
abbandonati che i pastori utilizzavano al tempo della
transumanza, e gli urli dei lupi erano talmente vicini
da agghiacciarle il sangue. Chissà, si era domandata,
se i suoi amici l’avevano cercata. Prima di andarsene,
accanto al pagliericcio dove Soraya dormiva abbracciata
ai suoi figlioletti, aveva lasciato il prezioso, pesante
e pacchiano bracciale franco con cui il conte Orlando
aveva creduto di poter comprare il suo amore.
I cani che l’avevano ritrovata
mentre giaceva svenuta nella neve non erano quelli che
adesso le trotterellavano accanto, anche se portavano i
loro stessi nomi. Queste creature vivono troppo tempo in
meno di noi, e la crudeltà della natura ci costringe a
vederli morire. Più sono grossi, poi, e più in fretta
invecchiano e decadono. Un brivido aveva rotto la voce
profonda di Maximus, riempito delle lacrime che non
poteva piangere le sue parole. I nostri fedeli compagni
non meritano questo destino, ma saremmo sicuramente più
poveri se non potessimo averli con noi.
Quante cose aveva fatto per lei quell’uomo
splendido e generoso, il cui bel volto era stata la
prima cosa che aveva visto quando era ritornata a
vivere? L’aveva nascosta e protetta, ricongiunta ai
suoi servi, risarcita di quel che le era stato portato
via. Le aveva insegnato l’amore e non aveva esitato a
raccontarle tutto di sé: anche se sapeva che farlo
avrebbe significato quasi sicuramente perderla.
Sapeva che avrebbe dovuto lasciarla,
quando la donna fosse giunta a conoscere la verità.
Anche con il cuore a pezzi. Non poteva pretendere che
vivesse un’esistenza normale accanto a un fantasma, a
un non morto che avrebbe avuto, finché fosse sorto il
sole sul mondo, i trentatre anni di quando era stato
ammazzato, mentre lei…Peste, ferro, fuoco, disgrazia o
veleno avrebbero potuto portargliela via in qualunque
momento, e anche se fosse vissuta a lungo…Sarebbe
stato costretto a guardarla decadere e poi morire senza
poter far nulla, come i suoi cani e i suoi cavalli? E
poi…Tutte le donne desiderano avere dei figli. E a lui
era misericordiosamente negato il dolore di sopravvivere
a un figlio generato con una donna mortale. Hai mai
incontrato qualcuna che fosse come te? Gli aveva
domandato Han Cheng. Lui aveva accennato di sì con la
testa. Era una maga. Una creatura profondamente
malvagia.**
Non sperava di poterla ritrovare. Per
giacere tra le sue braccia dimenticando chi fosse, per
dargli e ricevere piacere, come la prima volta. Era
vergine, ricordò. Eppure, aveva saputo soddisfarlo con
la consumata abilità di un’etera e tutto il fuoco di
un’amante appassionata. Suo padre aveva preteso che
una cortigiana le insegnasse l’arte di amare, perché
l’uomo a cui era stata destinata non avesse di che
lamentarsi: Abd Al Rahman, il Califfo di Cordoba. Dal
primo momento in cui l’aveva vista, svenuta e mezza
assiderata, aveva saputo chi era. Al Califfo era stata
promessa in moglie una principessa proveniente dal Paese
della Seta. Lui, in questa e nell’altra vita aveva
già visto i corpi minuti, la pelle diafana e le iridi d’ossidiana
scintillanti tra i lunghi tagli obliqui degli occhi di
quella gente. E aveva intuito come Han Cheng fosse in
fuga dal suo destino.
-Tu sai perché il cavaliere franco,
prima di andarsene, mi ha chiesto se il mio nome fosse…Mohamed
Hor?
Sul mio conto non ti ho raccontato la
verità per intero, gli aveva risposto lei. Quando mi
hai trovata ai piedi del passo più morta che viva ero
in fuga dal mio destino. Dalle nozze con qualcuno che
neppure conoscevo, sì…Ma anche da quell’uomo. Da
lui, soprattutto. Con i pochi superstiti della mia
scorta, ero caduta prigioniera dei Franchi. E lui, il
cui nome è Orlando, conte d’Anglante e di Blaye, si
era incapricciato di me. Mi voleva ad ogni costo. Il suo
re gli promise che mi avrebbe avuta se si fosse battuto
valorosamente contro gli infedeli. Neanche fossi stata
una cavalla o una schiava, invece di ciò che sono.
