NESSUN
DOLORE
“Non
c’è impressione
non
c’è emozione…
Nessun
dolore…no”
La
voce rauca e afona di Lucio Battisti l’accompagnava mentre sceglieva ciò
che avrebbe indossato per quella serata. Aveva l’armadio pieno di roba
firmata: Cavalli, Dolce e Gabbana, Armani. Non si era mai privata di
niente e soldi riusciva a metterne via pochi, nonostante i buoni
propositi: una come me non può accontentarsi della robetta comprata ai
grandi magazzini, si diceva da sé sola quando cacciava fuori la carta di
credito dal portafogli e una vocina, dentro, le consigliava di
risparmiare, in prospettiva futura. Quale prospettiva? Aprire una
boutique, o un centro di estetica, e piantarla con quella vita. Non poteva
andare avanti così ancora per molto, e poi c’era l’altra questione da
sistemare. Il tempo passava, qualche anno ancora e sarebbe stato
tardi… Al diavolo, non era il momento, quello, per guastarsi con pensieri
tristi ciò che l’aspettava.
“Non
c’è impressione
non
c’è emozione…”
Avrebbe
indossato qualcosa di Armani, determinò: dovere di cortesia, era lui che
organizzava la serata, il concerto, il party. Qualcosa di semplice,
elegante. Magari l’ospite d’onore l’avrebbe notata, era bella e
aveva classe da vendere. Tutti i giornali dicevano che aveva spezzato il
cuore a legioni di donne. Già, aveva spezzato anche il suo, nonostante
l’avesse visto solo sullo schermo.
Conosceva
pregi e difetti del suo viso, sapeva come valorizzarsi. Hai personalità,
dicevano coloro che la frequentavano. Anche l’avvocato di grido che
patrocinava le cause di divorzio della Milano bene, anche l’industriale
tessile bergamasco che le aveva procurato l’invito. Goditelo, il tuo
tamarro australiano, le aveva detto con il suo accento rozzo di chi si è
fatto da sé e ha poco studio alle spalle. Per lei era inconcepibile che
una persona pensasse solo a guadagnare denaro a palate e non avesse mai
messo piede in un teatro o in un museo. Era inconcepibile che la cercasse,
aveva una bella moglie, due figlie deliziose. Era inconcepibile
che… Qualcuno l’avrebbe mai amata, aldilà delle illusioni, per quella
che era? Eppure, era soprattutto grazie a gente come il Biraghi se poteva permettersi quel tenore di vita, quella casa, quegli
abiti firmati. E quei sogni.
-Sta
buono, e non abbaiare.
Prima
di uscire faceva sempre le sue raccomandazioni al cane, sapendo che,
probabilmente, non le avrebbe dato ascolto: i cani mica sono cristiani,
anche se l’allevatore che gliel’aveva venduto le aveva garantito che i
bull terrier abbaiano poco e fanno buona guardia. Era bianco, con una
toppa nera sull’occhio sinistro, e , in tempi non ancora sospetti,
l’aveva chiamato Gladiatore. Erano quattro anni che le teneva compagnia
e custodiva la sua casa.
“Non
c’è illusione…
non
c’è emozione…”
Prese
le chiavi della Smart, spense lo stereo. Prima di uscire, accarezzò con
lo sguardo i molti ritratti che gli aveva fatto e che tappezzavano le
pareti del monolocale dove viveva. Alcuni a colori, altri in bianco e
nero. A olio, a matita di
graffite, seppia, sanguigna… Aveva frequentato con profitto il liceo
artistico, diplomandosi a pieni voti. L’unica soddisfazione che avesse
dato a suo padre e a sua madre, prima di farsi buttare fuori da casa.
Una
spruzzata di profumo sul collo, dietro l’orecchio: forte, inebriante,
sapeva d’incenso e stordiva: l’unico eccesso che amava concedersi.
Un’occhiata ancora ai quadri, mentre infilava il morbido cappotto di
cachemire nero sul completo casacca e pantaloni che aveva scelto per
quella serata speciale. Una lunga occhiata languida come se fosse stato lì
in carne e ossa, il giovane biondo dei ritratti, con i capelli morbidi
spettinati dal vento e gli occhi che non erano azzurri e non erano verdi, gli occhi cattivi di
Hando il teppista, quelli ingenui e fiduciosi di East, il cowboy, quelli
disperati di Wigand, che la vita aveva imbrogliato. E lo sguardo franco di
Massimo, che un abisso di secoli prima, aveva lottato da solo contro le
ingiustizie e le aveva spezzato il cuore.
