Dal ripiano alto del frigorifero
occhieggiano con la loro appetitosa crosta bruno dorata
Le ha preparate mia madre che, contrariamente alla
sottoscritta, in cucina è un asso. Faccio a mente il
calcolo delle calorie, sbagliandolo mi auguro per
eccesso perché in matematica sono sempre stata una
schiappa ma almeno così posso far tacere la mia
coscienza, afferro la teglia con entrambe le mani come
se quella fosse una tavola e io Robinson appena scampato
al naufragio del suo veliero. La coscienza però
continua a rimordermi. E per metterla a tacere una volta
per tutte mi dico da me sola che la giornata è stata
pesante. Come al solito.
Di mattina, ho dovuto accompagnare il
dottor Vargiulo, l’archeologo che rassomiglia a Nicola
di Bari, a vedere il gladiatore. No, non l’ho portato
al cinema, bensì nel parco del megavillone del
commendator Brambilla dove, nel corso dell’ennesimo
scavo, è emerso l’ennesimo scheletro. Quello di un
gladiatore sepolto con i suoi ferri del mestiere, rete e
tridente. Difficile, penso mentre i rilievi vengono
metodicamente da noi compiuti, associare a Russell Crowe
o anche al Kirk Douglas dei suoi bei tempi andati quel
mucchietto d’ossa calcinate tenute insieme da quattro
pelletiche incartapecorite. Dall’altra parte del
recinto, i due rottweiller addestrati a tenere i
malintenzionati alla larga abbaiano come dannati e
sbavano, ingolositi dalla vista delle pluri millenarie
ossa e pelletiche, che rosicchierebbero volentieri coi
loro dentacci degni del Conte Dracula. Per tenerli
buoni, mi sono riempita le tasche del giubbotto di
crocchette Ciappi. Almeno, mi dico, mangiano, intanto
che lo fanno non ci assordano con i loro latrati e ci
lasciano lavorare in pace.
Torno a casa, ancora rintronata dagli
urli delle belve, con gli occhi rossi per la polvere, le
ginocchia cappaò e la schiena a pezzi, mi butto a corpo
morto sul divano…E squilla il cellulare. Cantacesso.
Vorrei mandarlo a quel paese, visto
che stanca come sono non intendo subire la millesima
puntata della saga delle sue paturnie, ma…So che il
poveretto è molto fragile, in questo periodo: ha appena
commesso il primo grave errore della sua carriera
imprenditoriale e, come se non bastasse, è entrato in
conflitto con la sua immagine. Ma procediamo con ordine.
Travolto da improvviso quanto
pernicioso delirio creativo, Giacomo Leopardi Cantacesso
ha inventato la carta igienica personalizzata. E che
cosa c’è di meglio che usare i vip per saggiare il
possibile successo del prodotto sulle masse? Detto
fatto. I rotoli con serigrafate le rispettive immagini
sono stati recapitati al Capo dell’Esecutivo, cavalier
Silvio Berlusconi, e all’ex segretario della CGL,
Sergio Cofferati. Iquali non hanno gradito, anzi, hanno
rispedito al mittente l’omaggio, accompagnandolo con
concrete minacce di azioni giudiziarie. Ho cercato di
far comprendere al Cantacesso che a nessuno piace l’idea
di pulirsi il culo con l’immagine della propria faccia
e che, forse, avrebbe fatto meglio a spedire a
Berlusconi la carta igienica destinata a Cofferati e
viceversa. Invece di sentirsi vilipesi, i due
probabilmente si sarebbero divertiti. E non avrebbero
esitato a sperimentare sulle proprie parti posteriori il
prodotto. Per poi complimentarsi con il suo inventore e
richiederne una consistente fornitura.
Probabilmente, questo primo
insuccesso professionale ha acuito nel tapino i
complessi che si tira dietro dalla nascita. E’
entrato, come direbbe lo psicologo della mutua, in
conflitto con la sua immagine e vorrebbe disperatamente
cambiarla. Obiettivamente non riesco a dargli torto, ma
quando comincia a parlarmi di chirurgia estetica e maghi
del bisturi il pensiero corre al povero Michael Jackson
e a come l’hanno ridotto la sua stupidità e quattro
ciarlatani privi di scrupoli che in questa hanno trovato
un filone d’oro: ve lo ricordate com’era agli indizi
della carriera? Un ragazzino di colore niente male. E ce
l’avete presente com’è adesso? Un orrore senza
sesso, senza età, senza identità razziale e senza
naso.
Vorrei dirgli che la serena
accettazione di se stessi è segno di sicurezza,
maturità e affidabilità, ma lo guardo bene e penso
sarebbe una vigliaccheria, peggio che sparare sulla
Croce Rossa. Allora gli prometto che, nel pomeriggio, lo
accompagnerò dal professor Garavaglia, uno dei più
eminenti chirurghi plastici d’Italia. Anche se so
benissimo che neppure lui è in grado di fare miracoli e
che un miracolo è la sola cosa di cui il derelitto con
il suo metro e sessantacinque di ossa e pelletiche, la
scoliosi, il nasone, la boccaccia, la dentiera, e il
parrucchino sulla crapa pelata avrebbe bisogno.