Così fuggii dal vecchio gentiluomo a cui mi avevano
affidata in custodia. Ma lui mi inseguì, mi catturò…Tentò
di stuprarmi e uccise mio fratello che aveva cercato di
difendermi. Trovai rifugio presso alcuni pastori e fu
una delle loro donne a suggerirmi di incidere su una
roccia presso una sorgente frasi d’amore che l’avrebbero
indotto a credere che appartenevo a un altro. Così te
lo toglierai da torno, mi aveva detto. Mohamed Hor…Me
lo sono inventato. Anzi, era il fratellino di quella
donna, ed è morto in fasce.
Maximus se la strinse al petto.
Allora è per questo, le chiese, che hai voluto ad ogni
costo fare l’amore con me nel cubicolo adiacente alla
stanza dove l’avevamo ricoverato…Perché sentisse
tutto e le grida e i gemiti della nostra passione
fossero lame roventi cacciate fino all’impugnatura
dentro il suo cuore? Credevo che mi amassi…M’ingannavo,
Han Cheng?
-No, Maximus. Chiunque tu sia,
qualsiasi cosa possa nascondersi nel tuo passato, non ho
mai conosciuto un uomo più buono, onesto, retto e
generoso di te. Io…Io ringrazio ogni giorno la vita d’aver
permesso alle nostre strade di incrociarsi. Perché…perché
ti amo, Maximus: adesso e per sempre.
Lui le sollevò il mento,
costringendola a guardarlo in faccia. E i suoi
scintillanti, impenetrabili occhi neri non mentivano.
* In latino, rispettivamente Drago
e Ragazza.
** Chi fosse curioso di saperne di
più, può leggere il mio racconto “Gli Immortali”.
MALA TEMPORA CURRUNT
Versante spagnolo dei Pirenei, Anno
Domini 778, inverno inoltrato
Han Cheng guardò l’uomo
addormentato accanto a lei. Avrebbe voluto accarezzargli
la guancia barbuta, ma si trattenne. Aveva passato una
brutta notte, e non voleva svegliarlo. Non era la prima
volta che i suoi incubi non gli permettevano di dormire
e avevano svegliato anche lei, lasciandole intuire
frammenti di quel lontano passato durante il quale era
stato un grande generale al servizio del più potente
sovrano della terra, per poi cadere in disgrazia alla
sua morte e finire schiavo.
Le cicatrici lo testimoniavano:
quelle, e il marchio impresso sotto la scapola destra
con un ferro rovente. Chi e che cosa ti hanno perduto,
Maximus? E chi ha riportato la tua anima indietro dall’aldilà?
Gliel’aveva domandato, tanto tempo prima, con un tono
e uno sguardo che non si sarebbe aspettato. In molti lo
avevano fuggito, una volta saputa per certa quella
verità che sembrava una menzogna. Ma non lei: in quegli
stretti occhi color della notte, l’Immortale aveva
letto solamente pena e tenerezza. Non poteva condannare
quella donna all’infelicità…Ed era uscito dalla sua
vita, ne era rimasto fuori per alcuni anni, per poi
ricomparire quando avevano portato il Conte Orlando da
Kai Ge perché lo curasse.
Che cosa mi ha perduto? L’onestà,
Han Cheng. Il senso dell’onore e del dovere.
Quello che gli faceva portare
rispetto per chiunque avesse in sé vita e respiro,
compresi gli animali? Compresa lei, che il caso aveva
condotto lì da mondi lontanissimi e che tutti gli
altri, compresi coloro nelle cui vene scorreva il suo
stesso sangue, avevano considerato solo un bell’oggetto,
una merce di scambio, il premio finale al valore di un
guerriero, il varco umido e caldo nel quale cercare il
piacere per il piacere? Lo pensò, Han Cheng, mentre la
debole fiamma della lucerna illuminava il suo grande
corpo supino, il braccio muscoloso con cui se la
stringeva al petto, mentre l’altro pendeva fuori dal
materasso, e la lingua calda del suo gigantesco cane
bianco gli lambiva la mano.
