IL MIRACOLO
IL CIMITERO DEGLI SCOMPARSI
Localidad Los Brujos, provincia de
Tucuman, Republica Argentina, Majo 1982
Il freddo delle montagne e dell’inverno
incipiente gli mordevano feroci la carne, anche se le ferite non gli
facevano più male. Aprì gli occhi, ed era come se avesse dormito un mese
di seguito. Quanto tempo era passato? Si erano dimenticati di togliergli l’orologio
dal polso, prima di gettarlo via, come se il suo corpo torturato, ferito,
brutalizzato fosse stato un’immondizia, un oggetto rotto di cui
disfarsi. Si erano dimenticati l’orologio perché con tutta probabilità
s’ era scassato mentre lo picchiavano ed era uno swacht di plastica che
valeva proprio poco, e i jeans, perché erano stretti, avrebbero perso
troppo del loro tempo prezioso a sfilarglieli di dosso e, in ogni caso,
valevano poco anche loro, logori e scoloriti com’erano. La camicia di
flanella a scacchi, il giaccone in panno foderato di pelo sintetico, i
pochi pesos che aveva in tasca e i camperos che calzava glieli avevano
portati via in prigione, senza preoccuparsi di chiedergli il permesso, e
anche il minuscolo cerchietto d’oro che teneva infilato al lobo dell’orecchio.
Prima. Prima,cioè, che quella bestia che si faceva chiamare sergente
Mendoza, in prigione, glielo strappasse via senza neanche preoccuparsi di
aprirlo borbottando qualcosa come “roba da finocchi” e facendogli
cacciar fuori un fiotto di sangue e un grido di dolore così forte, acuto
e stridulo che per un attimo aveva temuto d’impazzire. E quello era solo
l’antipasto, a detta dei suoi aguzzini: non dovette passare molto tempo
prima che s’accorgesse di quanto avessero ragione.
Un fruscio di ali sollevò un refolo d’aria
gelata a due passi dalla sua faccia. Un condor lo fissava immobile con gli
occhietti maligni, il collo nudo proteso, il becco adunco spalancato.
Mangiano solo roba morta, si disse da sé solo, e lui morto non era, a
differenza di quegli altri, carcasse mezze spolpate e irriconoscibili alle
quali soltanto il freddo gelido delle montagne e dell’inverno incipiente
aveva impedito di putrefarsi. Ne aveva contate sette.
Si alzò. Il freddo gli sollevava i peli
sulle braccia e sul petto e gli illividiva dolorosamente le dita delle
mani e dei piedi,la punta del naso.Non se ne preoccupò più di tanto,
avrebbe superato anche quello, pensò stringendo il labbro inferiore tra i
denti, le mani una nell’altra. Ne aveva viste veramente tante, dacchè
stava al mondo e quella era, in assoluto, una delle peggiori: i tuoi
avversari torturali, seviziali, poi ammazzali a forza di botte, quindi fai
sparire i loro cadaveri dove nessuno potrà mai più ritrovarli e i loro
cari non avranno nemmeno una tomba su cui piangerli…Con lui avevano
fatto male i loro calcoli, anche se Mendoza era convinto d’averlo
mandato all’altro mondo, quando aveva sentito scricchiolargli le costole
sotto i calci dei suoi scarponi ferrati e gli aveva visto il sangue colare
dalla bocca: con un polmone perforato si muore. Di solito.
Sentì la necessità di urinare e, cosa
strana e stupida in una circostanza simile, andò a nascondersi dietro uno
spuntone di roccia, come se qualcuno potesse vederlo. Gli bruciava ancora
un po’ e l’orina era striata di filamenti sanguigni. Sarebbe passata
anche quella, pensò mentre tirava su la cerniera. Sapeva che sarebbe
passato tutto quanto anche quando gli avevano dato la corrente sui
genitali e sghignazzavano guardandolo urlare e contorcersi, pregustando
come sarebbe morto.
Lui lo sapeva, loro no. Si tastò il
lobo dell’orecchio sinistro. Era sano e integro. Si passò le mani sul
corpo intirizzito e notò che il suo portafortuna non gliel’avevano
tolto, forse perché valeva poco, come i jeans scoloriti e l’orologio di
plastica scassato: un canino di animale appeso ad un logoro lacciolo di
cuoio. Neanche un sudicio indio si metterebbe addosso roba simile, era
stato il commento del sergente Mendoza mentre gli strappava di dosso la
camicia. La mano scese lungo i muscoli del petto, sullo stomaco, sul
ventre, sulla patta dei jeans aderenti. Niente ferite, né ematomi.Le
costole erano a posto, come prima che lo picchiassero e lo gettassero via
convinti d’averlo ammazzato. Già, convinti di averlo ammazzato.
Rise, come se fosse in compagnia di
qualcuno con cui dividere la tristezza e l’allegria, invece che di sette
cadaveri spolpati e di un grosso condor indifferente perché appesantito
dal troppo cibo, che avrebbe potuto ammazzare a bastonate, se solo avesse
voluto.
Quando scenderò in città, pensava,
mangerò a crepapelle, berrò fino a crollare a terra ubriaco, mi
cercherò una donna con cui fare l’amore per festeggiare. Poi andrò a
cercare Mendoza,dannato porco, per sputargli in faccia e guardarlo morire
di paura perché io sono un fantasma, un non morto, e voglio vendetta...
Ma prima dovrò procurarmi qualcosa da mettermi addosso e prima ancora dar
sepoltura a questi poveretti. Loro, la morte non li aveva rifiutati.
Chissà chi erano. Nelle condizioni in cui si trovavano, neppure si
riusciva a capire se in vita erano stati maschi o femmine, giovani o
vecchi. Dovevano esserci finiti prima di lui, nella discarica per
cadaveri, anche se non era facile appurarlo. Stavano dall’altra parte,
solo questo era dato di sapere sul loro conto.Stavano dall’altra parte
con la ragione o con l’istinto, forse quello di cui erano incolpati non
era stato fatto neppure di proposito. Com’era capitato a lui: gli
avevano detto spia del nemico solo perché parlava correntemente l’inglese
ed era stato inutile cercar di giustificarsi dicendo che aveva studiato
negli Stati Uniti, che conosceva bene anche il tedesco ed era
particolarmente predisposto ad apprendere le lingue, non gli era stato
difficile neppure imparare il quechua per poter comunicare con gl’indios
delle montagne... O per ficcare in testa a quei pidocchiosi pericolose
idee di giustizia, diritti e rivoluzione? Qualcuno lo aveva detto, il
sonno della ragione genera i mostri e a quel qualcuno, chissà chi era,
non si poteva certo dire hai sbagliato, amigo.
Non aveva niente che potesse tornargli
utile a scavare sette fosse, e pensò che li avrebbe collocati dentro i
grandi buchi che crivellavano la roccia, anche se non sarebbe stato facile
come poteva sembrare, solo a toccarli quei corpi mummificati si sarebbero
sgretolati in mille pezzi, come orrende bambole rotte.
E’ da prima di me che sono stati
gettati in questa discarica, pensava, e il condor era ancora lì, lo
guardava fisso mentre tentava di dar sepoltura a quei poveri resti,
cercando di arrecare meno danni possibili alle ossa tenute insieme solo da
brandelli di pelle incartapecorita e filamenti di tendini essiccati. Il
vento delle montagne gli faceva accapponare la pelle nuda, gli
scompigliava i lunghi capelli castani. Capelli lunghi, barba incolta. Le
stigmate del sovversivo. Come El Comandante, El Che.Capelli lunghi, barba
incolta e sogni di lotta e di rivoluzione dentro la testa. El Che era
morto già da diversi anni e anche Maximo Meridas doveva morire.
PADRE CESAR
Uno. Due. Poi tutti gli altri, piano
piano, perché non si sgretolassero come mummie riportate alla luce dopo
tremila anni dalla loro morte. Il primo doveva essere stato il corpo di
una donna: un piccolo scheletro non più lungo di un metro e sessanta,
coperto di pelle incartapecorita e con qualche lungo ciuffo di capelli
scuri che spuntavano dal cranio. Una donna, già, era piccola, minuta e
con il bacino largo per partorire agevolmente i figli che, con tutta
probabilità, non aveva partorito mai. Maximo aveva studiato medicina, per
lui certe cose non erano un segreto. Una donna, e giovane, aveva i denti
bianchi e tutti sani… Poveretta. La prese tra le braccia con la maggior
delicatezza possibile. Se fosse stata viva, pensò. Gli avrebbe sorriso
con i suoi bei denti bianchi e si sarebbe abbandonata al suo abbraccio,
come una ballerina di tango in una bettola della Boca di Buenos Aires.
Chissà chi era stata, non meno di cinque o sei mesi prima.