Nello studio del professor Garavaglia,
scartabello nervosa una rivista mentre attendo che il
Cantacesso esca dall’ambulatorio dov’è in corso il
consulto. Conosco personalmente il luminare, che da
ragazzino era assiduo frequentatore di casa mia, essendo
compagno di liceo e grande amico di mio fratello. So che
ha restituito un aspetto decente a persone sfregiate
dalle ustioni o nate con spaventose deformità. So che
è un professionista scrupolosissimo, citato a titolo d’esempio
per la sua generosità: non si contano le volte in cui
è intervenuto su pazienti che versavano in condizioni
di grave indigenza a titolo completamente gratuito. Ma
siccome anche lui deve pur campare e sfogare il suo
caratteraccio allo zolfo…Beh, ci sono le dive in
disarmo con le tette da tirare su, le signore bene che
hanno bisogno di una limatina al naso e i manager
sessantenni che ripongono nel lifting la speranza di
poter fare ancora i ganzi in discoteca senza rendersi
ridicoli. Quelli li piglia a parolacce. E li ripulisce
fino all’ultimo eurocent, ma li lascia soddisfatti. Di
solito.
Non lo tratterà troppo male, penso,
in fin dei conti anche Cantacesso è un pietosissimo
caso umano…Finchè non vedo uscire il derelitto dall’ambulatorio
con l’aria del cane bastonato e una foto stazzonata di
Russell Crowe stretta in pugno. Mi riferisce quel che
gli è stato detto. Si metta bene in testa, caro
signore, che non posso allungarla di quindici
centimetri, imbottirla di muscoli, raddrizzarle la
schiena, farle rispuntare dei bei denti bianchi e una
folta chioma bionda e toglierle vent’anni. Sono un
chirurgo plastico, mica Nostro Signore Gesù Cristo!
Dalla teglia di alluminio anti
aderente, le melanzane mi guardano. Naturalmente, come
tutte le melanzane alla parmigiana degne di questo nome
non favellano, ma è come se favellassero e mi dicessero
mangiami, mangiami…Non posso restare sorda a una
simile, accorata implorazione e affondo il coltello
nella crosticina bruno dorata. A scorpacciata conclusa,
mi corico. Domani mi aspetta un’altra giornata pesante
in compagnia del gladiatore, dell’archeologo con gli
occhiali a fondo di bottiglia e dei rottweiller sempre
affamati. Ma appena le melanzane frettolosamente
ingurgitate cominciano a vorticarmi nello stomaco
intuisco che anche la nottata potrebbe essere alquanto
pesante. E, quel che è peggio, foriera di terribili
incubi.
Incubo di una notte di mezzo autunno
L’aria intorno a me è quella
fredda della notte e il giubbotto di cerata comprato per
25 euro dai cinesi non mi ripara dal vento gelido di
tramontana. La luna piena brilla nel cielo chiara come
una lanterna e i picchi dirupati di montagne che non ho
mai visto si stagliano sfumati nella caligine contro la
linea dell’orizzonte. Mi trovo in aperta campagna, sul
ciglio di una polverosa strada bianca a poche decine di
metri dalla quale intravedo il folto impenetrabile di
una faggeta da cui s’innalza un lugubre ululato che,
qualsiasi cosa abbia sentito uscire dalla bocca degli
Angela padre e figlio e di Fulco Pratesi circa le
calunnie di cui nel corso dei secoli sono stati vittime
questi poveri animali, mi auguro sia la voce del vento e
non…Oddio. Otto grandi occhi verdi e fosforescenti mi
fissano e, illuminate dalla luna, intravedo le sagome
agili di quattro grossi cani che rassomigliano al
pastore tedesco del colonnello Bortolon, l’inquilino
del pianterreno. Ostentando indifferenza, mi frugo nelle
tasche alla disperata ricerca d’un eventuale residuo
di crocchette Ciappi…Salvo rendermi conto che quelli
non sono cani, bensì lupi e aggrapparmi come una
disperata alle affermazioni di Piero Angela e Fulco
Pratesi per non cedere alla tentazione di farmela sotto
dalla paura.
Un rumore sinistro di ferraglie
accompagnato dallo scalpiccio ritmato degli zoccoli di
un cavallo comincia a percepirsi dal fondo della strada.
Sarei felice che il conducente mi togliesse dalle peste
e dalla scomoda compagnia di quelle bestiacce che
continuano a guardarmi con i loro occhi maligni e
sornioni. Il capobranco si lecca voluttuosamente i baffi
e voglio sperare lo faccia perché ha trovato
particolarmente appetibile il pugno di crocchette Ciappi
che gli ho lanciato, non già perché trova
particolarmente appetibile l’impiegata cicciotella che
gli sta davanti e ne pregusta il sapore.
La carrozza, trainata da due grossi
cavalli neri, si ferma proprio davanti a me. I lupi
tagliano la corda e il vetturino mi fa con la mano cenno
di salire. Dovrei sentirmi più tranquilla invece…Boh.