Me ne vado, le aveva detto, perché
non potrei offrirti una vita normale. Perché forse vuoi
dei figli, e io…
L’aveva sentito urlare nel sonno
parole incomprensibili in quella che era la sua lingua
madre. Sogno spesso quel che ho vissuto, la rovina della
mia casa, le aveva detto, e la morte dei miei cari. Di
mia moglie e di mio figlio. Non ero con loro quando gli
scherani del turpe Lucio Aurelio Antonino Commodo,
usurpatore e parricida, li massacrarono. L’onore e il
dovere mi avevano trattenuto lontano…Quanti ne hanno
uccisi, l’onore e il dovere, e a che pro?
Mala tempora currunt. Ci aspettano
brutti tempi. Forse aveva ragione Osman, il cavaliere di
Re Carlo d’Heristal, Orlando conte d’Anglante e di
Blaye, sarebbe ritornato. E non da solo. Per portare
distruzione, rovina e morte nel suo piccolo mondo
quieto, senza che lui potesse far nulla per fermare l’ineluttabilità
del destino. Come un mare di anni prima. Come negli
incubi che popolavano le sue notti. Perché lui si
sarebbe salvato e coloro che gli erano cari no. Anche
questa volta.
GANO
Il cavaliere si tolse il lungo
mantello bordato di pelliccia, i guanti e la spada e li
porse al servitore di colui che gli stava davanti: il
Signore della Rocca e del Passo, colui che i baschi
chiamavano Hilezkor e i Mori Al Khalid:
l’ Immortale.
Vengo in pace, gli aveva detto.
Perché non pensasse che la visita di quell’uomo, uno
dei paladini di Re Carlo, nascondesse oscuri secondi
fini. E lo guardò cercar di calmare carezzando le loro
grosse teste i cani che, sdraiati ai piedi della sua
sedia, non avevano cessato un attimo di emettere dalle
gole un cupo, minaccioso brontolio.
-Accomodatevi, messere.
Gli disse con asciutta cortesia.
Quindi ordinò al servitore di portare pane, formaggio,
due coppe e un recipiente di vino caldo. Qualche sorsata
lo avrebbe rinfrancato, dopo il viaggio che doveva
essere stato lungo, faticoso e pericoloso. Erano gli
ultimi di marzo e, sulle montagne, l’aria era ancora
molto fredda. Dovevano essere urgenti e impellenti i
motivi che l’avevano spinto ad affrontarlo senza stare
ad aspettare l’arrivo di una stagione più clemente.
L’ospite aveva il viso scavato, i
denti smozzicati e ingialliti, e i capelli grigi. Non
doveva trattarsi di un uomo ricco, le sue armi erano
ossidate, l’abbigliamento ordinario sia nella foggia
che nei tessuti, le calzature logore e risuolate più
volte, la pelliccia che gli orlava il mantello vecchia e
tarlata. Era strano, considerato come i nobili franchi
ci tenessero a mostrare anche attraverso vistosi segni
esteriori la loro appartenenza a una condizione sociale
privilegiata. E circa il fatto che quello fosse un
gentiluomo non potevano esserci dubbi. Neppure prima che
si presentasse.
-Gano, conte di Magonza.
I cani ai piedi del Signore della
Rocca non avevano cessato un istante di ringhiare, e il
conte Gano fu grato al servitore quando costui, su
ordine del padrone, li portò via. Specialmente dopo che
il maschio, una creatura enorme rivestita da un sontuoso
mantello completamente bianco, aveva arricciato il muso
in espressione di minaccia, mostrandogli denti aguzzi e
lunghi come pugnali.
-Magnifiche bestie. Non avevo mai
visto cani così grossi. Vi seguono nella caccia?
Il Signore della Rocca gli sorrise.
No, sono le mie guardie armate. Rispose. E sono
addestrati a salvare i viandanti dispersi nella neve.
-Non amate la caccia, messere?
-Non trovo giusto far strage di
animali solo per dimostrare di possedere coraggio e una
buona mira. Io uccido per procurarmi il cibo. O per
difendermi. Esattamente come loro. Della mia mira e del
mio coraggio, che gli altri la pensino come vogliono.
Nessuno aveva mai sindacato sul
coraggio di un lupo, di un orso o di un’aquila, si
ritrovò a pensare Gano, conte di Magonza. Il Signore
della Rocca era molto più giovane di lui, trenta,
trentacinque anni al massimo. Vestiva completamente di
nero e l’unico gioiello che portava era un anello al
medio della mano destra, un’aquila d’argento con le
ali spiegate che sembrava e forse era di quelli che
venivano rinvenuti nelle tombe romane. Le sue mani
grandi, forti e callose, le sue unghie smozzicate
sembravano appartenere più a un contadino che a un
gentiluomo. Dallo scollo della tunica faceva capolino
una zanna di lupo appesa ad un lacciolo di cuoio.