Gli altri sembravano uomini. Più
grandi, massicci. Giovani o vecchi, chissà. Uno aveva i denti davanti
spezzati e parecchie ossa rotte. Dovevano averlo torturato e ammazzato poi
a calci e pugni, com’era successo a lui, ma quello era morto sul serio e
per sempre. L’ultimo… Il lungo scheletro curvo di un vecchio, con le
ossa annerite dal fuoco e qualcosa che spuntava tra le falangi scarnite di
quelle che erano state le sue dita, un po’ di tempo prima. Qualcosa… Il
suo rosario di legno:strano che non fosse bruciato. Strano che non fossero
riusciti a strapparglielo dalle mani come gli avevano strappato via la
vita e, prima ancora, il buon nome e l’onore.
Tutto era talmente assurdo, pensava
Maximo mentre cercava di farsi caldo strofinandosi le mani contro le
braccia e saltellando come se, invece che su uno strato di pietre coperte
di brina, i suoi piedi nudi poggiassero su di un letto di carboni ardenti.
Quelle rocce crivellate di grossi buchi, quel condor con la pancia
talmente piena da non potersi neppure muovere, quei cadaveri, il rosario
annerito che padre Cesar o meglio quel che restava di lui stringeva
disperatamente nella mano… Erano sei mesi che lo cercava. Giorno più,
giorno meno. Sei mesi che era sparito, inghiottito dal nulla. Sei mesi che
lui andava regolarmente a rompere le scatole al posto di polizia per avere
sue notizie. Sei mesi che si aspettava il peggio e si svegliava di notte,
in preda agli incubi, col cuore che martellava e il sudore che inzuppava
le lenzuola.La vista di quella mummia incartapecorita che stringeva in
mano il rosario era la conferma ultima e definitiva delle sue peggior
congetture: padre Cesar era stato ammazzato e il suo cadavere fatto
sparire, nella certezza che mai nessuno l’avrebbe ritrovato. Ma prima di
ammazzarlo, l’avevano sepolto sotto tonnellate di fango. E’ un maiale,
avevano detto, e l’avevano scritto perfino sui giornali. Uno che tocca i
bambini tra le gambe e li costringe a fargli le porcherie. Se è sparito,
è perché temeva di essere scoperto… Probabilmente, erano riusciti a
comprare per quattro soldi qualche testimonianza falsa che lo inchiodasse,
e così tutti lo avrebbero creduto quello che non era e non lo avrebbero
rimpianto. “Mentendo, diranno ogni sorta di male contro di voi…”*
Quante volte, con un sorriso mesto stampato sulla vecchia faccia,
padre Cesar aveva citato le parole del Vangelo? Le Beatitudini: il
manifesto programmatico di una fede che aveva conosciuto la persecuzione
eppure, troppo spesso, aveva stretto patti d’alleanza con il Potere. Ma
padre Cesar non avrebbe fatto niente del genere neppure costretto. Era di
quelli che, col nome di Dio e della Giustizia sulla bocca, sarebbero stati
disposti ad affrontare anche il martirio.
Padre Cesar. Non doveva avere più di
cinquantacinque, sessant’anni, ma la faccia emaciata, i capelli bianchi
che portava lunghi e incolti e la barba ispida lo facevano sembrare molto
più vecchio. Indossava una tonaca scolorita e, nelle giornate
particolarmente fredde, un lungo poncho a disegni fantasiosi, tessuto con
la lana dei guanachi dalle donne del villaggio, su cui dondolava il
crocifisso di legno d’un rosario che era solito portare al collo perché
la Vergine lo proteggesse, diceva sempre. Oltre a dir messa, insegnava a
leggere e a scrivere ai ragazzi e agli adulti, curava i piccoli malanni
per i quali non c’era bisogno di scomodare il dottore e, in caso di
emergenza, con la sua ricetrasmittente scalcagnata si collegava con l’ospedale
di San Miguel de Tucuman per chiedere lumi o soccorso. Era stato in una
circostanza del genere che si erano conosciuti. Joselito, un ragazzino di
otto anni, era stato malamente morsicato da un cane. Poiché le sue ferite
erano serie e c’era più d’un sospetto che l’animale fosse idrofobo,
padre Cesar aveva richiesto l’intervento dell’eliambulanza. Ma
entrambi gli elicotteri erano alle prese con i soccorsi alle vittime di un
grave incidente stradale. Un bambino di otto anni non poteva morire, e di
che brutta morte, per mancanza delle cure a cui aveva diritto. Giusto.
Quel rompiscatole di un prete può anche aspettare, avevano brontolato all’ospedale,
in fin dei conti la rabbia ha un lungo periodo d’incubazione,il bambino
non rischia, e anche se morisse… E’ solo un indio. Ne muoiono tanti.
Nonostante la giornata d’inverno, nonostante la nebbia, nonostante non
potesse permettersi di buttare il denaro dalla finestra, Maximo aveva
noleggiato un Chessna. Certi discorsi non voglio nemmeno sentirli,
pensava, mentre il piccolo aeroplano che pilotava personalmente faceva lo
slalom tra le nuvole, i fiocchi di neve e le cime aguzze delle montagne:
il regno del Dio-Condor, dove gente dalla faccia scura e dagli occhi
impassibili e rassegnati viveva di stenti, dove un bambino di otto anni
poteva anche morire per il morso di un cane.
Quando si trovò faccia a faccia con
Padre Cesar, il suo cuore mancò un battito. Lo sguardo triste degli occhi
cerchiati, i capelli e la barba bianchi come la neve, le mani lunghe e
sottili segnate dal rilievo delle vene gonfie… Ti ho conosciuto, nella
prima delle mie mille vite. Conosciuto, rispettato e amato, pensò. Allora
eri coperto di porpora e d’oro e stringevi in pugno i destini del mondo.
Adesso invece… Adesso portava sul corpo lungo e magro una tonaca
scolorita alla quale mancava qualche bottone e un poncho di tessuto
grossolano per difendersi dal freddo delle montagne. Non è lui, è
impossibile che lo sia, si disse Maximo da sé solo, è un missionario, un
idealista che lotta contro le ingiustizie armato solo di un vecchio
crocifisso, uno che, per amore degli ultimi, ha rinunciato ad una vita
tutta sua. La somiglianza è solo casuale, nessuno muore per rinascere.
Nessuno.
-Il bambino?
-Mi segua, dottore.
Joselito giaceva su di un pagliericcio e
lo scrutava con i suoi acuti occhi a fessura, senza emettere un lamento.
Il braccio e la gamba sinistra erano straziati dai morsi, ma più di
quelle ferite era stata la scalfittura sulla guancia a preoccupare Maximo.
-Più la fonte di contagio è vicina
alla testa, minore è il tempo d’incubazione della malattia. Bisogna
ricoverarlo immediatamente, la terapia antirabbica va iniziata in tempi
rapidissimi e non è del tutto esente da rischi… Ma se non verrà curato,
morirà, questo è certo.
Joselito si era salvato e Maximo era
tornato spesso al villaggio indiano. Perché quella gente aveva bisogno di
lui. E perché lui aveva bisogno di padre Cesar.
Maximo ricacciò indietro i capelli, si
sfregò gli occhi come per asciugare il pianto. Avrebbe dato chissà cosa,
per poter piangere, ma il solo sfogo al suo dolore fu un sospiro rauco
come un colpo di tosse. Lui non aveva mai creduto a quelle calunnie e
quando, agitando il pugno davanti al comandante della polizia di Tucuman,
aveva cominciato a inveire chiamando tutti quanti assassini, era stato
arrestato. Quindi torturato. Con le cicche delle sigarette, con la
corrente elettrica. Quindi ammazzato. A calci e pugni. Quindi gettato via
nella discarica per resti umani di Los Brujos, a tenere compagnia al suo
amico prete che invece di limitarsi a dir messa, pretendeva di ficcare
nella testa degli indios l’idea che libertà e giustizia fossero diritti
inalienabili. Come lui, el doctor ,del resto. Un bel giovane
barbuto, con i capelli bruni che gli accarezzavano le spalle e un fisico
prestante da sportivo. Si fosse limitato a prescrivere medicine e a
fottersi tutte le donne che sicuramente gli correvano dietro, invece d’impegolarsi
in faccende che non lo riguardavano. Aveva studiato negli Stati Uniti e
apriva spesso la bocca a sproposito, come quando aveva detto che le
autorità argentine, prima d’imbarcarsi nell’impresa inutile e costosa
di tentar di strappare agli inglesi le Malvinas*, quei quattro scogli
incrostati di guano, avrebbero fatto meglio a preoccuparsi delle
condizioni in cui viveva la povera gente. Discorsi da comunista, e i
comunisti bisognava farli fuori. Già, bisognava farli fuori. Maximo
sorrise, e non solo perché comunista lui non lo era mai stato. Nemico
delle ingiustizie, questo sì, e in vita sua ne aveva viste davvero tante.
Ma se avesse parlato, lo avrebbero preso per pazzo. “Maximo Meridas,
nato il 7 aprile 1950 nell’estancia* di Trujillo, Gran Chaco.
Professione medico chirurgo, stato civile, celibe. Capelli castani, occhi
blu, statura 1,80.” Così attestavano i suoi documenti.” Segni
particolari, nessuno.”
Non gli fu facile collocare al riparo in
uno dei fori che crivellavano la roccia, i poveri resti di padre Cesar.