Che ti prende? Mi domando. Dovresti ringraziarlo che ti
ha tolto dai guai, maleducata irriconoscente! E’ un
omiciattolo sinistramente intabarrato di nero e
rassomiglia come una goccia d’acqua all’amministratore
del mio condominio, il geometra Bonomelli, che, ad onta
del soporifero cognome che si porta appresso, è una
visione da incubo e sembra la versione peggiorata di
Dario Argento. Non dovrebbe essere difficile immaginare
l’effetto di cotale apparizione in piena notte, in una
stradicciola deserta al limitare del bosco, con un vento
gelido che scuote le cime degli alberi, e i lupi che,
nascosti chissà dove, continuano imperterriti il loro
sinistro concerto di ululati. Anche perché, dopo averlo
guardato bene, mi accorgo che il veicolo è una carrozza
mortuaria con tanto di pennacchi, drappi viola e lumini
da cui emana una luce fioca.
Che fare? Sali, cretina, mi dico da
me sola intravedendo tra gli alberi al limitare del
bosco la bestiaccia dagli occhiacci verdi che si lecca i
dentacci bianchi con la linguaccia rossa. E salgo.
La carrozza mortuaria procede a
sobbalzi inerpicandosi sulla stradina in salita e io
faccio sforzi titanici per non andare a cascare lunga
distesa nella bara aperta, foderata di seta nera, che mi
sta a fianco. Taccio stoicamente, augurandomi nel
profondo del cuore che il tragitto sia breve, anche
perché i lampi che si rincorrono nel cielo e i tuoni
che rimbombano per ogni dove lasciano prevedere un ormai
prossimo temporale. Quando giungiamo finalmente a
destinazione, le prime grosse gocce hanno appena
iniziato a cadere.
Il vetturino smonta da cassetta,
quindi mi porge con cortesia la manaccia adunca per
invitarmi a scendere. Bussa. Non passa che una frazione
di secondo, e il massiccio portone borchiato del cadente
castello si apre senza lasciarci aspettare. Come se
fossimo attesi.
-Benvenuta, baronessa Von
Frankenstein.
Sento la voce, ma non vedo il mio
interlocutore. Non subito, almeno. Faccio in tempo a
pensare ma quale baronessa e quale Von Frankenstein, le
mie sono banalissime ascendenze piccolo borghesi e mi
chiamo De Martini…E allora lo vedo, illuminato
sinistramente dalla luce emanata dal candelabro che
tiene in mano. E’ un omuncolo alto come un hobbit, con
la testa seminascosta da un cappuccio e una vistosa
gobba sulla schiena che, a Napoli, avrebbe fatto le sue
fortune. Ma il tratto più singolare del funesto
individuo sono gli occhi enormi, pallati, che si muovono
autonomamente l’uno dall’altro, come quelli di un
camaleonte.
-Servo vostro, baronessa. Il mio nome
è Aigor Scopescu. Abbiate la compiacenza di seguirmi
nella biblioteca di vostro nonno, affinché possa
parlarvi…
Lo seguo, domandandomi in quale
manicomio io possa essere finita. Nessuno dei miei nonni
viveva in un castello diroccato, aveva una biblioteca
né, men che meno, un servitore con gli occhi scoppati e
la gobba. I miei nonni erano rispettivamente un
maresciallo dei carabinieri originario di Partinico e un
maestro elementare di Gallarate. E ho elementi
sufficienti per pensare che le loro rispettive consorti
fossero abbastanza serie da potermi far asserire con
sicurezza che i miei nonni erano PROPRIO LORO, e che non
c’entro niente con il barone Von Frankenstein.
-Otto Von Frankenstein...Se la morte
non lo avesse colto all’improvviso, vostro nonno
avrebbe realizzato un esperimento di fondamentale
importanza per il progresso della scienza…Un
esperimento che, in quanto ultima discendente, avete il
dovere imprescindibile di portare avanti…Baronessa.
Ascolto perplessa le affermazioni del
gobbo, anche perché ho sempre detestato le materie
scientifiche fin dalla prima elementare, non ci ho mai
capito nulla e neppure mi interessa capirci qualcosa.
Eppure la sua voce catarrosa ostenta una tale sicumera…Vorrei
scappare, ma per andare dove? Fuori imperversa un
violento temporale. E, quel che è peggio, ci sono i
lupi.
Per non pensarci, guardo fingendo
interesse i quadri appesi a quegli angoli delle pareti
che sono liberi dagli scaffali. I ritratti dei Von
Frankenstein. Si somigliano tutti, con i loro capelli
arruffati e gli occhi folli che attestano i venerdì
fuori posto dell’illustre genia asburgica al gran
completo. Grazie al cielo, nessuno di loro rassomiglia a
ME. Neppure vagamente. Prima o poi, penso, dovrò
decidermi a spiegare l’equivoco. Magari dopo aver
messo qualcosa sotto i denti e trascorso la nottata al
riparo dal temporale e al sicuro dai lupi.