Eppure, non c’era niente che potesse dirsi modesto e
ordinario, in lui. Aveva una folta, magnifica zazzera
leonina che gli ricadeva sulle spalle incorniciandogli
un viso di rara bellezza. I lineamenti delicati erano
incrudeliti dai grandi occhi felini, tra il verde e l’azzurro,
e da una barbetta quasi bionda. Gli abiti pesanti che
portava lo difendevano dal freddo senza nascondere la
muscolatura potente, la brutale energia del suo corpo
gagliardo. E la voce era bassa, cupa e vibrante come la
corda tesa di un grande arco. Nessun uomo che avesse mai
conosciuto, pensò, possedeva il suo fascino e il suo
carisma. Nemmeno Re Carlo.
-Perché la gente di queste parti vi
chiama Immortale?
L’uomo aveva riso, mostrandogli i
denti candidi e squadrati tra le labbra anche troppo
delicate in un volto tanto virile. Sembra, gli rispose,
che nella mia famiglia gli antenati abbiano sempre
trasmesso ai discendenti, oltre al nome e al titolo, le
stesse caratteristiche fisiche: corporatura robusta,
tratti regolari, occhi azzurri, voce tonante. Da queste
parti, la gente è superstiziosa e ha fatto in fretta a
mettere in giro certe dicerie strane.
-Qual è il vostro nome, messere?
-Maximus.
-Maximus…Il più grande.
-Conoscete il latino, messere?
-Ero il terzo figlio maschio,
destinato a diventare prete. La morte dei miei fratelli
maggiori ha scombussolato i piani di mio padre.
-Ma in grazia di ciò siete uno dei
rari gentiluomini franchi che sappiano leggere, scrivere
e conoscano il latino.
-La faccenda mi ha portato meno
vantaggi di quel che potreste credere. A un gentiluomo
si richiede di saper cavalcare, maneggiare le armi…E
soprattutto di saper uccidere a sangue freddo.
-Allora Dio, la Patria e il Re…Sono
dei semplici alibi, forse?
Lo sguardo del conte di Magonza
sfuggì il suo, dando al suo interlocutore modo di
pensare che i suoi cani avessero ragione a ringhiargli
contro. Dovevano aver fiutato la puzza dell’assassino
e del traditore, pensò. Ma gli altri cavalieri franchi,
coloro che avevano massacrato i genitori e distrutto la
casa del giovane Osman, coloro che avevano inseguito Han
Cheng come una preda non erano certo migliori di lui.
-I boschi qui intorno devono
pullulare di selvaggina.
-Dettaglio di cui a chi non ama la
caccia poco importa.
-Lascereste allora vivere anche gli
animali nocivi? I lupi, i gipeti*, gli orsi e le volpi?
-Il mondo è abbastanza grande per
tutti quanti, messere.
-Eppure, per salvare da morte certa
una persona che conosco bene, l’anno passato non avete
esitato a uccidere un’orsa.
-Come gli animali, io uccido per
difendere me e gli altri, mi sembra di avervelo già
detto. E che ci crediate o no, la sorte dei cuccioli
rimasti soli ha tormentato per parecchi giorni i miei
pensieri.
La carne dei cuccioli d’orso è
tenera e delicata. La loro pelliccia calda e morbida…
E’ un tipo ben strano questo…Hilezkor.
Immortale. Ricusa l’arte della caccia e rispetta gli
animali quasi che fossero esseri umani. E malgrado non
sia che un lurido capraio basco, si porta dietro un
solenne nome latino e modi da gran signore. Aveva
pensato il cavaliere, prima di continuare.
-Il conte d’Anglante e di Blaye vi
è grato di quel che avete fatto per lui.
-Semplicemente ciò che il dovere e l’onore
mi imponevano.
-Il conte Orlando è… mio figlio.
Gli acuti occhi chiari del Signore
della Rocca lo squadrarono dalla testa ai piedi. Suo
figlio? Come poteva millantare per vera una simile
assurdità? Per quanto sembrasse più vecchio della sua
età, quel gentiluomo poteva avere al massimo otto,
dieci anni in più del conte Orlando. Perché gli
mentiva così spudoratamente? L’aveva forse preso per
stupido?
