GLI IMMORTALI
PROLOGO
SOGNI
Sognò la notte e un dolore così vivo da sembrare
reale, quello di cui aveva sentito parlare senza averlo mai provato.
Giaceva sull’erba umida e la luna piena era alta nel cielo buio, velata
appena da una caligine leggera. Sognò le mani della vecchia Maeve su di
lei e dentro di lei, prima che un dolore più lacerante ancora degli altri
l’attraversasse come una lancia e il pianto di un bambino rompesse il
silenzio con la stessa forza che era quella della vita.
Sognò suo padre morire. Le cose erano andate così,
non come le aveva raccontato Taliesin il Mago. Non era morto da eroe
combattendo contro i Sassoni e gli Iuti invasori, Brochavael, il duca di
Powys: era stato ucciso a tradimento dal suo signore, il padre del bambino
che sua moglie Ygraine portava in grembo. Uther di Cornovaglia, il Dragone
Rosso, nelle cui vene scorreva il sangue dei Celti e dei Romani. Uther, il
cui figlio bastardo avrebbe regnato sulla Britannia e scacciato gli
invasori, come stava scritto nelle stelle.
Sognò suo fratello estrarre dall’incudine piantato
nella roccia Caledfwlich,la spada che i Romani chiamavano Excalibur, il
segno del potere. Allora era un moccioso dai capelli rossi, e non doveva
avere più di quattordici, quindici anni. I signori della Britannia, che
si erano a lungo contesi il trono, lo avrebbero fatto a pezzi, si diceva.
Invece, adesso di anni ne aveva ventidue e il potere continuava a
detenerlo ben saldamente, stringendolo in pugno come l’elsa della sua
spada magica con cui, si diceva, tagliasse a pezzi i nemici. Gli avevano
cercato e trovato moglie, Ginevra, la bella figlia del ricco e potente re
Leodegan, e viveva circondato da una compagine di cavalieri forti e leali,
che gli avevano giurato fedeltà oltre la morte e tenevano adunanza seduti
ad una grande tavola rotonda. E accanto a re Artù stava sempre il suo
mentore, Taliesin, bardo e veggente che sapeva la magia, colui che il
popolo chiamava Merlino.
Sognò se stessa, l’odore greve della palude di
Glaston e della nebbia che, nell’isola di Avalon, nascondevano agli
occhi avidi del mondo il segreto dei segreti, il calice fatato capace di
conferire il potere di operare i miracoli a colui che ne fosse entrato in
possesso; sognò il falco e la spada. Urlò nel sonno e si risvegliò
madida di sudore, gli occhi spalancati nel buio profondo della notte. Con
mano esitante, come se fossero ancora ferite fresche, Morgana si
accarezzò le cicatrici che le deturpavano il viso.Quindi appoggiò la
testa sul cuscino e si addormentò nuovamente, per tornare ai suoi incubi
e alle sue visioni. Come ogni notte.
IL FALCO
Il cavaliere doveva aver percorso una strada molto
lunga, per arrivare fin lì.Doveva aver affrontato molti pericoli e patito
tanti disagi. Un cammino né facile né breve, durante il quale doveva
aver affrontato uomini ,orsi e lupi, il fendente gelido del vento di
tramontana e la sferza della pioggia, il freddo e la canicola, la polvere
che secca la gola e la melma delle paludi, che ti imprigiona e ti trascina
fino a sommergerti e ad ucciderti. Doveva aver patito la sete e la fame,
anche se la corda del suo arco era ben tesa e ingrassata,anche se c’erano
lunghe frecce dentro la faretra che portava appesa alla sella del cavallo,
anche se in quella regione c’erano fiumi e laghi dove l’acqua era
fresca e abbondante,e foreste che brulicavano di selvaggina.