Non gli fu facile pregare per lui, ma forse quell’uomo non aveva bisogno
delle preghiere di nessuno, se esistevano un Dio e una giustizia
ultraterrena uno come lui doveva aver ricevuto il premio finale e
definitivo che spetta a chi ha annullato se stesso per darsi agli altri
anima e corpo, a uno che, nel nome dei principi in cui ha creduto, ha
affrontato lo scherno, la maldicenza, il disonore, la tortura, la morte,
perfino il vilipendio del suo cadavere. Ti restituirò la reputazione che
ti è stata tolta, amigo. La reputazione, e più di quella. Sarai
grande anche agli occhi del mondo…Padre Cesar. Mormorò Maximo tirando
su col naso e strofinandosi una contro l’altra le mani gelate.
“Maximus Decimus Meridius, nato l’Anno
Domini 147 a Tergillium,nella Provincia Senatoria dell’Ispania Baetica.
Contadino, generale, schiavo, gladiatore e regicida. Segni
particolare:Immortale.
* Dal Vangelo di Matteo, 5 1-12
*Le isole Falkland, possedimento inglese
al largo dell’Argentina meridionale, oggetto per lungo tempo di una
contesa sfociata, nel 1982, in una guerra tra il Regno Unito e lo stato
sudamericano.
*Latifondo.
IL VILLAGGIO
Maximo riconobbe l’uomo ritto sul
ciglio del burrone come quello conosceva lui: Pedro, il fratello maggiore
di Joselito.Lo avrebbe aiutato, se non altro per riconoscenza perché, se
non fosse stato per lui e per padre Cesar…Beh, le ferite del ragazzino
avrebbero fatto la crosta e sarebbero guarite,ma di lì a non molto il
povero piccolo avrebbe cominciato a stare sempre peggio, a delirare
digrignando i denti, sbavando e lamentandosi, a bruciare di sete senza
poter inghiottire un goccio d’acqua, a essere squassato da dolori sempre
più insopportabili e infine sarebbe morto soffocato dalla sua stessa bava
o stroncato da una convulsione più forte delle altre che gli avrebbe
spezzato la schiena. Se quella gente sapeva cosa volesse dire
riconoscenza, forse…Anche se la paura è una cattiva consigliera, si
disse da sé solo, e il denaro può corrompere chiunque, specialmente se
ha lo stomaco roso dai morsi della fame. La miseria non rende nessuno più
buono.
Si arrampicò sulle rocce. Arti
marziali, nuoto, cavallo, free climbing…Era sempre stato uno sportivo, e
agilità, forza e coraggio gli erano serviti varie volte a togliersi d’impiccio.
In questa vita e nell’altra. Anche se era dura strisciare su quelle
rocce taglienti scalzo e a torso nudo. Quando raggiunse il ciglio del
burrone, Pedro gli tese la mano scura, spaccata dal freddo e dalla fatica.
“Doctor…”
Non sono un fantasma, se è questo che
temi. Portami al villaggio, a casa tua, o a casa di qualcun altro, non
importa di chi, e procurami dei vestiti e qualcosa da mettere sotto i
denti, per amor di Dio, anche gli Immortali sentono il freddo e la fame.
Lo guardarono davvero come si
guarderebbe un fantasma tutti quanti, la giovanissima moglie di Pedro con
il suo neonato attaccato al seno,il padre, la madre, il vecchio nonno
mezzo cieco e una torma di bambini d’ogni età e d’ogni taglia, ma
tutti quanti con gli stessi capelli corvini, le stesse guance screpolate e
gli stessi occhi seri e impassibili di Joselito.
-Mi hai fatto male.
-Era necessario, Joselito. Quelle
iniezioni ti hanno salvato la vita, lo sai? E poi…Pure a me hanno fatto
male. Molto male. E anche a padre Cesar.
-Non è con te?
-E’ volato in cielo con gli angeli.
Il bambino lo guardò con occhi
indifferenti strofinarsi acquavite sulle mani per disinfettare i tagli. Ne
volavano tanti, in cielo con gli angeli, uomini e donne, bambini e vecchi…Ma
gli uomini in divisa dicevano che padre Cesar era cattivo,e i cattivi non
volano in cielo con gli angeli, sprofondano nell’inferno, in mezzo al
fuoco che non si spegne mai.
-Gli uomini in divisa hanno detto cose a
cui non devi credere. Me lo prometti?
Hanno comprato con il denaro e con le
minacce falsità per screditarlo, ancor prima di farlo morire. Maximo s’infilò
la camicia che Pedro gli aveva prestato, calze spesse, scarponi pesanti,
non doveva essere stato facile per loro reperirne un paio numero 45, un
poncho con disegni stilizzati di uomini e lama lungo i bordi consunti.La
camicia gli scopriva i polsi, Pedro era molto più basso di lui e aveva la
sagoma tarchiata degli uomini della montagna, i miserabili discendenti di
coloro che erano stati i signori degli Altipiani ed erano vissuti dentro
palazzi dai tetti d’oro e d’argento, prima che arrivassero gli
spagnoli a distruggere tutto.
-Tu…Non sei volato in cielo con gli
angeli?
Maximo gli scarruffò i capelli. Erano
ruvidi e grossi, diversi dai suoi.
-Non credere una parola, se ti diranno
male di lui. Padre Cesar era…Era un santo.
14 giugno 1982.L’Argentina si arrende
alla flotta inglese:è la fine della guerra delle Falkland.
17 giugno 1982: con le dimissioni del
Presidente, Generale Leopoldo Gualtieri, è definitivamente sancita la
fine della dittatura militare.
RITORNO ALLA NORMALITA’
La gente non aveva impiegato molto a
rimuovere qualsiasi traccia di quegli anni di barbarie. L’ospedale
maggiore di Tucuman non era cambiato, men che meno il caos
istituzionalizzato del pronto soccorso dove Maximo, fresco della
specializzazione in chirurgia d’urgenza conseguita presso l’Università
Fisk di New York, aveva iniziato a lavorare tre anni prima. Tentativi di
suicidio, incidenti d’auto, mogli pestate a scadenze fisse da mariti
beoni e maneschi, ossa rotte, pelli ustionate, risse tra ubriachi che
finivano male, ferite da ricucire…Se andava bene. E se invece andava
male, qualcuno ti moriva tra le mani, e allora sentivi il peso del mondo
addosso, come se fosse colpa tua. Quando padre Cesar era sparito, per
cercarlo senza intoppi Maximo s’era preso le ferie. Ho bisogno d’un po’
di riposo, aveva detto, e solo lui sapeva che non era vero. E quando era
stato arrestato, all’ospedale era arrivato un misterioso telegramma, che
qualcuno aveva inviato fingendosi lui e che attestava come, essendosi
fratturato la clavicola cadendo da cavallo nell’estancia *di suo
padre, il dottor Meridas era stato costretto giocoforza a rimandare il suo
rientro in sede di un mese almeno. A giustificare la sua sparizione,
avrebbero pensato in seguito. Le cose, però, erano andate diversamente da
come sarebbero dovute andare, i quattro scogli incrostati di merda di
gabbiano erano rimasti nelle mani degli inglesi, i generali avevano tolto
il disturbo…E lui non aveva detto niente, anche se qualcuno doveva aver
capito.Sorella Dolores, per esempio. La caposala. Una monaca ancora
giovane, dall’aria arcigna,le mani da uomo, il labbro superiore
ombreggiato di peluria. Una che gli parlava il minimo indispensabile ed
era evidente che non le piacevano i suoi jeans scoloriti, l’orecchino d’oro,
i capelli lunghi che, quando lavorava, era solito raccogliere a coda. Era
un bravo medico, preparato e scrupoloso, ma era evidente come in lui ci
fosse qualcosa che non andava. Suor Dolores vedeva il peccato dappertutto.
-Come si diventa santi, sorella?
Che strana, una domanda simile in bocca
a uno come quello lì.
-Facendo la volontà di Dio.
Era tornato dopo un paio di mesi e si
portava appresso un’aria triste e inquieta. Chissà, forse…
-Questo lo so.- Aveva un sorriso dolce,
tratti quasi infantili. Un bell’uomo, uno che perfino una suora non
poteva fare a meno di notare.-Intendevo…Come…Come il fatto di essere
diventati tali venga riconosciuto ufficialmente dalla Chiesa.
-E’ una procedura lunga e complicata,
che può durare anni e anni. Bisogna produrre delle prove presso la
Congregazione per le Cause dei Santi. Miracoli, dottore.
Miracoli, già. Una guarigione
scientificamente inspiegabile, per esempio. O il ritorno di un morto dall’aldilà…E
padre Cesar avrebbe riavuto indietro l’onore che gli avevano portato via
e non solo quello. Nelle chiese, la gente si sarebbe inginocchiata a
pregare davanti alla sua statua. Un…miracolo…Il fatto che Joselito non
avesse contratto la rabbia ma fosse perfettamente guarito? Maximo si
strofinò la guancia barbuta. No, era stato tutto quanto merito del siero
Pasteur,in quel caso Dio o i santi non c’entravano proprio. Il miracolo
che ti serve non è la guarigione di Joselito, si disse infine da sé
solo. Quello sei tu…Basta che lo provi, e nessuno oserebbe non crederti.