-Scusatemi, messere, non era mio
intento prendermi gioco di voi. Il conte è figlio di
primo letto di mia moglie. Io sono solamente il suo
patrigno. Fu Re Carlo in persona ad ingiungermi di
sposare sua sorella, che era vedova e aveva un figlio
già grande …Non l’amavo. Anzi, ero legato da
promessa a un’altra donna. Ma da quel matrimonio avrei
tratto grandi vantaggi e ubbidii senza fiatare agli
ordini del mio signore, sposai quella vecchia, mi
accollai il suo presuntuoso marmocchio, che aveva solo
otto anni in meno di me…Ero un piccolo nobile
spiantato e diventare cognato del re dava foraggio alla
mia ambizione, che era molto più grande del potere e
delle ricchezze di cui disponevo…Se siete uomo di
mondo dovreste comprendermi, messere.
-Non avrete affrontato un viaggio
lungo e difficile, deciso di incontrare un uomo di cui
il vostro sovrano, ci giurerei, non si è mai fidato
completamente…solo per raccontarmi i vostri problemi
familiari, messere.
L’imbarazzo lo fece arrossire,
evidenziando il reticolo delle venuzze violacee sulle
guance scavate e sul naso adunco del conte Gano.
-No, messere. E’ per la donna. Per
Angelica, principessa del Catai: la vostra prigioniera.
Han Cheng non è mia prigioniera: ha
scelto di sua spontanea volontà di fermarsi qui.
Rispose Maximus scandendo bene le parole, senza levargli
di dosso lo sguardo fiammeggiante. Avanti, ditemi, che
cosa volete da me? E che cosa vogliono Re Carlo e il
vostro figliastro?
-Orlando si è incapricciato di
quella donna e…
Tutto d’un fiato, il conte di
Magonza gli disse che la campagna contro gli Arabi in
programma per quell’estate avrebbe avuto una coda a
Roncisvalle. Orlando voleva riprendersi Angelica.
Costasse quel che costasse.
-E qual è il prezzo del tuo
tradimento, fellone?
Gano non rispose, ma il suo sguardo
basso diceva più di mille parole. Non era venuto a
barattare con l’oro le sue rivelazioni, gli
interessava soltanto che l’odiato figliastro non
uscisse vivo dall’inferno di Roncisvalle.
Maximus lo guardò allontanarsi, le
spalle curve, gli occhi a terra. Non fece niente per
fermarlo: sarebbe stato il suo stesso re a giudicarlo e
ad emettere la sentenza. Morte. I suoi polsi e le sue
caviglie sarebbero stati legati a quattro robusti
cavalli che i carnefici avrebbero incitato a fuggire in
direzioni diverse. L’erba del prato avrebbe bevuto il
suo sangue, raccolto le sue viscere e le sue membra
squartate. Era quello il destino dei traditori.
* grosso rapace particolarmente
temuto dai pastori perché gran divoratore di carne
ovina. E’ infatti noto anche come avvoltoio degli
agnelli.
L’ULTIMO DUELLO
Passo di Roncisvalle, 15 Agosto 778
Con le gambe malferme e lo sguardo
velato dal sangue e dalle lacrime, Orlando si era
piantato nel bel mezzo della piccola spianata. Il
terreno tutt’attorno brulicava di cadaveri. I corpi
dei suoi, sorpresi nella stretta gola di Roncisvalle
dalle micidiali frecce degli arcieri baschi. Dagli
uomini di colui che i Mori chiamavano Al Khalid
e i Guasconi Hilezkor: l’Immortale.
Ben pochi di quei cani giacevano
morti o feriti sul terreno e i lamenti che si
mescolavano al frinire delle cicale, ai nitriti dei
cavalli in agonia e ai gracchi dei corvi erano
imprecazioni o invocazioni, cosa non importava, nella
lingua in cui aveva imparato a parlare. Ho sete. Non
voglio morire. Che siano per sempre maledetti…Pietà
dell’anima mia, Signore.
Sono l’unico sopravissuto a quest’inferno,
pensò il conte d’Anglante e di Blaye stringendo forte
l’elsa della spada. Era tormentato dal caldo, dalla
sete, da una dolorosa ferita alla spalla sinistra che lo
aveva costretto ad abbandonare lo scudo e da uno
squarcio al cuoio capelluto dal quale il sangue colava
sugli occhi, offuscandogli la vista. Quel demonio di Hilezkor
lo aveva colpito con un fendente della sua scimitarra,
quando il caldo lo aveva spinto, poco prudentemente, a
liberarsi dell’elmo. E l’avrebbe ammazzato, non
avesse avuto la testa protetta dal cappuccio di maglia d’acciaio.
