Le Fan Fiction di croweitalia

titolo:  Melanzane alla parmigiana
autrice: Lalla Usai
e-mail: lallausai@tiscalinet.it
data di edizione: 15 luglio 2003
argomento della storia: sinfonia per organo, trombetta e voce - per leggere le altre storie scritte da lalla, cerca nell'indice delle fanfiction
riassunto breve: continuano le tribolate vicissitudini del ragionier Giacomo Leopardi Cantacesso, magnate della carta igienica...
lettura vietata ai minori di anni: la storia è un po' scurrile ma possono leggerla tutti...

MELANZANE ALLA PARMIGIANA

 

Prologo

 

Dal ripiano alto del frigorifero occhieggiano con la loro appetitosa crosta bruno dorata Le ha preparate mia madre che, contrariamente alla sottoscritta, in cucina è un asso. Faccio a mente il calcolo delle calorie, sbagliandolo mi auguro per eccesso perché in matematica sono sempre stata una schiappa ma almeno così posso far tacere la mia coscienza, afferro la teglia con entrambe le mani come se quella fosse una tavola e io Robinson appena scampato al naufragio del suo veliero. La coscienza però continua a rimordermi. E per metterla a tacere una volta per tutte mi dico da me sola che la giornata è stata pesante. Come al solito.

 

Di mattina, ho dovuto accompagnare il dottor Vargiulo, l’archeologo che rassomiglia a Nicola di Bari, a vedere il gladiatore. No, non l’ho portato al cinema, bensì nel parco del megavillone del commendator Brambilla dove, nel corso dell’ennesimo scavo, è emerso l’ennesimo scheletro. Quello di un gladiatore sepolto con i suoi ferri del mestiere, rete e tridente. Difficile, penso mentre i rilievi vengono metodicamente da noi compiuti, associare a Russell Crowe o anche al Kirk Douglas dei suoi bei tempi andati quel mucchietto d’ossa calcinate tenute insieme da quattro pelletiche incartapecorite. Dall’altra parte del recinto, i due rottweiller addestrati a tenere i malintenzionati alla larga abbaiano come dannati e sbavano, ingolositi dalla vista delle pluri millenarie ossa e pelletiche, che rosicchierebbero volentieri coi loro dentacci degni del Conte Dracula. Per tenerli buoni, mi sono riempita le tasche del giubbotto di crocchette Ciappi. Almeno, mi dico, mangiano, intanto che lo fanno non ci assordano con i loro latrati e ci lasciano lavorare in pace.

 

Torno a casa, ancora rintronata dagli urli delle belve, con gli occhi rossi per la polvere, le ginocchia cappaò e la schiena a pezzi, mi butto a corpo morto sul divano…E squilla il cellulare. Cantacesso.

 

Vorrei mandarlo a quel paese, visto che stanca come sono non intendo subire la millesima puntata della saga delle sue paturnie, ma…So che il poveretto è molto fragile, in questo periodo: ha appena commesso il primo grave errore della sua carriera imprenditoriale e, come se non bastasse, è entrato in conflitto con la sua immagine. Ma procediamo con ordine.

 

Travolto da improvviso quanto pernicioso delirio creativo, Giacomo Leopardi Cantacesso ha inventato la carta igienica personalizzata. E che cosa c’è di meglio che usare i vip per saggiare il possibile successo del prodotto sulle masse? Detto fatto. I rotoli con serigrafate le rispettive immagini sono stati recapitati al Capo dell’Esecutivo, cavalier Silvio Berlusconi, e all’ex segretario della CGL, Sergio Cofferati. Iquali non hanno gradito, anzi, hanno rispedito al mittente l’omaggio, accompagnandolo con concrete minacce di azioni giudiziarie. Ho cercato di far comprendere al Cantacesso che a nessuno piace l’idea di pulirsi il culo con l’immagine della propria faccia e che, forse, avrebbe fatto meglio a spedire a Berlusconi la carta igienica destinata a Cofferati e viceversa. Invece di sentirsi vilipesi, i due probabilmente si sarebbero divertiti. E non avrebbero esitato a sperimentare sulle proprie parti posteriori il prodotto. Per poi complimentarsi con il suo inventore e richiederne una consistente fornitura.

 

Probabilmente, questo primo insuccesso professionale ha acuito nel tapino i complessi che si tira dietro dalla nascita. E’ entrato, come direbbe lo psicologo della mutua, in conflitto con la sua immagine e vorrebbe disperatamente cambiarla. Obiettivamente non riesco a dargli torto, ma quando comincia a parlarmi di chirurgia estetica e maghi del bisturi il pensiero corre al povero Michael Jackson e a come l’hanno ridotto la sua stupidità e quattro ciarlatani privi di scrupoli che in questa hanno trovato un filone d’oro: ve lo ricordate com’era agli indizi della carriera? Un ragazzino di colore niente male. E ce l’avete presente com’è adesso? Un orrore senza sesso, senza età, senza identità razziale e senza naso.