Dopo un lungo attimo di silenzio
imbarazzato, nel corso del quale il cocchiere identico
al geometra Bonomelli è entrato in biblioteca e mi ha
porto con l’espressione impassibile di sempre stampata
sulla sua brutta faccia un vassoio pieno di dolcetti
appiccicosi dall’aspetto poco invitante che ho
stoicamente mangiato per calmare la fame e il nervoso,
Aigor Scopescu ha alzato gli occhi al cielo e,
sospirando, mi ha detto che anche le sue origini sono
nobili e che, non fosse stato per il rovescio di fortuna
subito dal padre di suo padre, che aveva la passione del
gioco e delle donnine allegre, anche lui a quest’ora
vivrebbe servito riverito e rispettato in un antico
castello e non sarebbe costretto ad esercitare le
mansioni di maggiordomo dei Von Frankenstein. E,
soprattutto, la sua adorata figliola non farebbe la
muffa in attesa di un marito ma avrebbe la fila dei
corteggiatori appostati sotto il balcone giorno e notte.
Faccenda in merito alla quale nutro seri dubbi,
considerato il poco attraente aspetto di papà Scopescu,
dal quale la ragazza avrà pur preso qualcosa.
-Quella degli Scopescu è una
famiglia antica…Discendiamo addirittura dal grande
imperatore romano Marco Aurelio…
-Davvero?-faccio io. Pur stentando a
credere alle affermazioni della gibbosa creatura, da
persona educata, ho il dovere di starlo a sentire, che
stia o meno sproloquiando sotto l’effetto di chissà
che cosa. E poi, quando c’è di mezzo la storia di
Roma…
-Discendiamo per la precisione da una
sua figlia adulterina, Dania Scopilia Sportula, la
quale, travolta da folle passione per il giullare del
perfido fratellastro Commodo, fuggì con lui nella Dacia
(Romania, N.d.A.), regione di cui l’uomo, che
si chiamava Bietulus Apestosus Putrefactus, era
originario…Il figlio nato dal loro amore, Bietulinus
Apestosus Sportulus fu il capostipite della nostra genia…Ben
più antica di quella dei Von Frankenstein che i rovesci
delle nostre fortune ci costringono oggi a servire…
Il gobbo emette un sospiro che sembra
una via di mezzo tra un barrito ed un rutto, io mi ficco
in bocca un altro dolcetto al vinavil e lo lascio
parlare, mentre fingo di contemplare i ritratti di
coloro che dovrebbero essere i miei antenati.
-In questa biblioteca troverete i
testi e gli stessi appunti del vostro avo grazie ai
quali potrete portare a termine la sua opera. Io non
potrò assistervi in questa grande impresa perché
domani stesso partirò per Bordighera: il medico mi ha
prescritto aria di mare per curare l’asma. Ma vi
lascerò in buone mani…Confidando nel fatto che
adempirete al vostro dovere per onorare la scienza e la
memoria del barone Otto Von Frankenstein.
Dall’occhiata che mi saetta con i
suoi grossi occhi scoppati, capisco che non uscirò di
qui prima di aver portato a termine l’esperimento
famigerato. Ragion per cui, se voglio andarmene da
questo posto, e la faccenda in verità mi preme molto e
non poco, devo prendere i maledetti appunti e mettermi a
studiare. Anche se so già che non ne capirò un fico
secco.
***
Dopo una notte trascorsa interamente
in bianco, alle sei del mattino mi addormento. E alle
sei e un quarto vengo svegliata da una vocina che par
provenga dall’oltretomba e intona, si fa per dire, un
motivetto a metà strada tra la Messa di Requiem e l’Orchestra
Spettacolo Casadei accompagnandosi con quel che sembra
un organo a canne. A dire il vero, sono io che mi farei
una canna molto volentieri, in questo momento. Almeno,
sotto l’effetto, il futuro mi sembrerebbe più roseo
o, al limite, potrei continuare a dormire ancora un po’.
Invece, eccoti il sosia del Bonomelli,
che per un atroce scherzo del destino, invece di
conciliarmi il sonno, è venuto a svegliarmi
definitivamente. Reca con sé il vassoio della colazione
e il programma della giornata. Cominciamo ad esaminare
il primo: contiene uno yogurt (alimento che, tra
parentesi, non ho mai potuto soffrire) che sembra
calcestruzzo, un cetriolo delle dimensioni e della
consistenza di una clava e i soliti biscotti al vinavil.
Butto giù il tutto senza manco masticarlo per evitare i
conati che quelle schifezze potrebbero provocarmi
qualora sostassero in bocca oltre il nanosecondo.
Ascolto quindi con pazienza il programma della giornata:
ho dieci minuti di tempo per la vestizione e le
abluzioni, dopo di che Mademoiselle Scopescu verrà a
prendermi per condurmi in laboratorio e assistermi negli
sviluppi del famigerato esperimento che, succeda quel
che succeda, spero addivenga alle giuste conclusioni
quanto prima possibile.