Aveva trovato qualcuno degno di
stargli alla pari, pensò stringendo le labbra fra i
denti. Quel marrano* dagli occhi e dai capelli
chiari che si era rivestito con l’armatura dei Mori e
brandiva una scimitarra saracena si batteva come un
diavolo. E lo guardava fisso, la fronte, le guance e il
naso nascosti dall’elmo moresco istoriato che rendeva
il volto dei guerrieri infedeli simile ad un teschio,
all’iconografia della Morte affrescata sulle pareti
delle chiese.
-Arrendetevi e avrete salva la vita,
conte di Blaye.
Arrendermi? Tu sei pazzo, cane di un
infedele traditore. Sei pazzo a credere che chi
appartiene alla razza destinata a dominare il mondo
possa arrendersi a una nullità come te. Durendal, la
mia spada consacrata alla difesa della vera fede di
farà a pezzi…
Hilezkor guardò il corno da
caccia che il suo avversario portava appeso alla
schiena. Suonalo, gli aveva detto. Suonalo, e chiama in
aiuto la retroguardia del tuo esercito.Chiama il tuo re
e tutti coloro che hanno osato impugnare Dio come una
clava per sterminare i loro nemici affinché vedano...
Perché Dio è una scusa…Una scusa per occupare le
nostre terre libere. Una scusa per portarti via la donna
su cui hai posato gli occhi, e che preferirebbe morire
piuttosto che arrendersi a te.
Orlando brandì la spada e gli si
lanciò contro.
-Con questa ti ricaccerò in gola le
tue bestemmie.
Un arciere basco aveva incoccato la
sua freccia, teso la corda dell’arco, pronto a
colpire. Ma il suo signore lo fermò, nonostante la
punta dell’arma di Orlando gli pungesse la gola
scoperta.
-A quale idolo falso e bugiardo hai
consacrato il tuo braccio e la tua spada, nemico di Dio?
Parla, prima che con questa cacci la tua anima nel
profondo dell’inferno…
-Al solo valore a cui, onestamente,
sia possibile consacrare un’arma il cui scopo è
quello di uccidere e un braccio addestrato a guidarla:
alla libertà.
-Prega il tuo Dio, chiunque esso sia…
Il mio Dio, pensò l’ Immortale,
era quello dei Cristiani sbranati dalle belve negli
anfiteatri. E adesso è quello del vecchio ebreo
scacciato a sassate dalla città dov’è nato e
cresciuto. E’ quello del mio amico Osman a cui avete
distrutto la casa e sterminato la famiglia. E’ l’Irminsul**
dei Sassoni, che il tuo re e signore costringe con la
forza a convertirsi. E’ quello di questa gente, per
cui la libertà è vitale come l’aria, l’acqua e il
cibo…
Orlando cadde all’indietro,
trafitto al ventre dalla spada di Hilezkor. Chi sei? Gli
domandò mentre il mondo intorno a lui dileguava e la
nebbia che lo immergeva andava facendosi più fitta e
scura.
Massimo Decimo Meridio, nato nell’Anno
Novecentesimo dalla Fondazione di Roma a Tergillium,
nella provincia senatoria dell’Hispania Baetica
regnante il Cesare Lucio Aurelio Antonino Pio.
Contadino, soldato, generale, schiavo, gladiatore e
regicida. Sopravvissuto alle asce e ai dardi dei barbari
Germani, alla spada del carnefice, ai mozzi falcati di
un carro da guerra, ai duelli nell’arena, agli artigli
di una tigre e al pugnale di un tiranno. Sopravissuto
all’odio…E all’amore. Gli sussurrò stringendogli
le mani intorno all’elsa della sua spada Durendal,
come se fosse stata una croce. Avrai degna sepoltura,
Orlando, conte d’Anglande e di Blaye. Te lo prometto,
da uomo d’onore.
*apostata. Erano così definiti
gli Ebrei che, costretti a convertirsi al cristianesimo,
continuavano di nascosto a praticare la vecchia
religione.
** albero sacro.
FINE
Lalla, 23 giugno 2003