 

Vorrei dirgli che la serena accettazione di se stessi è segno di sicurezza, maturità e affidabilità, ma lo guardo bene e penso sarebbe una vigliaccheria, peggio che sparare sulla Croce Rossa. Allora gli prometto che, nel pomeriggio, lo accompagnerò dal professor Garavaglia, uno dei più eminenti chirurghi plastici d’Italia. Anche se so benissimo che neppure lui è in grado di fare miracoli e che un miracolo è la sola cosa di cui il derelitto con il suo metro e sessantacinque di ossa e pelletiche, la scoliosi, il nasone, la boccaccia, la dentiera, e il parrucchino sulla crapa pelata avrebbe bisogno.

 

Nello studio del professor Garavaglia, scartabello nervosa una rivista mentre attendo che il Cantacesso esca dall’ambulatorio dov’è in corso il consulto. Conosco personalmente il luminare, che da ragazzino era assiduo frequentatore di casa mia, essendo compagno di liceo e grande amico di mio fratello. So che ha restituito un aspetto decente a persone sfregiate dalle ustioni o nate con spaventose deformità. So che è un professionista scrupolosissimo, citato a titolo d’esempio per la sua generosità: non si contano le volte in cui è intervenuto su pazienti che versavano in condizioni di grave indigenza a titolo completamente gratuito. Ma siccome anche lui deve pur campare e sfogare il suo caratteraccio allo zolfo…Beh, ci sono le dive in disarmo con le tette da tirare su, le signore bene che hanno bisogno di una limatina al naso e i manager sessantenni che ripongono nel lifting la speranza di poter fare ancora i ganzi in discoteca senza rendersi ridicoli. Quelli li piglia a parolacce. E li ripulisce fino all’ultimo eurocent, ma li lascia soddisfatti. Di solito.

 

Non lo tratterà troppo male, penso, in fin dei conti anche Cantacesso è un pietosissimo caso umano…Finchè non vedo uscire il derelitto dall’ambulatorio con l’aria del cane bastonato e una foto stazzonata di Russell Crowe stretta in pugno. Mi riferisce quel che gli è stato detto. Si metta bene in testa, caro signore, che non posso allungarla di quindici centimetri, imbottirla di muscoli, raddrizzarle la schiena, farle rispuntare dei bei denti bianchi e una folta chioma bionda e toglierle vent’anni. Sono un chirurgo plastico, mica Nostro Signore Gesù Cristo!

 

Dalla teglia di alluminio anti aderente, le melanzane mi guardano. Naturalmente, come tutte le melanzane alla parmigiana degne di questo nome non favellano, ma è come se favellassero e mi dicessero mangiami, mangiami…Non posso restare sorda a una simile, accorata implorazione e affondo il coltello nella crosticina bruno dorata. A scorpacciata conclusa, mi corico. Domani mi aspetta un’altra giornata pesante in compagnia del gladiatore, dell’archeologo con gli occhiali a fondo di bottiglia e dei rottweiller sempre affamati. Ma appena le melanzane frettolosamente ingurgitate cominciano a vorticarmi nello stomaco intuisco che anche la nottata potrebbe essere alquanto pesante. E, quel che è peggio, foriera di terribili incubi.

 

Incubo di una notte di mezzo autunno

 

L’aria intorno a me è quella fredda della notte e il giubbotto di cerata comprato per 25 euro dai cinesi non mi ripara dal vento gelido di tramontana. La luna piena brilla nel cielo chiara come una lanterna e i picchi dirupati di montagne che non ho mai visto si stagliano sfumati nella caligine contro la linea dell’orizzonte. Mi trovo in aperta campagna, sul ciglio di una polverosa strada bianca a poche decine di metri dalla quale intravedo il folto impenetrabile di una faggeta da cui s’innalza un lugubre ululato che, qualsiasi cosa abbia sentito uscire dalla bocca degli Angela padre e figlio e di Fulco Pratesi circa le calunnie di cui nel corso dei secoli sono stati vittime questi poveri animali, mi auguro sia la voce del vento e non…Oddio. Otto grandi occhi verdi e fosforescenti mi fissano e, illuminate dalla luna, intravedo le sagome agili di quattro grossi cani che rassomigliano al pastore tedesco del colonnello Bortolon, l’inquilino del pianterreno. Ostentando indifferenza, mi frugo nelle tasche alla disperata ricerca d’un eventuale residuo di crocchette Ciappi…Salvo rendermi conto che quelli non sono cani, bensì lupi e aggrapparmi come una disperata alle affermazioni di Piero Angela e Fulco Pratesi per non cedere alla tentazione di farmela sotto dalla paura.