Non mancava molto alla meta, ormai. L’odore di
Camelot, la città fortezza, si respirava nell’aria tersa della
primavera incipiente. La stagione in cui lui era venuto al mondo, pensava
il cavaliere, in una terra che non somigliava per niente a quella, e dove
le città erano città davvero, non villaggi di capanne dai tetti di
paglia su cui incombeva, simile a un drago addormentato, la mole tetra del
castello. Città vere, in cui si lavorava, si amava, si soffriva e si
gioiva , ma che i tempi fossero cambiati era un dato di fatto
incontrovertibile. Gli era stato detto che nelle vene del re cristiano di
Dumnonia, scorreva anche sangue latino.
Artù era valoroso e saggio. Tanto valoroso da essere
sempre riuscito a respingere gli assalti dei barbari Sassoni e Juti che
ormai avevano occupato stabilmente vaste regioni della Britannia
Orientale. Tanto saggio da riuscire a tenere a bada i suoi irrequieti
vassalli, molti dei quali vantavano nobilissimi natali e avrebbero fatto
ricorso a qualsiasi mezzo pur di prendere il suo posto su quel trono che,
ancora quasi bambino e bastardo senza padre, aveva conquistato sfilando
una vecchia spada da un incudine piantato in uno spuntone di roccia.
Si diceva che la saggezza potesse misurarsi solo con
gli anni e Artù non ne aveva molti. Eppure era stata una scelta saggia,
quella di non scacciare Taliesin il Mago, come il vescovo di Camelot
avrebbe voluto. Era stata una scelta saggia quella di non imporre con la
forza della legge il suo credo a chi ancora venerava Bel, Crom Dubhm e
Cernunnos* nei boschi di querce, come ai tempi in cui era stato eretto il
grande Cerchio di Pietre di Sarum**. Lui lo sapeva. Artù il saggio aveva
solo ventidue anni, e non aveva visto i cristiani morire sbranati dalle
belve negli anfiteatri sotto il regno di Diocleziano. Non aveva visto con
quanta gioia era stato accolto l’editto di Costantino.*** Ma non aveva
neppure conosciuto i tempi in cui il bigotto Teodosio imponeva a colpi di
spada il suo credo in ogni angolo dell’impero. Non aveva conosciuto i
tempi delle dispute feroci tra cristiani ortodossi ed eterodossi e l’odio
di cui erano, ovunque, fatti bersaglio gli ebrei. Non stava al mondo che
da ventidue anni, Artù il saggio.
Forse potrei insegnargli qualcosa di quello che so,
senza rivelargli niente di me, perché stenterebbe a credere in ciò che
gli direi. E quel…Taliesin?La gente lo chiamava Merlino. Era un driudo
dell’Antica Religione, ma anche parecchi cristiani lo rispettavano per
la sua saggezza, compreso il re. Era stato lui a trovare ad Artù un padre
adottivo quando il suo era morto e la vita stessa del bambino appariva
minacciata. Taliesin avrebbe capito tutto di lui guardandolo solo un
istante, ma non lo avrebbe maledetto per ciò che era, come altre volte
gli era capitato, nel corso della sua esistenza senza fine.
Smontò di sella.Si tolse il mantello, quindi il
pettorale di cuoio rinforzato con lamine di bronzo e lasciò cadere sull’erba
la lunga spada. La tunica corta di panno scarlatto e le brache di pelle
che indossava erano impregnate di polvere e di sudore e i capelli castani
dai riflessi fulvi che gli accarezzavano le spalle non erano certo in
condizioni migliori.
Pensò che l’acqua del lago doveva essere fredda, ma
non esitò a togliersi gli stivali ,l’alta cintura borchiata, a sfilarsi
brache e casacca, ritrovandosi completamente nudo prima di tuffarsi nel
lago. Un buon bagno lo avrebbe ripulito di tutta la sporcizia che si
portava addosso, un’energica nuotata avrebbe rinvigorito i suoi muscoli
intorpiditi da giorni passati in sella al cavallo e notti trascorse
raggomitolato nel suo mantello, con un occhio aperto, l’altro chiuso e
la mano sull’elsa della spada: erano brutti tempi, quelli. Anche per uno
come lui.