Skopy Scopescu, che ho testé avuto l’onore
e il piacere di conoscere, a quanto pare parla solo
rumeno. Fortunatamente, trattandosi di una lingua
neolatina, quindi abbastanza somigliante all’italiano,
riesco ad afferrare qualcosa. Mentre un po’ a gesti un
po’ a parole mi invita ad aprire l’involto che mi
sta davanti disteso su un tavolaccio e, per quanto ne so
io potrebbe contenere una mastodontica triglia al
cartoccio anche se sicuramente contiene l’oggetto dell’esperimento,
io la osservo. Da papà Scopescu ha preso la statura e
il collo corto, mentre la gobba è ridotta ad un accenno
di scapole alate messe in evidenza da una canottierina
striminzita. La vista di una donna brutta mi ha sempre
recato grande consolazione, come dire, ciccia, c’è
chi sta peggio di te. A meno che non la veda in
compagnia di un uomo bello, perché ciò mi provoca
terribili travasi di bile. Questa qui è peggio che
brutta: è insulsa. Mentre la bruttezza del padre era
infatti talmente clamorosa e unica da risultare infine a
modo suo un capolavoro di Madre Natura, la progenie è
insipida senza misericordia, come lo yogurt e il
cetriolone che il sosia del Bonomelli mi servì poc’anzi
e che debbo ancora digerire. Ho detto che è bassa. Ho
detto che ha due centimetri scarsi di collo e la testa
grande quanto la zucca di Halloween. Ho detto che ha le
scapole alate. Adesso dirò che ha i capelli a spinacio
color giallo piscio con vistose ricrescite scure, gli
occhi che messi insieme sono grandi quanto una pupilla
di suo padre, la bocca fino alle orecchie e due narici
che farebbero la felicità dell’ingegnere che ha
progettato il traforo del Brennero. Procedendo nella
perizia, abbasso gli occhi e noto un paio di tettine
paragonabili all’estremità di un limone rinseccolito
piazzate su costole effetto Biafra, gambette e braccine
in confronto alle quali una mantide religiosa sembra
Russell Crowe…Basta, se no mi dite che sono perfida.
Ah, dimenticavo. Quando parla, tira fuori una vocetta
querula e antipatica nella quale non tardo a
identificare quella che mi ha svegliato deliziandomi con
la Messa di Requiem arrangiata da Raul Casadei.
Bonomelli Due La Vendetta mi aveva altresì informata
che la massima aspirazione dello sgorbietto è quella di
diventare una cantante di successo. Vabbè che, con le
porcherie che passa la radio, nel mondo delle sette note
forse anche baby Scopescu potrebbe ritagliarsi un
posticino.
***
Il domopak che nasconde ai miei occhi
l’esperimento di nonno Frankenstein viene
metodicamente aperto dalle manine adunche di Skopy
Scopescu. Non oso guardare, ma debbo farlo. Noto uno
spesso strato di erbe aromatiche impiegato probabilmente
e altrettanto inutilmente per mascherare il tanfo che si
propaga da una sorta di mummia completamente avvolta
nella carta igienica marca Cantacesso, mi pare ovvio.
Anche questa viene rimossa e, sotto i miei occhi si
materializza l’immagine di un ometto piccolo piccolo,
con la faccia livida, un parrucchino giallo sul
cocuzzolo della testa, il nasone che gli piscia in bocca
e le labbra stirate sulla dentiera. Quando mi accorgo
che è completamente nudo e lo sguardo mi cade sugli
osceni attributi che possono essere paragonati a un
mozzicone di matita e a un caco fradicio, mi metto a
urlare. Non già perché il mio virginale pudore sia
stato offeso dalla visione senza censura delle sue
miserande vergogne, ma perché ho riconosciuto il
soggetto: è impossibile che al mondo ne esista un altro
uguale.
Inghiotto la saliva e ricaccio
indietro a fatica yogurt e cetriolone che minacciavano
seriamente di riaffacciarsi alla ribalta. Skopy Scopescu
mi porge un marchingegno strano, una sorta di casco da
parrucchiera collegato a un ordigno da cui si dipartono
fili elettrici multicolori collegati con una grossa
leva. Tu mette questo in sua testa e tira questo, tira
tira fino a che lui svegliare. Mi fa in uno pseudo
italiano che somiglia a quello degli zingari quando ti
minacciano un terribile malocchio se non gli dai l’elemosina.
Quindi se ne va. Io sono ancora lì, come un’ebete con
il casco in mano quando la sento riattaccare con il
Casadei da Requiem. Allora mi decido.
Ho sistemato il casco. Ho tirato la
leva. Più e più volte. L’unico risultato che ho
ottenuto è stato quello di provocare al poveretto la
rumorosa e fetida fuoriuscita di un metro cubo di gas
intestinale. E sono tornata indietro con la memoria agli
anni del liceo e al passo dell’ Inferno dantesco che
puntualmente l’insegnante di italiano saltava ma noi
alunni avevamo scovato lo stesso: quello riferito al
demonio Barbariccia, che “avea del cul fatto trombetta”
(Inferno, canto XXI, verso 139 N.d.A).