 

Un rumore sinistro di ferraglie accompagnato dallo scalpiccio ritmato degli zoccoli di un cavallo comincia a percepirsi dal fondo della strada. Sarei felice che il conducente mi togliesse dalle peste e dalla scomoda compagnia di quelle bestiacce che continuano a guardarmi con i loro occhi maligni e sornioni. Il capobranco si lecca voluttuosamente i baffi e voglio sperare lo faccia perché ha trovato particolarmente appetibile il pugno di crocchette Ciappi che gli ho lanciato, non già perché trova particolarmente appetibile l’impiegata cicciotella che gli sta davanti e ne pregusta il sapore.

 

La carrozza, trainata da due grossi cavalli neri, si ferma proprio davanti a me. I lupi tagliano la corda e il vetturino mi fa con la mano cenno di salire. Dovrei sentirmi più tranquilla invece…Boh. Che ti prende? Mi domando. Dovresti ringraziarlo che ti ha tolto dai guai, maleducata irriconoscente! E’ un omiciattolo sinistramente intabarrato di nero e rassomiglia come una goccia d’acqua all’amministratore del mio condominio, il geometra Bonomelli, che, ad onta del soporifero cognome che si porta appresso, è una visione da incubo e sembra la versione peggiorata di Dario Argento. Non dovrebbe essere difficile immaginare l’effetto di cotale apparizione in piena notte, in una stradicciola deserta al limitare del bosco, con un vento gelido che scuote le cime degli alberi, e i lupi che, nascosti chissà dove, continuano imperterriti il loro sinistro concerto di ululati. Anche perché, dopo averlo guardato bene, mi accorgo che il veicolo è una carrozza mortuaria con tanto di pennacchi, drappi viola e lumini da cui emana una luce fioca.

Che fare? Sali, cretina, mi dico da me sola intravedendo tra gli alberi al limitare del bosco la bestiaccia dagli occhiacci verdi che si lecca i dentacci bianchi con la linguaccia rossa. E salgo.

 

La carrozza mortuaria procede a sobbalzi inerpicandosi sulla stradina in salita e io faccio sforzi titanici per non andare a cascare lunga distesa nella bara aperta, foderata di seta nera, che mi sta a fianco. Taccio stoicamente, augurandomi nel profondo del cuore che il tragitto sia breve, anche perché i lampi che si rincorrono nel cielo e i tuoni che rimbombano per ogni dove lasciano prevedere un ormai prossimo temporale. Quando giungiamo finalmente a destinazione, le prime grosse gocce hanno appena iniziato a cadere.

 

Il vetturino smonta da cassetta, quindi mi porge con cortesia la manaccia adunca per invitarmi a scendere. Bussa. Non passa che una frazione di secondo, e il massiccio portone borchiato del cadente castello si apre senza lasciarci aspettare. Come se fossimo attesi.

 

-Benvenuta, baronessa Von Frankenstein.

 

Sento la voce, ma non vedo il mio interlocutore. Non subito, almeno. Faccio in tempo a pensare ma quale baronessa e quale Von Frankenstein, le mie sono banalissime ascendenze piccolo borghesi e mi chiamo De Martini…E allora lo vedo, illuminato sinistramente dalla luce emanata dal candelabro che tiene in mano. E’ un omuncolo alto come un hobbit, con la testa seminascosta da un cappuccio e una vistosa gobba sulla schiena che, a Napoli, avrebbe fatto le sue fortune. Ma il tratto più singolare del funesto individuo sono gli occhi enormi, pallati, che si muovono autonomamente l’uno dall’altro, come quelli di un camaleonte.

 

-Servo vostro, baronessa. Il mio nome è Aigor Scopescu. Abbiate la compiacenza di seguirmi nella biblioteca di vostro nonno, affinché possa parlarvi…

 

Lo seguo, domandandomi in quale manicomio io possa essere finita. Nessuno dei miei nonni viveva in un castello diroccato, aveva una biblioteca né, men che meno, un servitore con gli occhi scoppati e la gobba. I miei nonni erano rispettivamente un maresciallo dei carabinieri originario di Partinico e un maestro elementare di Gallarate. E ho elementi sufficienti per pensare che le loro rispettive consorti fossero abbastanza serie da potermi far asserire con sicurezza che i miei nonni erano PROPRIO LORO, e che non c’entro niente con il barone Von Frankenstein.

 

-Otto Von Frankenstein...Se la morte non lo avesse colto all’improvviso, vostro nonno avrebbe realizzato un esperimento di fondamentale importanza per il progresso della scienza…Un esperimento che, in quanto ultima discendente, avete il dovere imprescindibile di portare avanti…Baronessa.

 

Ascolto perplessa le affermazioni del gobbo, anche perché ho sempre detestato le materie scientifiche fin dalla prima elementare, non ci ho mai capito nulla e neppure mi interessa capirci qualcosa. Eppure la sua voce catarrosa ostenta una tale sicumera…Vorrei scappare, ma per andare dove? Fuori imperversa un violento temporale. E, quel che è peggio, ci sono i lupi.