Con ciò che ti è capitato, dovresti essere morto, invece…Anche se Dio
e i santi con te non c’entrano esattamente come non c’entravano con
Joselito, solo tu sai come stanno in realtà le cose, e sai anche che non
ti conviene dirlo troppo in giro, o rischieresti di finire rinchiuso in
qualche manicomio. Ma una bugia per una giusta causa…Mentire gli era
sempre riuscito difficile, anche nell’altra vita. Questa volta c’era l’onore
di un uomo che non meritava niente di quel che gli era accaduto, di mezzo.
Un paio di radiografie e qualche testimonianza…Procurati le prime,
Maximo. Sbatti davanti al naso di quattro preti la testimonianza chiara ed
evidente di quanto ti è accaduto. Con uno spuntone di costola che penetra
nel polmone e lo perfora si muore. E tu sei vivo.
HELGA SCHIELE
I pedofili pervertiti non li fanno, i
miracoli, rimuginava sfogliando distrattamente il giornale in sala d’attesa.
I miracoli li fanno i santi e, stabilito una volta per tutte che le
porcherie di cui era stato accusato padre Cesar non erano che luride
menzogne estorte dalla polizia a quattro poveri indios ignoranti con le
promesse e le minacce, adesso toccava a lui fare il resto. Era tutto
tranquillo, all’ambulatorio di radiologia. Niente incidenti d’auto,
niente gambe rotte durante la partita di calcio tra scapoli e ammogliati.
Niente bambini che inciampano o casalinghe fatte ruzzolare giù per le
scale da mariti imbestialiti dall’alcol. Lasciò passate gli altri
pazienti, non aveva fretta. E poi avrebbe dovuto delle spiegazioni ad
Helga Schiele, la radiologa. Una tipa strana, una tedesca che lì dentro
non aveva legato con nessuno, si ostinava a dare del lei ai colleghi che
conosceva da anni e, nonostante avesse dei begli occhi e una figura
slanciata, continuava a mortificarsi con orribili occhiali da vista,
capelli che sembravano tosati da un barbiere dell’esercito e camicioni
che la infagottavano tutta quanta. E che, Maximo sorrise al pensiero, con
lui parlava il minimo indispensabile, proprio come suor Dolores, malgrado
i rapporti tra l’ambulatorio di radiologia e il pronto soccorso fossero,
per ovvie ragioni, davvero molto,ma molto intensi e produttivi.
-Chi mi manda questa volta, dottor
Meridas?
-Me stesso.
-La clavicola?
Maximo fece una spallucciata. Quale
clavicola? Quella che si era fratturato cadendo da cavallo durante le sue
ferie nella tenuta del padre? Quale clavicola, quale caduta e quale
frattura? Quelle cose, le aveva inventate la polizia al solo scopo di
gettare un po’ di fumo in faccia a chi si sarebbe potuto preoccupare,
quando non fosse rientrato al lavoro. E a lui,in fondo, aveva fatto comodo
che credessero potesse essere la verità…Fino a quel momento.
-Non la clavicola. Il torace.
-Sa quello che deve fare. Si tolga la
camicia, dottore. E se avesse addosso oggetti metallici, si tolga anche
quelli.
-I pantaloni?
La dottoressa Schiele non alzò gli
occhi dai fogli che stava compilando e si limitò ad accennare di sì
senza guardarlo. La fibbia della cintura, la cerniera e i bottoni
potrebbero provocare problemi, era un medico anche lui e avrebbe dovuto
saperlo. O forse lo faceva solo per metterla in imbarazzo.
-Anche…questo?
Quella specie di lungo canino che
portava appeso al collo con un laccetto di cuoio bisunto. Il suo
portafortuna. Cielo, quanto sono maledettamente superstiziosi, questi
latini. E lo guardò di straforo armeggiare con il nodo ingrommato,
tentare di scioglierlo senza riuscirci.
Lo aiutò, senza che lui le avesse
chiesto niente, domandandosi dove fossero finiti la sua freddezza, il suo
distacco e la sua professionalità. La aveva perse di botto, solo perché,
invece del consueto ragazzino con la gamba rotta, si trovava davanti il
più bello stallone di Tucuman coperto soltanto da un paio di boxer neri?
Il nodo era stretto e sembrava come
impastato dal tempo e dal sudore, a forza di stare a contatto con la sua
pelle. Una pelle appena abbronzata, e incredibilmente morbida, tesa su
muscoli che sembravano scolpiti. Il viso delicato,libero dai capelli che
aveva raccolto a coda sulla nuca, era indurito dalla barba e incrudelito
da un paio d’occhi né azzurri né verdi che scintillavano come schegge
di vetro: occhi da tigre.
-Trattenga il respiro, dottor Meridas.
Ecco fatto. Può rivestirsi. E domani passi a prendere i referti.
La guardò, mentre si infilava la
camicia sul petto nudo, strano, era pieno inverno e non aveva freddo; la
guardò e le disse, con la sua grossa voce roca, dottoressa, avrei bisogno
di parlarle di faccende serie…in privato. Venga domani a casa mia, è
qua vicino. Termino il turno alle diciannove. Era sicuro che sarebbe
venuta.
IL REFERTO
Era pallida, come e più del solito,
alla cruda luce artificiale delle lampade alogene. Aveva la pelle
trasparente come l’alabastro e gli occhi chiarissimi, grandi e quasi
spaventati, senza lo schermo di quei brutti occhiali dalle lenti
affumicate e dalla pesante montatura nera. Si era perfino truccata,
pensava Maximo. Non lo faceva mai. E si era messa il gel nei capelli, per
tentare di rimediare ai danni che il suo parrucchiere aveva fatto loro e a
cui , per anni, non doveva aver mai badato. Prima. Prima di accorgersi di
essere una bella donna. Era ora.
-Entri, dottoressa Schiele.
-Sono qui come voleva, Meridas. Ha detto
che desiderava parlarmi.
-Si accomodi.
Viveva in un monolocale ricavato da una
mansarda situata in un vecchio palazzo a due isolati dall’ospedale.
Sicuramente una prigione, per lui che, fin da bambino, era sempre stato
abituato ad avere un sacco di spazio intorno. Helga Schiele non sapeva
molto di lui, se non che era nato in una azienda agricola del Gran Chaco e
che si era laureato negli Stati Uniti. Quello che, all’ospedale,
sapevano tutti quanti. Nella mansarda doveva starci il meno possibile,
giusto per mangiare e dormire. Viveva solo. Strano che non si fosse mai
sposato, un uomo come quello.
-Allora?
La guardava impaziente con quegli occhi
né azzurri né verdi, dallo sguardo sornione e sonnolento. Portava
addosso i soliti jeans e una camicia di flanella a scacchi, arrotolata
sugli avambracci e generosamente aperta sul petto, su cui dondolava un
lungo canino ingiallito di animale. I capelli castani, che la luce delle
alogene accendeva di riflessi rossastri, gli accarezzavano le grosse
spalle e i piedi scalzi affondavano in una moquette ordinaria che aveva il
colore della crosta di pane.
-Non immaginavo niente del genere,Meridas.
Le lastre finirono sulla scrivania,
sotto la luce cruda della lampada. Maximo si versò del whisky, si accese
una sigaretta. Lei scosse la testa quando lui fece per offrirgliene, dell’uno
e delle altre. Non beveva e non fumava. Un medico non dovrebbe. Ma quelli
non erano affari suoi.
-Davvero? In che senso?
Le sorrise. Aveva piccoli denti
bianchissimi, regolari, e le fossette sulle guance.
-Nel senso che…Che lei non si è mai
fratturato una clavicola cadendo da cavallo. Lei è…E’ stato torturato
dalla polizia. Guardi qui, si vedono ancora i segni: sette fratture alle
costole e lo sterno… molto malridotto anche quello.
-Me l’hanno sfondato, senza ombra di
smentita.Erano in tanti, avevano pugni pesanti, manganelli e scarponi
chiodati. Volevano ammazzarmi, era evidente. E per poco non ci sono
riusciti.
Mi meraviglio che lei non sia morto.
Davvero. Avrebbe voluto dirglielo, ma la voce le morì in gola, quando lui
le andò tanto vicino da lasciarle sentire il rumore del suo respiro, l’odore
tiepido della pelle.
-La verità è che io DOVEVO morire,
invece…Lei crede in Dio, dottoressa?
-E lei, ci crede?
-Perchè risponde ad una mia domanda con
un’altra domanda?
Un modo come un altro per sfuggirgli.
Fremette, quando sentì la grande mano calda dell’uomo sfiorarle la
spalla. Si voltò per guardarlo in faccia, e i suoi occhi incontrarono
quelli di lui, né azzurri né verdi, scintillanti tra le fessure delle
palpebre semichiuse.
-Me lo chiede per sapere se credo nei
miracoli? I miei erano luterani. Io sono atea e credo solo in quello che
vedo.