Non c’è voluto molto a capire dove
mi trovassi e in che cosa consistesse il famoso
esperimento: da ragazzina guardavo con voluttà
maniacale qualsivoglia film dell’orrore, salvo poi
spaventarmi e sorbirmi le geremiadi della mamma quando
pretendevo di dormire con la luce accesa tenendo sveglia
tutta la casa. Ero finita nel bel mezzo della truce
vicenda del Barone Von Frankenstein e della sua
Creatura. Il compito lasciatomi in eredità dal “nonno”
era risvegliarla infondendole la vita: ma l’ unico
segno di vita che quella mummia dava, per quanti sforzi
continuassi a fare, era il concerto fragoroso e
puzzolente per trombetta solista. A buon intenditor,
poche parole.
***
Anche questa mattina non è stato il
canto del gallo (mi domando se ne sia rimasto ancora
qualcuno o i lupi li abbiano divorati tutti quanti) a
svegliarmi, ma la vocetta sconocchiata di Skopy Scopescu
che, accompagnandosi con l’organo a canne, suonava il
Dies Irae arrangiato dal maestro Raul Casadei. Come di
consueto, ingollata la disgustosa colazione, mi sono
recata nell’orrendo laboratorio gremito di polvere,
ragnatele, pipistrelli, alambicchi, provette, scheletri
e altre schifezze, ho sistemato il casco da parrucchiera
in testa alla mummia, ho tirato la leva…e mi sono
sorbita tre quarti d’ora di concerto per trombetta
solista.
Ringraziando il cielo che le
emissioni si limitino, per il momento, al gas e non
abbiano diversa e maggiore consistenza, lascio
spazientita il laboratorio intenzionata a rientrare nei
miei appartamenti, tuttavia i rumori di un alterco
provenienti da una stanzetta in fondo al corridoio (che,
come nelle migliori tradizioni horror, è inaccessibile
ma accende in me una malsana curiosità) fanno cambiare
i miei piani. Mi avvicino con passo quatto. Origlio. Un
uomo e una donna altercano furiosamente in un ottimo
tedesco, lingua che, al contrario del rumeno, conosco
piuttosto bene, avendo frequentato all’università di
Heidelberg dei corsi post laurea di paleografia antica.
Riconosco la vocetta stridula di Skopy Scopescu, ma non
quella bellissima, scura e vellutata, di lui. Appurato
che non si tratta né di papà Scopescu e nemmeno di
Bonomelli Due, decido di dare una sbirciatina attraverso
il buco della serratura…
I capelli gialli irti sulla testa e
gli occhi spiritati, baby Scopescu urla improperi e
contumelie d’ogni genere a un uomo. Un bell’uomo,
almeno tale a me sembra, visto che mi dà le spalle, dal
fisico prestante e dai lunghi capelli biondi,
completamente nudo al pari della mummia su cui mi hanno
ingiunto di effettuare il famigerato esperimento. Ma
questo è vivo, vegeto e non suona la trombetta.
Imprecando come mille facchini turchi , cerca di far
comprendere alla sua interlocutrice che non intende
prendere “quella medicina fottuta”. Il polveroso
pavimento è disseminato di pastigliette blu. Viagra.
-Ti ho fabbricato e ti ho infuso la
vita, maledetto te! E farai come dico io!
-Mi ha fatto il barone Otto Von
Frankenstein…Tu, pasticciona, sei stata capace di
fabbricare con frattaglie, trippe e pelletiche avanzate
dai suoi esperimenti quella brutta mummia che riesce
solo a scoreggiare!!! E quando ti sei accorta che di
più non eri in grado di combinare, mi hai rubato,
portandomi via al mio creatore prima che l’esperimento
fosse portato a termine! Al barone è venuta una sincope…
-Credevi che campasse in eterno?Aveva
centodue anni e stava in piedi per miracolo!
-Sì, ma se la sincope gli fosse
pigliata una settimana dopo mi avrebbe portato a termine…Tu
sei una fottutissima incompetente figlia di madre
puttana e adesso che il barone non c’è più il
difetto mi toccherà tenermelo per sempre!!!
-Prendi la medicina, deficiente!
-Manco se mi scanni! Il Viagra
propinalo a quel moscione di tuo padre! Piuttosto, che
cosa aspetti a procurarmi dei vestiti che qui ci fa un
freddo cane?
-Bravo, io ti procuro i vestiti e tu
te la squagli…
Me ne vado prima che la porta si apra
e Skopy Scopescu sappia che ho violato il suo segreto.
Ma una scoperta importante l’ho fatta io pure. Nel
film, il mostro era un gigante con gli occhi cotti e la
testa ricucita e i piedi piatti che invece di parlare
emetteva cavernosi e terrificanti brontolii. Qui i
mostri sono due, anche se definire tale il secondo, da
quel poco che ho visto, mi sembra fuorviante. E se il
primo non è che una povera mummia scorreggiona, questi
è invece un tipetto sveglio che sa pure le lingue e non
ha niente a che vedere col mastodonte ricucito dai piedi
piatti che mi spaventava nei film. Riproponendomi di
vederci chiaro, passo in laboratorio, do una tiratina
alla leva tanto per vedere che cosa succede…E succede
la solita cosa: il concerto per trombetta solista.