 

Per non pensarci, guardo fingendo interesse i quadri appesi a quegli angoli delle pareti che sono liberi dagli scaffali. I ritratti dei Von Frankenstein. Si somigliano tutti, con i loro capelli arruffati e gli occhi folli che attestano i venerdì fuori posto dell’illustre genia asburgica al gran completo. Grazie al cielo, nessuno di loro rassomiglia a ME. Neppure vagamente. Prima o poi, penso, dovrò decidermi a spiegare l’equivoco. Magari dopo aver messo qualcosa sotto i denti e trascorso la nottata al riparo dal temporale e al sicuro dai lupi.

 

Dopo un lungo attimo di silenzio imbarazzato, nel corso del quale il cocchiere identico al geometra Bonomelli è entrato in biblioteca e mi ha porto con l’espressione impassibile di sempre stampata sulla sua brutta faccia un vassoio pieno di dolcetti appiccicosi dall’aspetto poco invitante che ho stoicamente mangiato per calmare la fame e il nervoso, Aigor Scopescu ha alzato gli occhi al cielo e, sospirando, mi ha detto che anche le sue origini sono nobili e che, non fosse stato per il rovescio di fortuna subito dal padre di suo padre, che aveva la passione del gioco e delle donnine allegre, anche lui a quest’ora vivrebbe servito riverito e rispettato in un antico castello e non sarebbe costretto ad esercitare le mansioni di maggiordomo dei Von Frankenstein. E, soprattutto, la sua adorata figliola non farebbe la muffa in attesa di un marito ma avrebbe la fila dei corteggiatori appostati sotto il balcone giorno e notte. Faccenda in merito alla quale nutro seri dubbi, considerato il poco attraente aspetto di papà Scopescu, dal quale la ragazza avrà pur preso qualcosa.

 

-Quella degli Scopescu è una famiglia antica…Discendiamo addirittura dal grande imperatore romano Marco Aurelio…

-Davvero?-faccio io. Pur stentando a credere alle affermazioni della gibbosa creatura, da persona educata, ho il dovere di starlo a sentire, che stia o meno sproloquiando sotto l’effetto di chissà che cosa. E poi, quando c’è di mezzo la storia di Roma…

-Discendiamo per la precisione da una sua figlia adulterina, Dania Scopilia Sportula, la quale, travolta da folle passione per il giullare del perfido fratellastro Commodo, fuggì con lui nella Dacia (Romania, N.d.A.), regione di cui l’uomo, che si chiamava Bietulus Apestosus Putrefactus, era originario…Il figlio nato dal loro amore, Bietulinus Apestosus Sportulus fu il capostipite della nostra genia…Ben più antica di quella dei Von Frankenstein che i rovesci delle nostre fortune ci costringono oggi a servire…

 

Il gobbo emette un sospiro che sembra una via di mezzo tra un barrito ed un rutto, io mi ficco in bocca un altro dolcetto al vinavil e lo lascio parlare, mentre fingo di contemplare i ritratti di coloro che dovrebbero essere i miei antenati.

 

-In questa biblioteca troverete i testi e gli stessi appunti del vostro avo grazie ai quali potrete portare a termine la sua opera. Io non potrò assistervi in questa grande impresa perché domani stesso partirò per Bordighera: il medico mi ha prescritto aria di mare per curare l’asma. Ma vi lascerò in buone mani…Confidando nel fatto che adempirete al vostro dovere per onorare la scienza e la memoria del barone Otto Von Frankenstein.

 

Dall’occhiata che mi saetta con i suoi grossi occhi scoppati, capisco che non uscirò di qui prima di aver portato a termine l’esperimento famigerato. Ragion per cui, se voglio andarmene da questo posto, e la faccenda in verità mi preme molto e non poco, devo prendere i maledetti appunti e mettermi a studiare. Anche se so già che non ne capirò un fico secco.

 

***

Dopo una notte trascorsa interamente in bianco, alle sei del mattino mi addormento. E alle sei e un quarto vengo svegliata da una vocina che par provenga dall’oltretomba e intona, si fa per dire, un motivetto a metà strada tra la Messa di Requiem e l’Orchestra Spettacolo Casadei accompagnandosi con quel che sembra un organo a canne. A dire il vero, sono io che mi farei una canna molto volentieri, in questo momento. Almeno, sotto l’effetto, il futuro mi sembrerebbe più roseo o, al limite, potrei continuare a dormire ancora un po’.

 

Invece, eccoti il sosia del Bonomelli, che per un atroce scherzo del destino, invece di conciliarmi il sonno, è venuto a svegliarmi definitivamente. Reca con sé il vassoio della colazione e il programma della giornata. Cominciamo ad esaminare il primo: contiene uno yogurt (alimento che, tra parentesi, non ho mai potuto soffrire) che sembra calcestruzzo, un cetriolo delle dimensioni e della consistenza di una clava e i soliti biscotti al vinavil. Butto giù il tutto senza manco masticarlo per evitare i conati che quelle schifezze potrebbero provocarmi qualora sostassero in bocca oltre il nanosecondo. Ascolto quindi con pazienza il programma della giornata: ho dieci minuti di tempo per la vestizione e le abluzioni, dopo di che Mademoiselle Scopescu verrà a prendermi per condurmi in laboratorio e assistermi negli sviluppi del famigerato esperimento che, succeda quel che succeda, spero addivenga alle giuste conclusioni quanto prima possibile.