-Ci ho messo parecchio a perdere
conoscenza e ho capito quello che mi stava succedendo, quando invece che
aria ho cominciato a respirare sangue. Me lo sono sentito e visto venir
fuori dalla bocca, imbrattarmi tutto quanto. E ho capito che una scheggia
delle mie costole fracassate mi aveva perforato il polmone. Sarei dovuto
essere morto…Invece sono vivo.
-E chi sarebbe il suo santo in paradiso…Meridas?
Helga Schiele sentì il respiro di lui
andare giù a fatica, come quando stava morendo, pestato a sangue dalle
guardie nella prigione di Tucuman. Gli sorrise per cercare di allentare la
tensione caduta tra di loro, ma il viso gli restava serio.
-Padre Cesar Barrantes. Se lo ricorda?
-Ho letto di lui sui giornali.
-Non hanno detto la verità. L’hanno
calunniato, estorcendo menzogne a qualche povero indio ignorante. Padre
Cesar ha fatto la stessa fine che avrei dovuto fare io,invece…
Invece lui è morto e tu sei vivo. E
glielo devi.
-Mi sembra che le calunnie di cui era
stato fatto oggetto siano state ritrattate, Meridas.
-Non basta. Quell’uomo merita ben
altro.
Gli onori degli altari. E non importa
che tu non ci creda, come non ci ho mai creduto io, in un Dio o nell’aldilà.
Si muore, ed è finita. Per tutti, per i santi come quel tuo prete e per i
bastardi, come il capo della polizia di Tucuman, che la gente chiamava il
boia e che, alla caduta del regime, s’è ficcato in bocca la canna della
sua Beretta e ha lasciato partire il colpo. L’ho visto steso sul tavolo
anatomico, senza più faccia, così come tu hai visto padre Cesar ridotto
a uno scheletro nella discarica di Los Brujos. Il mondo è brutto, ma è
il solo che abbiamo, e non c’è un bel niente, dopo.
-Allora intende usare quelle radiografie
per provarlo…Meridas?
Lui annuì, le labbra stirate in un
mezzo sorrisetto, la punta della lingua tra i denti. Ma gli occhi
restavano seri, come prima, come sempre.
-Sono diversi anni che ci conosciamo…Perché
continui a darmi del lei, Helga?
SOLITUDINE
Non lo so. Mi riesce difficile dare
confidenza a qualcuno. La solitudine, beh…è il mio rifugio, e mi
protegge da tante cose cattive. Anche dai ricordi. E tu pure sei solo…Ma
io sono cinica, tu sei un sognatore. Forse. Tu vorresti cambiare il mondo,
mentre io so che è inutile e così tento di ritagliarmi un rifugio dove
nascondermi… Darti del tu? O limitarmi a chiederti di toglierti i
vestiti, come ieri in ambulatorio, e poi accarezzarti e baciarti fino a
sfinirti? E’ da tanto tempo che non faccio l’amore con un uomo…E non
l’ho mai fatto con un uomo … come te.
Avrebbe voluto dirglielo, e non gli
disse nulla. Ma non si ribellò quando lui le passò la mano carezzevole
sui corti capelli biondi, massaggiandole piano la cute, come il suo
parrucchiere quando glieli lavava e le disse non tagliarli più, sono
così belli…E neppure quando le sfiorò con l’indice le labbra un po’
screpolate dal freddo tagliente dell’inverno. Sarebbe accaduto, lo
sapeva. Ed era per quel motivo che, prima di andare da lui, aveva lasciato
a casa gli occhiali e si era truccata il viso.Lo sapeva, o forse ci
sperava, anche se era difficile che un uomo si accorgesse di una come lei,
a maggior ragione uno come Maximo Meridas, bello, forte, giovane…Più
giovane di lei . Uno che nella vita ci credeva ancora e voleva assaporarla
a morsi golosi, perché sapeva che non c’è niente di più labile dell’esistenza,
l’aveva provato sulla sua stessa pelle, e voleva godersela, finchè
avrebbe potuto farlo.
-Non hai freddo?-gli disse insinuandogli
le dita dentro l’apertura della camicia, sfiorandogli con i polpastrelli
la carne nuda e calda del petto.
-Io non ho MAI freddo.
Allora passami un po’ della tua vita,
pensava, perché ne ho bisogno, e fu come se lui riuscisse a leggere nei
suoi pensieri, quando se la strinse contro, solleticandole il collo con i
peli ispidi della barba.
-Mi hanno dato la corrente elettrica sui
genitali, un paio di giorni prima di picchiarmi. Fitte terribili, in
successione rapidissima. Credi di morire, e non muori, le scosse ti
provocano un’erezione talmente dolorosa che…Che preghi che succeda
presto.Certi diventano impotenti dopo un trattamento del genere.
-Non tu.
L’aveva vista sorridere, mentre si
stringeva ancora di più al suo corpo caldo e vitale, che reagiva con
forza alla spinta primordiale del desiderio. Non si era mai accorto di
quanto fosse bella, o forse era lei che non aveva mai permesso ad alcuno
di accorgersene.
-Si sono limitati a bruciacchiarmi
qualche pelo…Oh, scusami, sono stato… così volgare.
-Ti sei limitato alla verità, Maximo…E
la verità può essere spiacevole. Capita spesso che lo sia.
E allora non abbiamo il coraggio di
guardarla in faccia…Vieni con me, Helga, il mio letto è grande. E ti
scalderò con il mio corpo, se avrai freddo.
La guardò spogliarsi, togliersi i
pantaloni e il maglione lavorato a mano a grosse trecce. Era molto bella,
anche se i vestiti nei quali si infagottava non lo facevano supporre. Se i
suoi capelli , che erano di un biondo lunare, fossero stati lunghi invece
che malamente tosati e rigidamente pettinati all’indietro, lo sarebbe
stata ancora di più. S’era tenuta addosso solo la sua biancheria: slip
e reggiseno di prezioso pizzo nero che lasciavano poco spazio all’immaginazione.
Che li avesse indossati per sedurre era chiaro ed evidente. Lui, o un
qualunque sconosciuto …Fare l’amore, in fondo, è una necessità
fisiologica come un’altra. Gli piaceva, in ogni caso la biancheria di
pizzo:era quanto di più seducente avesse mai visto addosso ad una donna,
nel corso della sua vita senza fine: più delle tuniche semitrasparenti di
lino egizio o dei busti irrigiditi dalle stecche di balena. Più delle
scollature incipriate e delle spalle scoperte…Forse perfino più della
nudità completa, quel velo leggero che separava la carne tremante di lei
dalle sue dita, dalle sue labbra calde.
Era un’amante esperta, malgrado la sua
timidezza Sembrava diffidente come un animale selvatico. O forse, quella
era solo apparenza, un rifugio per continuare a nascondersi agli occhi
curiosi del mondo, ma in lui aveva avuto fiducia, e allora si era lasciata
accarezzare, baciare, non si era negata neppure alle sue proposte più
audaci, intriganti…E sconvenienti.Probabilmente doveva solo soddisfare
una necessità impellente del suo corpo, che reclamava amore come avrebbe
reclamato acqua e cibo, se avesse avuto sete e fame.
E’ un amante pieno di fuoco, ma anche
attento e gentile, pensava la donna, guardandolo mentre le giaceva accanto
sdraiato sul fianco e dormiva profondamente. Aveva capelli incredibilmente
lunghi, appiccicati al viso e sparpagliati sopra il cuscino e la stessa
espressione dolce, malinconica e un po’ tesa che lo caratterizzava
quando era sveglio, come se neppure nel sonno riuscisse a trovare pace.
Anche lui, forse, aveva bisogno di un rifugio in cui nascondersi agli
occhi del mondo, ma era forte abbastanza da non cedere alla tentazione di
fuggire sempre, al contrario di lei. Lo accarezzò piano, per non
svegliarlo, sul collo, le spalle, la schiena…Aveva il corpo di un
atleta, muscoli duri, guizzanti e compatti, ricoperti da una pelle tonica
e calda. Ed era pieno di cicatrici troppo vecchie per poterle attribuire
alle torture a cui era stato sottoposto nelle prigioni di Tucuman solo tre
mesi prima:tra le spalle, sulla schiena, sul braccio sinistro…Una le
ricordava un marchio a fuoco, di quelli che si usano con il bestiame.
Gliele sfiorò con la punta dell’indice, gliele baciò piano.Tutte. E,
da sé sola, si disse che anche lui doveva aver sofferto, quanto lei, per
colpe di cui era innocente.
LE COLPE DEI PADRI
Niente di diverso dalle solite gambe
rotte. Un paio. Quelli che le mandavano dal pronto soccorso,dove lavorava
il giovane dottore che aveva la faccia d’angelo e a letto sapeva farti
impazzire, pensò la dottoressa Schiele sfilandosi il camice e mordendosi
a sangue la bocca per non pensarci più. Avanti un altro. Lo scrosciare
della doccia, il getto ora troppo freddo, ora troppo caldo dell’acqua
sui loro corpi. Pelle bagnata. E mani vogliose…Chiuse gli occhi, rivide
il suo sguardo triste tra lo spolverio delle lunghe ciglia. Perché hai
tutte quelle cicatrici? Gli aveva domandato, curiosa. E lui, le hai notate…No,
niente che abbia avuto a che fare con le torture che ho subito.