Sarebbe
stata in grado di rispondergli, nell’ipotesi remota che lui le avesse
rivolto la parola? Conosceva bene l’inglese, appreso nei sei mesi in cui
aveva lavorato in un pub di Bristol, prima che il padrone scoprisse tutto
quanto e facesse quel che aveva fatto suo padre. Erano passati dieci anni,
da allora, ma qualche viaggio all’estero per non dimenticarselo e
rinfrescarlo se l’era permesso, dacchè
i suoi problemi economici erano finiti: c’era da guadagnarci, e
bene, a spillare soldi all’avvocato, al manager, al politico rampante,
all’industrialotto. Abbastanza da sperare di metter su una boutique o un
salone di bellezza e di piantarla presto, con quella vita.Anche se aveva
le mani bucate, un po’ per vizio, un po’ per necessità e faceva
fatica a contenersi. Anche se, presto, avrebbe avuto bisogno di molto
denaro per cambiare vita. Questa volta davvero.
“…Non
c’è dolore,no…”
Come
sotto anestesia, e c’era finita tante volte, per diventare quello che
era diventata: quasi un metro e ottanta di statura, un corpo esile da
mannequin, il caschetto di capelli biondo scuro creato per lei dai
Vergottini, i parrucchieri che pettinavano le star della moda e della tv.
Aveva anche sfilato, qualche volta, ma non era quello il suo mestiere , e
poi c’era troppa concorrenza. Gli stilisti volevano le ragazzine, in
passerella, e lei aveva quasi trent’anni.
Parcheggiò
la macchina poco distante ed esibì l’invito, prima di entrare all’Hollywood.
Gli addetti all’ingresso e anche parecchi dei vip che stavano dentro non
la conoscevano. E’ un’attrice, una modella. Forse è straniera. Dev’essere
la donna che sta con lui.
Cantava
bene, ma a chi era andato a vederlo non importava un cazzo di niente, che
cantasse bene o male. Sembrava un ragazzo qualsiasi, un atleta in vacanza:
alto ma non altissimo, prestante, proprio come nei suoi film, forse anche
di più. Capelli lunghi, quasi biondi. Occhi grandi, quasi azzurri. O
quasi verdi. Acuti, intelligenti. Tristi. Ma tristi perché? Aveva
fascino, soldi a palate, tutte le donne del mondo che gli morivano ai
piedi. Dovrei essere triste io, non tu, che dalla vita hai avuto tutto, si
ritrovò a pensare con stizza, mentre la musica andava. Bella voce, anche
se le canzoni le sembrarono un po’ ripetitive. E parole che venivano dal
cuore. Forse, più che triste, era incazzato: sui giornali pettegoli che
leggeva dal parrucchiere c’era scritto che aveva un caratteraccio e
perdeva facilmente le staffe, ma è anche vero che certi giornali
raccontano balle. E che, non si fosse trattato di una serata di
beneficenza, organizzata allo scopo di raccogliere fondi per i bambini
poveri, c’era da uscire sul serio fuori dai gangheri, a sgolarsi davanti
a un pubblico di uomini invidiosi che invece di starlo a sentire
commentavano acidi circa il fatto che si fosse presentato davanti alla
Milano che conta con quell’aria strafottente da bullo, la canottiera a
vista sotto la camicia nera aperta e due dita di barba ispida sulla
faccia; e le donne? Se il Gladiatore strafico e strabono avesse smesso di
cantare e incominciato a spogliarsi, forse sarebbe stato meglio.
Aveva
una disperata voglia di una sigaretta. Una voglia disperata e frustrante.
E le orecchie piene del frastuono della musica, come sempre capita al
termine di un concerto rock. Il Boss, Sting, gli U2… Li aveva visti
tutti. Si cercò un angolino appartato, dove nessuno le avrebbe detto
niente. Fumarsela, maledizione, fumarsela tutta quanta sino al filtro e
poi un’altra, e un’altra ancora… Il fumo fa male. Oh, al diavolo, si
vive una volta soltanto. Il sapore del fumo le piaceva, e anche il tono
rauco che dava alla sua voce incerta. Aveva iniziato a farlo quando aveva
undici anni, e suo padre non le aveva mai detto niente. Erano ben altri i
motivi per cui l’aveva cacciata da casa.