 

Skopy Scopescu, che ho testé avuto l’onore e il piacere di conoscere, a quanto pare parla solo rumeno. Fortunatamente, trattandosi di una lingua neolatina, quindi abbastanza somigliante all’italiano, riesco ad afferrare qualcosa. Mentre un po’ a gesti un po’ a parole mi invita ad aprire l’involto che mi sta davanti disteso su un tavolaccio e, per quanto ne so io potrebbe contenere una mastodontica triglia al cartoccio anche se sicuramente contiene l’oggetto dell’esperimento, io la osservo. Da papà Scopescu ha preso la statura e il collo corto, mentre la gobba è ridotta ad un accenno di scapole alate messe in evidenza da una canottierina striminzita. La vista di una donna brutta mi ha sempre recato grande consolazione, come dire, ciccia, c’è chi sta peggio di te. A meno che non la veda in compagnia di un uomo bello, perché ciò mi provoca terribili travasi di bile. Questa qui è peggio che brutta: è insulsa. Mentre la bruttezza del padre era infatti talmente clamorosa e unica da risultare infine a modo suo un capolavoro di Madre Natura, la progenie è insipida senza misericordia, come lo yogurt e il cetriolone che il sosia del Bonomelli mi servì poc’anzi e che debbo ancora digerire. Ho detto che è bassa. Ho detto che ha due centimetri scarsi di collo e la testa grande quanto la zucca di Halloween. Ho detto che ha le scapole alate. Adesso dirò che ha i capelli a spinacio color giallo piscio con vistose ricrescite scure, gli occhi che messi insieme sono grandi quanto una pupilla di suo padre, la bocca fino alle orecchie e due narici che farebbero la felicità dell’ingegnere che ha progettato il traforo del Brennero. Procedendo nella perizia, abbasso gli occhi e noto un paio di tettine paragonabili all’estremità di un limone rinseccolito piazzate su costole effetto Biafra, gambette e braccine in confronto alle quali una mantide religiosa sembra Russell Crowe…Basta, se no mi dite che sono perfida. Ah, dimenticavo. Quando parla, tira fuori una vocetta querula e antipatica nella quale non tardo a identificare quella che mi ha svegliato deliziandomi con la Messa di Requiem arrangiata da Raul Casadei. Bonomelli Due La Vendetta mi aveva altresì informata che la massima aspirazione dello sgorbietto è quella di diventare una cantante di successo. Vabbè che, con le porcherie che passa la radio, nel mondo delle sette note forse anche baby Scopescu potrebbe ritagliarsi un posticino.

 

***

 

Il domopak che nasconde ai miei occhi l’esperimento di nonno Frankenstein viene metodicamente aperto dalle manine adunche di Skopy Scopescu. Non oso guardare, ma debbo farlo. Noto uno spesso strato di erbe aromatiche impiegato probabilmente e altrettanto inutilmente per mascherare il tanfo che si propaga da una sorta di mummia completamente avvolta nella carta igienica marca Cantacesso, mi pare ovvio. Anche questa viene rimossa e, sotto i miei occhi si materializza l’immagine di un ometto piccolo piccolo, con la faccia livida, un parrucchino giallo sul cocuzzolo della testa, il nasone che gli piscia in bocca e le labbra stirate sulla dentiera. Quando mi accorgo che è completamente nudo e lo sguardo mi cade sugli osceni attributi che possono essere paragonati a un mozzicone di matita e a un caco fradicio, mi metto a urlare. Non già perché il mio virginale pudore sia stato offeso dalla visione senza censura delle sue miserande vergogne, ma perché ho riconosciuto il soggetto: è impossibile che al mondo ne esista un altro uguale.

 

Inghiotto la saliva e ricaccio indietro a fatica yogurt e cetriolone che minacciavano seriamente di riaffacciarsi alla ribalta. Skopy Scopescu mi porge un marchingegno strano, una sorta di casco da parrucchiera collegato a un ordigno da cui si dipartono fili elettrici multicolori collegati con una grossa leva. Tu mette questo in sua testa e tira questo, tira tira fino a che lui svegliare. Mi fa in uno pseudo italiano che somiglia a quello degli zingari quando ti minacciano un terribile malocchio se non gli dai l’elemosina. Quindi se ne va. Io sono ancora lì, come un’ebete con il casco in mano quando la sento riattaccare con il Casadei da Requiem. Allora mi decido.

 

Ho sistemato il casco. Ho tirato la leva. Più e più volte. L’unico risultato che ho ottenuto è stato quello di provocare al poveretto la rumorosa e fetida fuoriuscita di un metro cubo di gas intestinale. E sono tornata indietro con la memoria agli anni del liceo e al passo dell’ Inferno dantesco che puntualmente l’insegnante di italiano saltava ma noi alunni avevamo scovato lo stesso: quello riferito al demonio Barbariccia, che “avea del cul fatto trombetta” (Inferno, canto XXI, verso 139 N.d.A).