Le acque del lago non erano profonde, e neppure troppo
fredde. Canne e salici crescevano lungo le sue rive e gli unici rumori in
quella solitudine, oltre allo sciabordio dell’acqua e al soffio della
brezza fra i rami, erano il gracidio delle rane e lo schiamazzare degli
aironi e delle anatre selvatiche.
Sono solo, pensò ancora abbandonandosi al piacere
corroborante di quelle acque fresche e limpide. Quando si fosse deciso ad
uscirne fuori, si sarebbe sdraiato sull’erba e avrebbe lasciato che
fosse il sole ad asciugargli la pelle, prima di rivestirsi. Una volta in
città, avrebbe dovuto rassegnarsi a spendere i pochi soldi che aveva per
comprare qualcosa di decente e di pulito da mettersi addosso.
No, non era solo, qualcosa glielo diceva. Fidarsi delle
sue intuizioni gli aveva consentito di togliersi dai guai talmente tante
di quelle volte che aveva rinunciato a contarle. Aguzzò la vista e la
vide, non lontano dalla riva.L’acqua le arrivava alle ginocchia, ed era
nuda anche lei. Era lunga e sottile, e aveva la pelle bianchissima. Quanto
tempo era passato, dall’ultima volta che aveva giaciuto con una donna?
Troppo, pensò, percependo la reazione vigorosa del suo corpo alla vista
dei piccoli seni dai capezzoli pallidi, del triangolo di pelo rosso fra le
lunghe cosce esili. Anche i capelli, che portava raccolti in due folte
trecce, erano fulvi come il mantello di una volpe.
Non si è accorta di me, pensò. Aveva qualcosa di
strano sul viso, forse una maschera. Ma poteva essere il gioco delle ombre
e delle luci, il riverbero del sole che gli batteva sugli occhi ad
ingannarlo. Non si è accorta di me, e bisogna che ne approfitti per
andarmene alla svelta. Peccato, non potermi sdraiare, non potermi godere i
raggi del sole sulla pelle. O il suo lungo corpo sottile da adolescente,
perché no. Chissà chi è. Chissà che cosa ci fa, tutta sola in un posto
come questo.
Chiamò il cavallo, con un fischio sommesso. Si era
infilato le brache, e gli davano fastidio, appiccicate com’erano alla
pelle bagnata. Prima di indossare la casacca, saettò ancora un’occhiata
tra il folto dei salici, ma la donna era sparita, o forse non c’era mai
stata, la sua immaginazione, magari la sua fame, l’aveva ingannato. Ma
non era immaginazione il falco che era calato in picchiata su di lui e gli
aveva piantato gli artigli acuminati nella faccia. Con gli occhi accecati
dal sangue, se lo strappò via, lo stritolò tra le grosse mani e gettò
sull’erba la piccola carcassa inerte. Quindi, sopraffatto dal dolore,
crollò anch’egli svenuto. La sua condizione non gli aveva mai
risparmiato la sensazione spiacevole della sofferenza e, anche se non
potevano ucciderlo e si chiudevano in poco tempo senza lasciare cicatrici,
fossero inflitte da una spada o da una freccia o dagli artigli di un
animale, le ferite appena inferte gli facevano male, come e più che a
tutti gli altri uomini.
* Divinità della religione druidica.
** Il tempio megalitico di Stonhenge, vicino a
Salisbury, Inghilterra sud occidentale.
***L’editto con cui venne concessa ai Cristiani la
libertà di culto.
LA VOLPE
-Benvenuto nel mio castello.
Gli occhi dell’uomo e quelli della donna s’incrociarono
e si scrutarono nella grande dalle pareti scabre, illuminata dalla luce di
almeno cento torce.
Era lei, la stessa che, la mattina di quel medesimo
giorno, aveva visto bagnarsi nelle acque del lago. Una tunica nera copriva
dal collo ai piedi il suo corpo sottile da adolescente e il solo oro che
le luccicasse addosso era quello di un grande anello al medio della mano
destra e dei folti capelli rossi che, sciolti, le arrivavano alle anche.
Aveva un piccolo naso concavo, labbra pallide e denti grandi, leggermente
irregolari. Gli occhi erano di un azzurro chiarissimo, quasi trasparente.