Maledizione,
l’accendino… Doveva averlo dimenticato nella borsa che usava tutti i
giorni e, se non riusciva a farsi venire la faccia di bronzo di alzarsi da
quel divano e chiedere a qualcuno di accendergliela, sarebbe stato
giocoforza rinunciare al piacere della sigaretta. Per sostituirlo con che
cosa? Con un bicchiere di whisky? Col sesso? Rise piano, tra sé e sé, e
non si accorse che lui le era scivolato vicino. Aveva gli occhi acuti e
tristi, né azzurri né verdi, i capelli ondulati che gli accarezzavano le
grosse spalle. Con un orrendo accendino di plastica gialla che s’era
cavato fuori dalla tasca dei calzoni, le accese la sigaretta e le sorrise,
prima di fare altrettanto con la sua.
-Thanks, Mr Crowe.
-Russell,
darling. Russell only.
Mi
sto annoiando, mate, accidenti… Non hai idea di quanto mi stia annoiando.
A questa gente qui, di me non gliene importa un cazzo di niente. Posso
stare un po’ con te? Anche tu non hai l’aria di divertirti troppo, mi
sembra.
Un
torrente in piena, una belva in gabbia apparentemente rilassata, in realtà
infida. Sempre. Si stava annoiando. Proprio come lei. Se mi rivolgesse la
parola, crollerei stecchita, aveva pensato, invece non era successo nulla.
Lui rideva, quando lei gli chiedeva di ripeterle quel che non capiva.
Fallo lentamente. Slowly. I don’t understand, I’m sorry… Aveva una
voce rauca, cupa, seduttiva, i denti bianchi e gli occhi splendidi. Occhi
da tigre. Era più magro di quanto apparisse sullo schermo, più gentile
di quanto dicessero i giornali. Odorava di cuoio, di profumo e di pelle
leggermente sudata.
Perché
ti stai annoiando… Russell? Questo non è il mio mondo, ma… Nemmeno il
mio, mate. Il mio mondo fottuto è il profumo delle arance, sono i miei
amici, la mia terra, il mio cavallo e i miei cani… Questa gente non è la
mia gente. Ma ti piace quello che fai… Recitare? E’ la mia vita. So di
essere bravo. E me lo dicono. Casa mia è piena di targhe, pergamene,
statuette… Posso prestare il mio corpo, la mia faccia e la mia anima a
chiunque: a uno scienziato di mezz’età in crisi, a un eroe dei tempi
antichi, a un poliziotto paranoico, ad un teppista odioso… E’
divertente svuotarsi di sé e riempirsi di un altro. E tu, che diavolo fai
per guadagnarti da vivere?
Gli
disse la prima cosa che le venne in testa, una mezza bugia e una mezza
verità. Mi occupo di pubbliche relazioni. Una frase che diceva tutto e
non diceva niente. Tu ammazzi il tuo tempo libero cantando, io dipingendo.
Ho letto che ti piacciono i cani. Anch’io ho un cane, si chiama
Gladiatore. Noo, tu non c’entri, ha già quattro anni. Un bull terrier.
Buonissimo. Ma se gli salta la mosca al naso… Era poco più di un
cucciolo quando ha fatto scappare un giovinastro che voleva scipparmi. A
te non ti morderebbe: i cani riconoscono a naso chi li ama e chi non li può
sopportare.
I
cani sono dannatamente migliori degli uomini. Forse avrei dovuto dirla io,
non tu, questa. Sei un uomo fortunato, Russell. Già, sono qui per questo:
mi danno quindici milioni di dollari a botta, per fare quello che mi
piace, ma al mondo c’è gente che vive solo per soffrire. E’
terribile, vedere un bambino africano torcersi dalla fame, sapere che
sicuramente morirà e non poter far niente per impedirlo…Anzi, è peggio
che terribile: è indecente. Sei profondo, Russell. Solo pragmatico. E le
sorrise, facendo balenare le fossette sulle guance, tra i peli biondi
della barba. Pragmatico, già: i palloni gonfiati e le damazze della
Milano bene avevano sganciato fior di quattrini per far finta di sentirlo
cantare. Quattrini che sarebbero stati investiti in una giusta causa,
anche se era maledettamente frustrante, cantare parole che hai messo in
musica dopo che ti sono uscite dal cuore per divertire, neanche fossi il
loro pagliaccio, la contessa, il politico o l’industriale per i quali
l’importante era esserci e quello soltanto.