 

Non c’è voluto molto a capire dove mi trovassi e in che cosa consistesse il famoso esperimento: da ragazzina guardavo con voluttà maniacale qualsivoglia film dell’orrore, salvo poi spaventarmi e sorbirmi le geremiadi della mamma quando pretendevo di dormire con la luce accesa tenendo sveglia tutta la casa. Ero finita nel bel mezzo della truce vicenda del Barone Von Frankenstein e della sua Creatura. Il compito lasciatomi in eredità dal “nonno” era risvegliarla infondendole la vita: ma l’ unico segno di vita che quella mummia dava, per quanti sforzi continuassi a fare, era il concerto fragoroso e puzzolente per trombetta solista. A buon intenditor, poche parole.

 

***

 

Anche questa mattina non è stato il canto del gallo (mi domando se ne sia rimasto ancora qualcuno o i lupi li abbiano divorati tutti quanti) a svegliarmi, ma la vocetta sconocchiata di Skopy Scopescu che, accompagnandosi con l’organo a canne, suonava il Dies Irae arrangiato dal maestro Raul Casadei. Come di consueto, ingollata la disgustosa colazione, mi sono recata nell’orrendo laboratorio gremito di polvere, ragnatele, pipistrelli, alambicchi, provette, scheletri e altre schifezze, ho sistemato il casco da parrucchiera in testa alla mummia, ho tirato la leva…e mi sono sorbita tre quarti d’ora di concerto per trombetta solista.

 

Ringraziando il cielo che le emissioni si limitino, per il momento, al gas e non abbiano diversa e maggiore consistenza, lascio spazientita il laboratorio intenzionata a rientrare nei miei appartamenti, tuttavia i rumori di un alterco provenienti da una stanzetta in fondo al corridoio (che, come nelle migliori tradizioni horror, è inaccessibile ma accende in me una malsana curiosità) fanno cambiare i miei piani. Mi avvicino con passo quatto. Origlio. Un uomo e una donna altercano furiosamente in un ottimo tedesco, lingua che, al contrario del rumeno, conosco piuttosto bene, avendo frequentato all’università di Heidelberg dei corsi post laurea di paleografia antica. Riconosco la vocetta stridula di Skopy Scopescu, ma non quella bellissima, scura e vellutata, di lui. Appurato che non si tratta né di papà Scopescu e nemmeno di Bonomelli Due, decido di dare una sbirciatina attraverso il buco della serratura…

 

I capelli gialli irti sulla testa e gli occhi spiritati, baby Scopescu urla improperi e contumelie d’ogni genere a un uomo. Un bell’uomo, almeno tale a me sembra, visto che mi dà le spalle, dal fisico prestante e dai lunghi capelli biondi, completamente nudo al pari della mummia su cui mi hanno ingiunto di effettuare il famigerato esperimento. Ma questo è vivo, vegeto e non suona la trombetta. Imprecando come mille facchini turchi , cerca di far comprendere alla sua interlocutrice che non intende prendere “quella medicina fottuta”. Il polveroso pavimento è disseminato di pastigliette blu. Viagra.

 

-Ti ho fabbricato e ti ho infuso la vita, maledetto te! E farai come dico io!

-Mi ha fatto il barone Otto Von Frankenstein…Tu, pasticciona, sei stata capace di fabbricare con frattaglie, trippe e pelletiche avanzate dai suoi esperimenti quella brutta mummia che riesce solo a scoreggiare!!! E quando ti sei accorta che di più non eri in grado di combinare, mi hai rubato, portandomi via al mio creatore prima che l’esperimento fosse portato a termine! Al barone è venuta una sincope…

-Credevi che campasse in eterno?Aveva centodue anni e stava in piedi per miracolo!

-Sì, ma se la sincope gli fosse pigliata una settimana dopo mi avrebbe portato a termine…Tu sei una fottutissima incompetente figlia di madre puttana e adesso che il barone non c’è più il difetto mi toccherà tenermelo per sempre!!!

-Prendi la medicina, deficiente!

-Manco se mi scanni! Il Viagra propinalo a quel moscione di tuo padre! Piuttosto, che cosa aspetti a procurarmi dei vestiti che qui ci fa un freddo cane?