Semplicemente, sono sempre stato spericolato, fin da piccolo. Credo che
mia madre non mi abbia mai visto senza gli stinchi sbucciati e le croste
sulle ginocchia. Più grande, ho cominciato a praticare diversi sport, e
la situazione non è certo migliorata…Anzi.
Gli aveva chiesto della cicatrice che
gli segnava la base del collo:quattro segni sottili, paralleli. Avrebbe
pensato alla zampata di una grossa bestia, di un felino, non fosse stato
pazzesco perfino immaginarlo.
“Avevo diciotto anni, ed ero uscito a
cavallo. I cani mi sono venuti dietro, come al solito: cinque dogo, la
muta di mio padre, addestrata alla caccia grossa. Un puma è sbucato da
dietro un cespuglio e ha aggredito la mia cagna preferita, Habanera. L’ho
difesa, ma ero armato solo di un coltello…”
L’hai salvata, almeno? O è stato
inutile mettere a repentaglio la tua vita per salvare un cane? Tu sei
pazzo, Maximo…
Avrebbe voluto dirglielo. Glielo avrebbe
detto, un giorno, non quello, e forse lui non l’avrebbe più guardata in
faccia, non avrebbe mai più sentito su di sé il calore delle sue mani,
della sua bocca, del suo respiro, del suo sguardo…Così le cose dovevano
andare, ma non ancora, si era detta. Era troppo presto.
-Sei stato un bambino felice.
-Perché non mi mancava niente, tanto
spazio, i miei animali…E perché ero amato. Questo è fondamentale, non
credi?
Doveva averla sentita tremare, malgrado
avesse cercato di controllarsi, come sempre succedeva. Ma, in quel
momento, non aveva un rifugio dove andare a nascondersi.
-Non credo che tu non lo sia stata,
Helga.
L’aveva guardata negli occhi con i
suoi, così chiari e acuti, occhi ai quali era impossibile nascondere
segreti. Come succede con le mie radiografie, si ritrovò a pensare.
Maximo riusciva a leggerle nei pensieri, a portare alla luce il perché
della sua tristezza.
Sì, sono stata amata. Mio padre mi
raccontava le favole per addormentarmi. Mio padre mi aiutava a fare i
compiti e mi spiegava sempre la lezione, quando non la capivo. Mio padre
mi portava allo zoo a vedere gli animali…E’ morto quando avevo undici
anni, davanti ai miei occhi. Un infarto fulminante.
-Io sono nata in Germania. C’era la
guerra, allora. Avevo tre anni, quando è finita, e non ricordo nulla,
anche se è come se le avessi respirate, la tristezza e la paura. Mio
padre…Mi asciugava le lacrime, quando portavo a casa un brutto voto, e
non mi rimproverava mai, era sempre molto tenero con me. Mi manca,
nonostante siano passati tanti anni. Mi mancano la sua voce, la sua forza
sicura. Penso che continuerei ad andare a piangere sulla sua spalla, se
fosse ancora vivo.
Mio padre. Mi aveva insegnato a nuotare,
e i nomi degli alberi e degli animali selvatici. Quelli dei nostri boschi,
la volpe, il lupo, il cervo, il gallo cedrone…Li avevo visti solo nelle
illustrazioni sui libri. Quando siamo andati via, ero così piccola. Tu
non li hai mai visti, i nostri boschi, nel cuore della vecchia Europa…
Maximo se l’era stretta forte al
petto, mormorando no, non li conosco, ed evitando di incrociare il suo
sguardo, perché se lei gli stava dicendo la verità, lui mentiva.
Altroché se li conosceva, i boschi della Germania. E aveva visto con i
suoi occhi animali ormai da tempo estinti, l’uro, la lince, il bisonte.
Nelle vene della donna senz’altro scorreva il sangue di quei barbari
contro cui gli era stato ordinato di combattere, nel nome dell’Impero e
della sua grandezza, nel nome della civiltà che andava difesa e
divulgata.Costasse quel che costasse Anche se, forse, quegli ideali
servivano soltanto a mascherare giochi di potere, come sempre sarebbe
accaduto, finché il mondo avesse continuato a girare appeso al cielo.
-Helga, ma tu piangi.
Gli occhi chiari le scintillavano di
lacrime.
-Mio padre…Era un colonnello delle SS.
Un criminale di guerra. E’ per questo che siamo venuti qui, per sfuggire
alla giustizia dei vincitori. Se fossimo rimasti, sarebbe stato
processato, e condannato. Quando l’ho saputo, avevo dodici anni,lui era
già morto,ma è stato come se il mondo mi crollasse addosso lo stesso. Ha
semplicemente ubbidito a degli ordini, mi aveva detto mia madre, ma io
leggevo sui libri di uomini senza pietà, che non si domandavano come mai
lo facevano, semplicemente,ci credevano e lo ritenevano giusto…Mi hai
visto piangere, Maximo; sai che a quarant’anni sono ancora sola, lo sono
sempre stata e, forse lo immagini, sarò sola finchè starò al mondo. La
solitudine è la mia maledizione, pesa come una condanna, ma non voglio
dividere con nessuno la colpa di essere viva, quando sono morti in tanti,
anche perché un uomo che amavo e nelle cui vene scorreva il mio stesso
sangue non ha trovato il coraggio di disubbidire. Gli antichi dicevano che
le colpe dei padri sono destinate a ricadere sui figli…E avevano
ragione.
Fu allora che l’uomo rivide con gli
occhi della mente un bambino esile e bruno, che giocava a rincorrersi con
un piccolo cane su un prato tempestato di margherite e fiordalisi. Un
bambino di nome Marco, un bambino come tutti quanti gli altri, che
piangeva se, cadendo, si sbucciava le ginocchia, che rubava i dolci di
nascosto e diceva che da grande sarebbe diventato un soldato, come suo
padre; soffocò un singhiozzo senza lacrime, e la strinse più forte a sé
, perché lei credesse che la stava consolando, non cercando conforto alla
sua disperazione.
FERITE APERTE
-Dottor…Meridas?
-Direttore.
Il direttore amministrativo dell’ospedale
lo pregò di accomodarsi sulla poltrona. Quindi si tolse gli occhiali da
presbite come per osservarlo meglio. Avrebbe iniziato con la solita solfa
tra il serio e il faceto a proposito dei capelli lunghi e dell’orecchino,
solfa che lasciava il tempo che trovava. Un brav’uomo, in fondo. Uno che
aveva sempre lavorato e che ci teneva, al buon nome e al decoro dell’ospedale.
Meridas?Un medico scrupoloso e competente, anche se di chi era e cosa
faceva quando usciva dal bailamme del pronto soccorso, si sfilava il
camice e indossava quel suo giubbotto di pelle nera si sapeva poco o
niente;anche se aveva i capelli che gli ruscellavano giù per le spalle
come al Cristo sull’altare della chiesa del Sacro Cuore, il cerchietto d’oro
al lobo dell’orecchio sinistro e girava su una grossa motocicletta, come
un poco di buono. Certo, avesse tagliato i capelli e gettato via l’orecchino…Lo
squadrò dalla testa ai piedi, i capelli, la barba, il pastrano nero lungo
fin quasi a terra che nascondeva una camicia di flanella e un paio di
jeans consunti, i lunghi piedi calzati da stivali con la punta di metallo,
le mani callose come quelle di un contadino. Suo padre, gli era stato
detto, era un ricco fazendero del Gran Chaco, uno che allevava cavalli da
corsa. Ma il giovanotto, più che agli azzimati signorini a cui sarebbe
dovuto assomigliare, somigliava a un gaucho. I pazienti del pronto
soccorso e a maggior ragione i loro congiunti avrebbero potuto scambiarlo
per un macellaio,Dio guardi, altro che chirurgo.
-Ho da parlarle di cose serie…dottore.
Niente allusioni sulla lunghezza dei
suoi capelli o sulla necessità di entrare in un buon negozio e rinnovarsi
il guardaroba, una volta tanto. Gli occhi del Direttore erano seri, e
tristi più del solito. Somigliava a un segugio da pista, a uno di quei
cani grossi e bonari, dalle lunghe orecchie e lo sguardo languido.
-Ho visto il segretario di Monsignor
Arcivescovo, proprio ieri.
Niente di strano che lo vedesse spesso,
i due erano in rapporti più che cordiali, il Direttore era sempre stato
un cattolico devoto e timorato di Dio. O non piuttosto, timorato degli
altri uomini, specialmente di coloro che stavano più in alto di lui?
Maximo abbassò lo sguardo alla punta dei suoi vecchi camperos, per
impedire all’altro di leggerci dentro i suoi pensieri. Ci aveva parlato
anche lui, col segretario dell’Arcivescovo, non più di quattro o cinque
giorni prima. Gli aveva raccontato la sua storia,mostrato le radiografie.