Esasperata, raccatto da terra un tappo di sughero…Dopodiché,
stanca, incazzata e disgustata, mi ritiro nei miei
appartamenti e mi butto su un letto che cigola a ogni
piè sospinto sperando invano in una nottata di sonno
decente.
***
Ho scoperto che è sabato: il giorno
in cui la dolce Skopy e Bonomelli Due si recano al
villaggio a far provviste. Bene, avrò tutto il tempo
che voglio per andare a trovare l’altra creatura e
vederci più chiaro in merito a parecchie faccende.
Busso. Avanti, la porta è aperta, mi
fa lui, in rumeno. Spingo. Entro. Sgrano addosso al
mostro di Frankenstein tanto d’occhi e mi rendo conto
che definirlo tale non è solo fuorviante: è una
bestemmia. La Creatura è un uomo bellissimo, sui
trentacinque anni. Evidentemente, la buonanima del “nonno”
oltre che un eminente scienziato era anche un artista
degno di competere con il grande Michelangelo. Solo che,
a differenza del David, questo parla, si muove, sorride,
è caldo, è vivo… Ha i capelli lunghi che gli
incorniciano un volto tondeggiante, dai tratti regolari
e un po’ infantili, appena incrudeliti da un filino di
barba e da due occhi verdeazzurri che sembrano quelli di
una tigre. Il corpo, poi…Meglio che taccia, altrimenti
scivolerei più o meno involontariamente nella
pornografia spicciola : grosso, forte, muscoloso e
proporzionato…perfetto dappertutto ed è meglio,
davvero, non dire altro. Rassomiglia, per i pochi che
avessero visto quel grazioso filmettino mai distribuito
qui in Italia, al protagonista di “Mystery Alaska”.
Solo che quello era imbottito di giubbottoni, scarponi,
calzoni, cuffioni e golfoni spessi così. Lui, invece mi
sta davanti, con la più completa naturalezza,
gloriosamente nudo, a Napoli direbbero commo
facette mammeta, anzi commo facette Frankenstein.
Più o meno involontariamente, lo sguardo mi scivola
sulla sua splendida attrezzatura di piacere e mi si
stringe il cuore al pensiero di quel che ho udito il
giorno prima. E’ proprio vero che non c’è giustizia
nella vita: nemmeno per i mostri.
-La signora desidera?
Mi fa piegando garbatamente in avanti
la testa ricciuta e dorata. La situazione è a dir poco
grottesca e debbo sforzarmi per non ridere. O per non
saltargli addosso.
-Vorrei parlare con voi.
Gli rispondo, in tedesco. Al che lui
replica dicendomi che è in grado di dialogare con la
sottoscritta anche in inglese. O in italiano, se
preferisco. Alla mia espressione stupita, asserisce che
il barone Otto Von Frankenstein, per fabbricarlo, non ha
usato solo carne ossa e rivestimenti di ottima qualità
ma non ha risparmiato neppure sui neuroni. Arrivati a
questo punto, è ovvio che non oso mettere in dubbio le
sue asserzioni.
-Ero convinta che fosse stata…la
signorina Scopescu a fabbricarvi.
Lui ride, mettendo in mostra i
piccoli denti bianchi e regolari.
-Bah, l’unica cosa che è stata
capace di confezionare quella là è la mummia
scorreggiona che sicuramente padre e figlia vi hanno
gabellato come l’esperimento del Barone. Quella befana
è da anni alla ricerca di un marito, siccome non
riusciva a trovarlo ha deciso di fabbricarselo su
misura, ha recuperato un secchio di ossame, frattaglie e
pelletiche e quel che è venuto fuori dovreste
conoscerlo bene. Magari se lo sarebbe anche tenuto,
fosse riuscita a infondere in lui il soffio vitale. Ma
temo abbia sbagliato il calibro del buco del culo,
sicché il soffio in questione entra da una parte ed
esce dall’altra…Che cosa vi hanno detto, che non
uscirete da qui finché la mummia non prenderà vita?
A quel pensiero, che mi terrorizza
almeno quanto la patente a punti, mi sento raggelare. Ma
lo invito a continuare perché voglio conoscere il resto
della storia.
-Siccome l’unica cosa che la mummia
fosse in grado di produrre era aria puzzolente, allora
la signorina ha deciso di rapirmi, sottraendomi al mio
creatore prima che potesse completare l’opera. E
adesso che lui è morto…
Guardando i suoi dolci occhi azzurri
velarsi di tristezza, mi metterei a piangere. Dopodiché
cado in preda a cupi istinti omicidi rivolti tutti
quanti a quell’accidente di Skopy Scopescu, che dal
primo momento in cui l’ho vista mi è stata subito
antipatica. Povero, povero, povero bellissimo mostro…
-Vi avranno pur messo un nome…-gli
chiedo continuando a fissare come una deficiente la sua
stupenda e perfettamente inutile dotazione anatomica.