-Bravo, io ti procuro i vestiti e tu te la squagli…

 

Me ne vado prima che la porta si apra e Skopy Scopescu sappia che ho violato il suo segreto. Ma una scoperta importante l’ho fatta io pure. Nel film, il mostro era un gigante con gli occhi cotti e la testa ricucita e i piedi piatti che invece di parlare emetteva cavernosi e terrificanti brontolii. Qui i mostri sono due, anche se definire tale il secondo, da quel poco che ho visto, mi sembra fuorviante. E se il primo non è che una povera mummia scorreggiona, questi è invece un tipetto sveglio che sa pure le lingue e non ha niente a che vedere col mastodonte ricucito dai piedi piatti che mi spaventava nei film. Riproponendomi di vederci chiaro, passo in laboratorio, do una tiratina alla leva tanto per vedere che cosa succede…E succede la solita cosa: il concerto per trombetta solista. Esasperata, raccatto da terra un tappo di sughero…Dopodiché, stanca, incazzata e disgustata, mi ritiro nei miei appartamenti e mi butto su un letto che cigola a ogni piè sospinto sperando invano in una nottata di sonno decente.

 

***

 

Ho scoperto che è sabato: il giorno in cui la dolce Skopy e Bonomelli Due si recano al villaggio a far provviste. Bene, avrò tutto il tempo che voglio per andare a trovare l’altra creatura e vederci più chiaro in merito a parecchie faccende.

 

Busso. Avanti, la porta è aperta, mi fa lui, in rumeno. Spingo. Entro. Sgrano addosso al mostro di Frankenstein tanto d’occhi e mi rendo conto che definirlo tale non è solo fuorviante: è una bestemmia. La Creatura è un uomo bellissimo, sui trentacinque anni. Evidentemente, la buonanima del “nonno” oltre che un eminente scienziato era anche un artista degno di competere con il grande Michelangelo. Solo che, a differenza del David, questo parla, si muove, sorride, è caldo, è vivo… Ha i capelli lunghi che gli incorniciano un volto tondeggiante, dai tratti regolari e un po’ infantili, appena incrudeliti da un filino di barba e da due occhi verdeazzurri che sembrano quelli di una tigre. Il corpo, poi…Meglio che taccia, altrimenti scivolerei più o meno involontariamente nella pornografia spicciola : grosso, forte, muscoloso e proporzionato…perfetto dappertutto ed è meglio, davvero, non dire altro. Rassomiglia, per i pochi che avessero visto quel grazioso filmettino mai distribuito qui in Italia, al protagonista di “Mystery Alaska”. Solo che quello era imbottito di giubbottoni, scarponi, calzoni, cuffioni e golfoni spessi così. Lui, invece mi sta davanti, con la più completa naturalezza, gloriosamente nudo, a Napoli direbbero commo facette mammeta, anzi commo facette Frankenstein. Più o meno involontariamente, lo sguardo mi scivola sulla sua splendida attrezzatura di piacere e mi si stringe il cuore al pensiero di quel che ho udito il giorno prima. E’ proprio vero che non c’è giustizia nella vita: nemmeno per i mostri.

 

-La signora desidera?

Mi fa piegando garbatamente in avanti la testa ricciuta e dorata. La situazione è a dir poco grottesca e debbo sforzarmi per non ridere. O per non saltargli addosso.

-Vorrei parlare con voi.

Gli rispondo, in tedesco. Al che lui replica dicendomi che è in grado di dialogare con la sottoscritta anche in inglese. O in italiano, se preferisco. Alla mia espressione stupita, asserisce che il barone Otto Von Frankenstein, per fabbricarlo, non ha usato solo carne ossa e rivestimenti di ottima qualità ma non ha risparmiato neppure sui neuroni. Arrivati a questo punto, è ovvio che non oso mettere in dubbio le sue asserzioni.

 

-Ero convinta che fosse stata…la signorina Scopescu a fabbricarvi.

 

Lui ride, mettendo in mostra i piccoli denti bianchi e regolari.

 

-Bah, l’unica cosa che è stata capace di confezionare quella là è la mummia scorreggiona che sicuramente padre e figlia vi hanno gabellato come l’esperimento del Barone. Quella befana è da anni alla ricerca di un marito, siccome non riusciva a trovarlo ha deciso di fabbricarselo su misura, ha recuperato un secchio di ossame, frattaglie e pelletiche e quel che è venuto fuori dovreste conoscerlo bene. Magari se lo sarebbe anche tenuto, fosse riuscita a infondere in lui il soffio vitale. Ma temo abbia sbagliato il calibro del buco del culo, sicché il soffio in questione entra da una parte ed esce dall’altra…Che cosa vi hanno detto, che non uscirete da qui finché la mummia non prenderà vita?

 

A quel pensiero, che mi terrorizza almeno quanto la patente a punti, mi sento raggelare. Ma lo invito a continuare perché voglio conoscere il resto della storia.