Gli aveva detto di padre Cesar, e si era sentito rispondere non ancora, è
troppo presto, lasci passare almeno un anno, lasci che queste ferite si
chiudano…Il sacerdote, un uomo alto, di mezza età, che indossava un
inappuntabile abito talare nuovo fiammante, ben diverso dalla tonaca
sdrucita di padre Cesar, gli aveva chiesto se fosse credente. Maximo aveva
risposto non lo so. Non sono stato battezzato e non ho mai messo piede
dentro una chiesa, ma questo non mi impedisce di agire secondo coscienza,
di fare il mio dovere e di non nuocere agli altri. E poi, so per certo che
c’è qualcosa, aldifuori e aldisopra di noi. Padre Cesar ci credeva con
tutte quante le sue forze come quelli che io stesso, in una delle mie
molte vite, ho visto morire bruciati, crocifissi, sbranati dalle belve pur
di non rinnegare i loro ideali, ma queste cose non gliele aveva dette,
altrimenti il prete lo avrebbe senz’altro e a ragion veduta preso per
pazzo.
-Padre Cesar è un martire di Dio e
della giustizia.
-Lasci che sia la Chiesa a stabilirlo,
dottore. A luogo e a tempo debito. Ma non adesso, è ancora troppo presto.
E l’aveva congedato, lasciandogli il
dubbio che tutti coloro che aveva visto morire nel nome degli ideali in
cui credevano, dai martiri cristiani a padre Cesar, fossero morti per
niente.
-Voglio darle un consiglio,
figliolo:lasci perdere. E non coinvolga altra gente in questa…follia.
Helga Schiele, la radiologa. Alludeva a
lei. Una donna senza amore, una donna fragile. Una donna che un uomo come
quello avrebbe potuto abbindolare e distruggere come niente. Gli sarebbe
dispiaciuto, se qualcuno le avesse fatto del male, come se fosse stata sua
figlia. Aveva intuito, senza conoscerlo, un doloroso segreto, dietro le
lenti degli occhiali, gli abiti informi in cui si infagottava, il taglio
sgraziato e fuori moda dei capelli, la solitudine che s’era scelta come
compagna di vita.
Non la illuda, dottor Meridas.
Non la illuda, già. E non si illuda
neppure lei di poter cambiare il mondo. Ringrazi Dio per come le è
andata, se ci crede, e lasci perdere, le parlo come le parlerebbe suo
padre…E adesso vada, dottor Meridas, i suoi pazienti la stanno
aspettando.
NIENTE E’CIO’CHE SEMBRA
Maximo guardò il fumo della sua
sigaretta salire il lunghe volute verso il soffitto. Rimase a lungo
immobile a osservarlo, i capelli sparpagliati sul cuscino, il braccio
sinistro piegato sotto la testa. Lo guardò salire, allargarsi, poi
disperdersi, cercando di non pensare a niente. Si sarebbe riempito il
bicchiere di whisky e l’avrebbe buttato giù tutto d’un fiato, se
questo avesse potuto, in qualche modo, aiutarlo a distendere i nervi.
Helga se n’era andata senza una parola
di spiegazione. S’era messa in ferie dal lavoro, era partita per un
lungo viaggio, dicevano tutti quanti all’ospedale. Certo, ne aveva
bisogno, erano anni che lavorava come una dannata senza prendersi un
giorno di ferie. Erano anni che, pur senza concedere confidenze a
chicchessia, parlava di un viaggio in Europa, prima fantasticato, poi
progettato e mai realizzato.
Maximo avviò la segreteria telefonica,
riascoltò per l’ennesima volta il messaggio, la voce morbida di lei,
che parlava senza tradire emozioni, come prima che accadesse tutto quel
che era accaduto tra di loro, come prima che si lasciasse andare, ed era
stata voglia e non amore, almeno, così aveva pensato o sperato. “Non
cercarmi mai più. Non sono quella che credi.”
“Non sono quella che credi. E mio
padre non c’entra, questa volta. Sono una che si è data a cento uomini
conosciuti per caso, per dimenticare, per annegare i miei problemi nel
sesso fatto come viene viene, allo stesso modo in cui altri li
annegherebbero nell’alcol. Per i più, sono una donna anche troppo
seria, dedita al suo lavoro e a quello soltanto, una specie di versione
laica e agnostica di suor Dolores,una che per passare inosservata agli
occhi degli altri, è arrivata a mortificare la sua bellezza, a negarsi
perfino le piccole gioie quotidiane della vita. Solo io e gli amanti che
ho raccattato in certi bar malfamati sanno la verità, una verità che
conoscerai anche tu, quando riceverai e aprirai questa mia lettera…”
Helga Schiele alzò gli occhi dal
foglio, strinse forte tra i denti l’estremità della biro come faceva
quando, da scolaretta, si trovava alle prese con un problema difficile da
risolvere. Poteva bastare, si disse da sé sola. Non era necessario dirgli
del capo della polizia, di Vicente Nolasco, che era stato il suo amante
per due anni e che sicuramente aveva guardato, impassibile, i suoi uomini
torturare padre Cesar, ammazzarlo a calci e a pugni e scaraventare il suo
cadavere sul pianale di un pick up diretto a Los Brujos, dove lo avrebbero
bruciato lontano da occhi indiscreti. Di Vicente Nolasco, con i suoi
capelli imbrillantinati da ballerino di tango e lo sguardo crudele e
indifferente di un rettile. Di Vicente Nolasco, che s’era sparato in
bocca quando il regime era caduto e che, non molto tempo prima, era stato
presente quando i suoi uomini avevano torturato e pestato a sangue Maximo.
Maximo…Si ritrovò a mormorare piano
il suo nome una, due, dieci volte. Non è vero che non lo ami, Helga, non
mentire a te stessa. Era impossibile non amare un uomo come quello, bello
e coraggioso come un eroe delle leggende, un idealista che, per inseguire
un sogno, a momenti buttava via la sua vita. Maximo. Le sarebbero mancati,
quando non li avrebbe avuti più, la seta dei suoi capelli, il calore
delle sue mani, lo scintillio vagamente crudele di quei grandi occhi
azzurri che la guardavano in tralice e non sorridevano mai. Le sarebbero
mancati la sua voce vibrante, l’odore tiepido della pelle, i mille modi
in cui sapeva farla impazzire.
“Ti lascio perché niente è ciò che
sembra e tu non meriti i miei inganni. Non prendertela, ne troverai a
centinaia, migliori di me. Ma sappi questo: sei l’unico uomo con cui
sono stata che non mi abbia fatto sentire sporca.”
Maximo chiuse gli occhi, aspirò il fumo
della sigaretta. Niente è ciò che sembra. Aveva scritto così, Helga,
nella lettera che gli era stata recapitata quella mattina. E’ vero,
niente è ciò che sembra. Pareva una donna timida e sola, invece era una
donna disperata. Sarebbe andato a cercarla quella notte stessa, avrebbe
rovistato nei locali malfamati di una città che contava trecentomila
abitanti e, quando l’avesse trovata, le avrebbe posato la grande mano
calda sulla spalla e detto non buttarti via, Helga, non ne vale la pena,
accontentati di quello che sei, vale a dire meravigliosa, il che non è
poco. E poi ancora, hai ragione, niente è ciò che sembra, neanch’io.
La vuoi sentire la mia storia? E gli avrebbe raccontato di un contadino
divenuto soldato,di un soldato divenuto generale, di un generale che
sarebbe potuto diventare imperatore ed era finito schiavo, del più forte
gladiatore i cui piedi avessero calcato la sabbia insanguinata del
Colosseo. Le avrebbe detto della morte di un tiranno e di quella di un
eroe, di una donna innamorata e di un sortilegio…Chiuse gli occhi,
inghiottì un grumo denso di saliva e l’ultimo fumo della sigaretta
consumata. O forse quello che era in realtà avrebbe continuato a tenerlo
segreto, pensò infilandosi la camicia di flanella e il chiodo di cuoio
nero. Ma l’importante era trovarla, parlarle, convincerla a smettere con
quell’assurda doppia vita. Erano secoli che Maximo aveva imparato a
fiutare il pericolo nell’aria, come un animale selvatico e forse Helga…Non
doveva perdere un minuto.
LA CORTE DEI MIRACOLI
La luce era livida, la musica di
sottofondo quella triste e struggente del bandoneon* che un cieco
appollaiato su uno sgabello tormentava davanti a un pubblico formato da
quattro o cinque avventori mezzo ubriachi.