Rusty. Mi fa lui ridendo. Dopodiché mi mostra il dito
medio della mano sinistra. E’ rigido, mi dice.
Impossibile piegarlo. Provate a pensare ai problemi che
potrei avere se decidessi di imparare a suonare la
chitarra…
A quelle parole, arrossendo come un
pomodoro pachino andato a male, riesco a biascicare tra
i denti una parola soltanto. Viagra. Lui scoppia in una
sonora risata. Avete origliato? Mi domanda. Non mi
sembra incavolato, meglio così, perché, grosso e
muscoloso com’è, se lo fosse sarebbe per me un
problema di complicatissima risoluzione.
-Quella cretina vorrebbe
propinarmelo-mi fa sollevandomi il mento con due dita e
costringendomi a guardarlo negli occhi- Ma io non ho
bisogno di quella porcheria, solo di una donna come si
deve…Proprio come te.
Mi abbraccia. Mhhh, penso io a un
passo dalla follia: capelli d’oro, occhi di fuoco,
pelle di seta, muscoli d’acciaio, voce di velluto… E
quando inizia la cerimonia dell’alzabandiera posso
aggiungere in tutta tranquillità attributi di cemento.
Nonno Frankenstein ha fatto davvero un gran bel lavoro.
***
Sinceramente, non ho mai capito che
razza di pesce sia questa Skopy Scopescu. Anzi, ad
essere sincera, non me n’è mai importato più di
tanto. La priorità, in questo momento, è fuggire dal
castello maledetto tirandomi appresso quello che
continuo a chiamare il mostro e che la buonanima di “nonno”
Frankenstein ha dotato oltre al resto di un’attrezzatura
di piacere davvero degna di nota per quantità, qualità
e durata.
Ci stiamo beatamente rotolando nel
letto e io sono felicissima d’aver toccato con mano
che il problema di questo dio greco è soltanto il dito
medio della mano sinistra e non qualcos’altro, come
avevo temuto. Ma a questo punto, cominciano i problemi
veri.
Infuriata come un’Erinni, Skopy
Scopescu si fionda nella nostra stanza distogliendoci
dalle dilettevoli occupazioni che io e Rusty avevamo
intrapreso. Urlando come un’indemoniata, lo copre di
atroci contumelie, arrivando perfino a chiamarlo figlio
di puttana anche se, francamente, mi riesce difficile
immaginare il venerando e attempato barone Otto Von
Frankenstein in minigonna e megazeppe, mentre aspetta i
clienti davanti al fuocherello sulla Tangenziale Ovest.
Rusty, senza darle troppa importanza, la manda affanculo
e Skopy gli si precipita addosso tempestandolo di pugni.
“Con me no e con lei sì, brutto maiale?!” gli grida
nelle orecchie cacciando fuori tutta l’aria che
possono contenere i suoi striminziti polmoni. Aria,
suppongo, non troppo balsamica, stando alle smorfie che
alterano la bellissima faccia della Creatura: aglio,
cipolla, peperoncino, gorgonzola? Bah. Lui comunque non
impiega molto a scrollarsela di dosso neanche si fosse
trattato di una pulce, mandandola a cadere dritta dritta
sul logoro tappeto ai piedi del letto.
Io, immobile e annichilita come se la
polizia stradale stesse per comunicarmi che debbono
ritirarmi la patente avendo commesso un’infrazione da
venti punti, non oserei guardare, ma sono costretta a
farlo. Finchè, inquadrata dal vano della porta, vedo
comparire la Mummia. Ha preso finalmente vita e si muove
con il passo di un’oca artritica. Ha tentato di
coprirsi le vergogne con un rozzo perizoma di carta
igienica Cantacesso stampigliata con le effigi di
Berlusconi e Cofferati, da cui trapela un modesto
accenno di alzabandiera. Come si china per raccattare da
terra la povera Skopy Scopescu, un tappo di sughero gli
sfugge dal deretano. Lo riconosco. E’ quello che,
esasperata, gli piazzai e che permise al fluido vitale
di non sfuggire dal mal calibrato sfintere posteriore. E
quando se ne va tenendo tra le braccia l’infelice ed
eterea creatura, la sinfonia per trombetta solista
riprende, implacabile. Ed io penso che, considerate le
velleità musicali di lei, i due potrebbero formare un
interessante ensemble vocale e strumentale…Il Duo di
Transilvania? L’Orchestra Spettacolo Scopescu?
Epilogo
Sabato. Avrei potuto dormire,
svegliarmi a mezzogiorno e metabolizzare melanzane e
brutti sogni. Invece niente. Squilla il maledetto
cellulare quando non sono ancora le otto e una vocina
che ben conosco mi chiede se ho impegni. Ha fissato, mi
dice, l’appuntamento con il noto chirurgo plastico
professor Cantarutti per le dieci e mi chiede la
cortesia di accompagnarlo. E siccome la sottoscritta è
fessa…
FINE
Lalla, 3 luglio 2003