 

-Siccome l’unica cosa che la mummia fosse in grado di produrre era aria puzzolente, allora la signorina ha deciso di rapirmi, sottraendomi al mio creatore prima che potesse completare l’opera. E adesso che lui è morto…

 

Guardando i suoi dolci occhi azzurri velarsi di tristezza, mi metterei a piangere. Dopodiché cado in preda a cupi istinti omicidi rivolti tutti quanti a quell’accidente di Skopy Scopescu, che dal primo momento in cui l’ho vista mi è stata subito antipatica. Povero, povero, povero bellissimo mostro…

 

-Vi avranno pur messo un nome…-gli chiedo continuando a fissare come una deficiente la sua stupenda e perfettamente inutile dotazione anatomica. Rusty. Mi fa lui ridendo. Dopodiché mi mostra il dito medio della mano sinistra. E’ rigido, mi dice. Impossibile piegarlo. Provate a pensare ai problemi che potrei avere se decidessi di imparare a suonare la chitarra…

 

A quelle parole, arrossendo come un pomodoro pachino andato a male, riesco a biascicare tra i denti una parola soltanto. Viagra. Lui scoppia in una sonora risata. Avete origliato? Mi domanda. Non mi sembra incavolato, meglio così, perché, grosso e muscoloso com’è, se lo fosse sarebbe per me un problema di complicatissima risoluzione.

 

-Quella cretina vorrebbe propinarmelo-mi fa sollevandomi il mento con due dita e costringendomi a guardarlo negli occhi- Ma io non ho bisogno di quella porcheria, solo di una donna come si deve…Proprio come te.

 

Mi abbraccia. Mhhh, penso io a un passo dalla follia: capelli d’oro, occhi di fuoco, pelle di seta, muscoli d’acciaio, voce di velluto… E quando inizia la cerimonia dell’alzabandiera posso aggiungere in tutta tranquillità attributi di cemento. Nonno Frankenstein ha fatto davvero un gran bel lavoro.

 

***

 

Sinceramente, non ho mai capito che razza di pesce sia questa Skopy Scopescu. Anzi, ad essere sincera, non me n’è mai importato più di tanto. La priorità, in questo momento, è fuggire dal castello maledetto tirandomi appresso quello che continuo a chiamare il mostro e che la buonanima di “nonno” Frankenstein ha dotato oltre al resto di un’attrezzatura di piacere davvero degna di nota per quantità, qualità e durata.

Ci stiamo beatamente rotolando nel letto e io sono felicissima d’aver toccato con mano che il problema di questo dio greco è soltanto il dito medio della mano sinistra e non qualcos’altro, come avevo temuto. Ma a questo punto, cominciano i problemi veri.

 

Infuriata come un’Erinni, Skopy Scopescu si fionda nella nostra stanza distogliendoci dalle dilettevoli occupazioni che io e Rusty avevamo intrapreso. Urlando come un’indemoniata, lo copre di atroci contumelie, arrivando perfino a chiamarlo figlio di puttana anche se, francamente, mi riesce difficile immaginare il venerando e attempato barone Otto Von Frankenstein in minigonna e megazeppe, mentre aspetta i clienti davanti al fuocherello sulla Tangenziale Ovest. Rusty, senza darle troppa importanza, la manda affanculo e Skopy gli si precipita addosso tempestandolo di pugni. “Con me no e con lei sì, brutto maiale?!” gli grida nelle orecchie cacciando fuori tutta l’aria che possono contenere i suoi striminziti polmoni. Aria, suppongo, non troppo balsamica, stando alle smorfie che alterano la bellissima faccia della Creatura: aglio, cipolla, peperoncino, gorgonzola? Bah. Lui comunque non impiega molto a scrollarsela di dosso neanche si fosse trattato di una pulce, mandandola a cadere dritta dritta sul logoro tappeto ai piedi del letto.

 

Io, immobile e annichilita come se la polizia stradale stesse per comunicarmi che debbono ritirarmi la patente avendo commesso un’infrazione da venti punti, non oserei guardare, ma sono costretta a farlo. Finchè, inquadrata dal vano della porta, vedo comparire la Mummia. Ha preso finalmente vita e si muove con il passo di un’oca artritica. Ha tentato di coprirsi le vergogne con un rozzo perizoma di carta igienica Cantacesso stampigliata con le effigi di Berlusconi e Cofferati, da cui trapela un modesto accenno di alzabandiera. Come si china per raccattare da terra la povera Skopy Scopescu, un tappo di sughero gli sfugge dal deretano. Lo riconosco. E’ quello che, esasperata, gli piazzai e che permise al fluido vitale di non sfuggire dal mal calibrato sfintere posteriore. E quando se ne va tenendo tra le braccia l’infelice ed eterea creatura, la sinfonia per trombetta solista riprende, implacabile. Ed io penso che, considerate le velleità musicali di lei, i due potrebbero formare un interessante ensemble vocale e strumentale…Il Duo di Transilvania? L’Orchestra Spettacolo Scopescu?

 

Epilogo

 

Sabato. Avrei potuto dormire, svegliarmi a mezzogiorno e metabolizzare melanzane e brutti sogni. Invece niente. Squilla il maledetto cellulare quando non sono ancora le otto e una vocina che ben conosco mi chiede se ho impegni. Ha fissato, mi dice, l’appuntamento con il noto chirurgo plastico professor Cantarutti per le dieci e mi chiede la cortesia di accompagnarlo. E siccome la sottoscritta è fessa…

FINE

Lalla, 3 luglio 2003

 

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