La donna aveva lunghe gambe inguainate
di seta nera e una folta capigliatura rossa che le scendeva giù per le
spalle in riccioli disordinati. Si era mossa un poco sul suo alto sgabello
davanti al bancone e aveva voltato la testa dall’altra parte, quando l’uomo
l’aveva chiamata, come a ribadire che con lui non voleva averci niente a
che fare. Sorseggiò succo d’arancia dal suo bicchiere, non bevevo
alcolici, si alzò e fece per andarsene, dopo aver pagato il conto a una
cassiera che aveva gli occhi pesti di trucco e di sonno. Traballava su
tredici centimetri di tacchi a spillo ai quali era evidente come non fosse
abituata e sembrava a disagio, nell’abbigliamento provocante che
indossava, minigonna di pelle che le fasciava le natiche, camicetta
scollata sotto la quale non portava nulla e un pellicciotto sintetico per
difendersi dal freddo dell’inverno. Una puttana delle tante che
frequentavano quel locale in cerca di clienti, pensò Maximo. E l’uomo,
un giovane tarchiato, dai capelli ricci, continuò a seguirla anche in
strada, a chiamarla malgrado lei camminasse a testa alta e a piccoli passi
traballanti, cercando di ostentare indifferenza. La raggiunse, l’afferrò
per un braccio, forse le sibilò un insulto a mezza voce, quando lei
cercò di scrollarselo di dosso. Una puttana e un cliente, si ritrovò a
pensare ancora una volta Maximo. Magari uno di quei tipi dai gusti strani
con il quale non valeva la pena di ripetere una brutta esperienza e allora
andasse al diavolo, lui e i suoi soldi. Era possibile che quella donna non
avesse una grande conoscenza della vita di strada, anche perché non
ostentava la baldanza provocatoria delle sue colleghe e si guardava
continuamene intorno, quasi temesse d’incontrare qualcuno che la
conosceva e potesse rimproverarla per ciò che l’aveva sorpresa a fare.
Qualcuno, parente o amico, convinto magari che fosse una brava ragazza e
invece…E invece aveva una doppia vita, come…come…
Maximo rabbrividì quando vide la lunga
parrucca rossa penzolare nella mano dell’uomo e il taglio drastico e
fuori moda dei capelli biondi della donna. Helga…Niente è ciò che
sembra…Strinse forte le palpebre fino a sentire male agli occhi.
-Lasciala stare.
-E chi sei tu per dirmi quello che devo
e non devo fare?
Il giovane poteva avere una trentina d’anni,
più o meno l’età sua. Aveva capelli scuri,corti e ricci, occhi gonfi,
naso da boxeur, mascelle squadrate e labbra sottili e dure come un taglio.
Sotto una vecchia giacca di pelle, gli esplodevano grossi muscoli saldi e
allenati, come se fosse o fosse stato un pugile perdavvero. Dal modo in
cui si comportava dimostrava di conoscere Helga, e bene. Forse era uno di
quei giovinastri che lei raccattava nei locali malfamati e si portava a
letto per ammazzare la sua tristezza.
-Ho detto lasciala…
La voce gli morì nella gola con un
rantolo soffocato. Anche lui aveva conosciuto quell’uomo, tre mesi
prima. Era lo stesso che, quando l’avevano arrestato e torturato,
pestava e rideva più forte degli altri. Maximo ricacciò indietro a
fatica un conato di vomito, al pensiero che Helga potesse essersi fatta
toccare da un individuo come quello.
-Non lo sai che è una puttana…dottore?
Se non avesse smesso subito di
artigliarle il braccio facendole male, avrebbe finito di rompergli il naso
a suon di pugni, avrebbe perfino trovato il coraggio di ammazzarlo.
Perché uno come Mendoza non meritava niente.
-Dottor… Meridas… Il sovversivo.
Dovresti essere morto ed ero convinto che lo fossi, quando ti ho visto
rannicchiato sul pavimento e con tutto il sangue che ti scendeva giù
dalla bocca.Sei stato fortunato, maledetto te…
Un ghigno feroce aveva contorto le
labbra sottili dell’uomo. -Eh, già, hai la pelle più dura di quel tuo
amico prete….Dovevi sentire come strillava, sembrava un porco scannato…Era
eccitante, ammazzare i sovversivi a calci e pugni. Eccitante come scopare…Peccato
che il regime sia caduto e Nolasco sia morto… Non è vero, bellezza?
-Vieni via, Helga, andiamocene. E’
ubriaco.
-In quanto a questo, non ci metterei la
mano sul fuoco, comunista. Piuttosto, che ci fa uno come te con la figlia
di un gerarca nazista? Con una che s’è fatta sbattere da Vicente
Nolasco, il boia di Tucuman? Te lo ricordi come rideva, mentre ti davamo
la corrente sull’uccello e ti mordevi la lingua per non urlare?
L’aria della notte era fredda e
tagliente come una lametta. Mendoza sollevò con la mano il mento di Helga
Schiele, le indirizzò un sorriso bieco, scoprendo i grossi denti gialli
di nicotina.
-Che mi dici, bellezza, gli funziona
ancora? Me lo ricordo bene, ce l’aveva bello grosso, ma io non credo di
avere un accidente di niente da invidiargli…Vieni con me, te lo farò
provare in tutti i modi e ti piacerà…
-Vattene a casa a smaltire la sbornia,
Mendoza, è l’ultima volta che te lo dico.
-E…E se non avessi voglia, di tornare
a casa già da adesso? E’ molto presto, la notte è giovane, e ho ancora
voglia di bere e di fottere, sovversivo di un maledetto comunista…A meno
che…A meno che la signora non si decida ad accompagnarmi…
Un pugno in faccia gli soffocò in gola
il ghigno osceno e gli insulti. Ma non cadde, barcollò soltanto. Ed era
tardi, quando Maximo ed Helga percepirono lo scatto della lama, il balenio
della luce dei lampioni sull’acciaio. L’uomo stramazzò premendosi il
costato, la donna si chinò su di lui piangendo. E le ombre della notte
inghiottirono Mendoza.
*bandoneon=
organetto
L’IMPOSSIBILE
Abbandonarsi al pianto o cercare di
aiutarlo? Era medico, anche lei, malgrado ormai da anni si occupasse solo
di guardare dentro i corpi dei suoi pazienti e non di cercar di strappare
alla morte un uomo con il petto squarciato da una coltellata. E adesso che
faccio?
A mani nude, cercò di frenare l’emorragia
comprimendo la ferita. Era sola, impotente, disarmata di fronte alla
morte. Perché da quello squarcio, a Maximo stava scorrendo via la vita,
con il sangue. Perché non era improbabile che il coltello di Mendoza
avesse leso organi vitali.
Tenergli la mano. Guardarlo diventare
sempre più pallido. Sperare, lei che aveva sempre creduto solo in ciò
che vedeva, che quel qualcosa che gli aveva permesso di salvarsi e che
lui, testardamente, attribuiva a un miracolo di padre Cesar potesse
ripetersi. Ero io che meritavo di morire, perché sono sporca e inutile,
non tu.
Chiuse gli occhi. Pregò il dio in cui
non aveva mai creduto di aiutarlo, di salvarlo un’altra volta…
-Ho freddo, Helga…
La sua voce era ridotta ad un soffio, l’eco
del cuore gli pulsava appena nella giugulare. Ferita mortale, si ritrovò
a pensare…O ferita che precede comunque la morte. Ripensò alla guerra…
E
a quella scalcagnata arena africana, a Proximo, che aveva gli occhi di
ghiaccio e l’aveva comprato per farlo combattere. Uccidi troppo in
fretta perché il pubblico si diverta, Maximus… Sei bravo, sì… Ma
potresti diventare magnifico se solo… Ricordi della prima delle sue mille
vite, di quella in cui era stato un uomo come tutti gli altri, un uomo
destinato a uccidere e a morire.
Helga si tolse il pellicciotto e glielo
posò sopra, perché fosse un calore confortante e non il freddo della
notte invernale ad accompagnare gli ultimi istanti della sua vita. Lascia
perdere, le disse con il suo ultimo fiato, non darti pena per me… E non
piangere. Baciami, se te la senti. E aspetta.
Un’ora era passata, un’ora trascorsa
al freddo della notte invernale, lui disteso, lei rannicchiata, nascosti a
possibili occhi indiscreti dalla vecchia utilitaria della donna.
Trascinarlo dentro la macchina, tentare una corsa disperata fino all’ospedale…
Sarebbe
stato sicuramente tutto quanto inutile, lui lo sapeva, quando con la poca
voce che gli restava le aveva detto no, non serve, non darti pena…
L’alba li trovò rannicchiati uno
accanto all’altra e lui era caldo e vitale. La ferita non solo non
sanguinava più, non solo si era completamente rimarginata. Era scomparsa,
come se mai fosse stata inferta.Eppure ti ho visto rantolare cercando l’aria
che ti mancava, ho visto il sangue zampillare da uno squarcio da cui la
vita sarebbe dovuta fuggire, invece... Non so che cosa tu sia, Maximo. E
credo che i miracoli di quel tuo vecchio prete c’entrino poco o niente
con quel che ti è successo. Forse dovrei aver paura di te… Invece sono
contenta che tu sia vivo.
L’uomo si tirò su a sedere, si
abbottonò la camicia, chiuse la lampo del giubbotto.”Liebe…”Amore.
Anche suo padre la chiamava così, tanto tempo prima. Andiamo via. E,
strada facendo, ti racconterò di un contadino che divenne soldato, di un
soldato che divenne generale, di un generale che sarebbe potuto diventare
imperatore e finì schiavo, del più forte gladiatore che mai avesse
calcato la sabbia del Colosseo, della morte di un tiranno e di un eroe, di
un amore disperato e di un sortilegio grande e terribile…
FINE
Lalla, 06/02/02 |