Non
mi hai ancora detto come ti chiami. Io… Loredana. E tu, ti chiami proprio
così o il tuo è un nome d’arte? Russell
Ira Crowe. Non mi piacciono le cose
false. Io sono sempre io, che reciti nei panni di qualcun altro o sia
quello che ama gli animali, i libri, la birra, il calcio, la musica e
scorrazzare in Harley Davidson, quello che si diverte come un matto a far
imbufalire i giornalisti e che infarcisce i suoi discorsi di paroloni e
parolacce. Russell Ira Crowe, quello vero.
Si
accese un’altra sigaretta, l’ennesima. La guardò attraverso le volute
di fumo, con i suoi grandi occhi che non erano azzurri e non erano verdi,
e sembravano capaci di leggerle dentro. Mi piaci, mate. Sei bella e sei
vera. E t’importa sul serio, di me e di tutti gli altri. Già, mi son
dimenticato di metterci le donne che sanno ascoltarti sul serio e non per
finta, tra le cose che mi piacciono. E tu piaci a loro, pensava lei mentre
quegli occhi che, al cinema, aveva visto balenare, feroci e disperati
attraverso le fessure di una maschera spaventosa, la guardavano acuti e
maliziosi e la bocca si avvicinava alla sua. Una bella bocca, piccola,
tenera e un po’ infantile. Una bocca che sapeva baciare
meravigliosamente bene, proprio come nei film: Lucilla, Lynn, Ellen. Grace…
Addio,
Russell. E’ stato un piacere
conoscerti. E’ stato bello parlare con te, e come baci... Quello non lo
dimenticherò mai, campassi mille anni. Davvero.
“…Nessun
dolore…no”
Come
sotto anestesia. Il dolore sarebbe arrivato al risveglio, e sarebbe stato
terribile da sopportare per chissà quanti giorni.
Farai
morire tua madre. Mi vergogno di te. Fuori da questa casa. Perché non
sono quello che avreste voluto, il figlio scavezzacollo a cui piace
smanettare con i motori e scalmanarsi allo stadio, ma una femminuccia
piagnucolosa che adora acconciarsi di nascosto con i vestiti e i trucchi
delle sue sorelle? Perché non sono quello che si scoperebbe tutte le
donne che guarda e si sente prigioniero di un corpo che non gli
appartiene? Perché s’è dato un’identità fittizia a forza di ormoni
ingurgitati di nascosto, di interventi chirurgici costosi e dolorosi, di
ritocchi estetici ripetuti con maniacale insistenza, fino ad ottenere la
pelle liscia, le labbra carnose, il seno tondo dei sogni? Perché per
vivere e per sperare, prima o poi, di liberarsi dalla prigione di un corpo
sbagliato ed essere finalmente se stessa, si prostituisce? E che potrebbe
fare, d’altro, nelle condizioni in cui si trova? Perfino il padrone del
pub di Bristol dove aveva lavorato e si era fatta benvolere per sei mesi
l’aveva cacciata via non appena aveva saputo, e dire che in Inghilterra
hanno una mentalità aperta, non quella dell’operaio tutto d’un pezzo
emigrato dal Sud e imbottito di pregiudizi che era suo padre.
Il
dolore, al risveglio, sarebbe stato terribile e l’avrebbe accompagnata
per diversi giorni. Ma avrebbe sopportato senza lamentarsi e il suo corpo
non le sarebbe più stato estraneo. Mi piaci perché sei vera, le aveva
detto, prima di baciarla, il grande attore, l’uomo che era nei sogni di
tutte le donne, lo straniero spaesato come un cucciolo sbalestrato da una
cuccia soffice e calda in un mondo non suo, un mondo freddo ed estraneo,
fatto di grandi piedi pronti a prenderti a calci. E pensare a quel bacio
le sarebbe stato di conforto.
Lalla,
5
settembre 2001
Questo
racconto è dedicato alla memoria di Fabrizio de Andrè e a “Princesa”.
Perché Loredana ha molto di lei.
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