Vista da vicino, dimostrava una trentina d’anni .Era bella?Era brutta?
Non si capiva molto di lei, per via della maschera formata da strisce di
cuoio che le nascondeva la parte superiore della faccia. Forse era
sfregiata. Pensò l’uomo. Forse, semplicemente, non intendeva rivelare
la sua identità a quello sconosciuto che aveva raccattato nel bosco,
svenuto e con il volto straziato dagli artigli di un falco. Doveva essersi
chiesta tante cose sul suo conto: soprattutto perché quelle ferite
profonde erano scomparse in meno di un’ora senza lasciare traccia.
Quella dama altera, dal volto mascherato e dalla chioma fulva come il pelo
di una volpe doveva aver violato il suo segreto, pensò Maximus, l’Immortale.
Ma io so tutto di te anche se non conosco il tuo nome.
E quel che ho saputo mi basta, pensava la dama guardandolo con i suoi
grandi occhi chiari come l’acqua. Era da tanto tempo che ti aspettavo.
Da troppo. Avevo quasi perso la speranza.
Le piaceva, quel che vedeva. Un uomo nel fiore degli
anni, dalle grosse spalle e dal bel viso franco, incorniciato da lunghi
capelli castani e da un’ispida barba quasi bionda. Non c’era traccia
alcuna delle ferite che gli artigli del falco gli avevano aperto sulla
fronte e sulle guance. Era il segno, quello, ciò che andava cercando da
una vita, perché si compisse la Profezia.
Poteva capitarmi un mostro, un essere orrendo e
deforme, e mi sarei dovuta inchinare all’ineluttabilità del destino
senza oppormi. Invece potrei essere io il mostro, ai suoi occhi. Occhi
acuti, tra l’azzurro e il verde, sormontati da folte sopracciglia
spettinate e incorniciati da lunghe ciglia di seta. Occhi incapaci di
mentire. Lo sguardo era quello duro di chi ha visto troppo, illuminato
però da pagliuzze ambrate e da sprazzi d’intensa dolcezza. Aveva labbra
tenere, quasi femminee e, cosa rara per quei tempi, una bella chiostra
compatta di denti bianchi e sani. Gli aveva dato, in luogo dei suoi che
erano sporchi e rovinati, abiti neri, nuovi e puliti. Il nero valorizzava
l’abbronzatura della pelle, gli occhi chiari, il corpo splendidamente
modellato dell’uomo. Dell’unico uomo al mondo in grado di far sì che
la Profezia si avverasse, pensò la castellana distogliendo da lui lo
sguardo e porgendogli la mano da baciare.
-Posso conoscere il vostro nome, messere?
-Maximus.
-Un nome latino.
-Eh, già. Un nome latino. E il vostro, mia signora?
-Morgana, figlia di Brochavael, duchessa di Powys.
Non era proprio bella, ma il piglio aristocratico, lo
sguardo deciso e i capelli rossi le conferivano fascino. Perfino quella
maschera di cuoio che chissà cosa nascondeva agli occhi del piccolo
scorcio di mondo che conosceva, i suoi servitori silenziosi, la sua
giumenta dal mantello biondo, la coppia di giganteschi, ispidi cani d’Irlanda
che la seguivano ovunque. Chissà se aveva un marito, da qualche parte. O
magari l’aveva avuto, ed era morto. La stragrande maggioranza degli
esseri viventi non aveva la sua fortuna e ,in quei tempi di peste, guerre,
fame e carestie la morte ti stava appiccicata alle costole, pronta a
colpirti, senza riguardo alcuno per la tua giovinezza, i tuoi beni, il tuo
ceto e la tua voglia di vivere.
Forse sei l’unico, se si esclude il vecchio Taliesin.
L’unico maschio sopravvissuto alla sua morte, e non m’interessa sapere
come e quando, se ad opera della tua stessa volontà, o di qualcuno che ti
amava. O magari ti odiava. Com’è capitato a me. Sono stata fortunata,
pensava Morgana guardandolo divorare la sua cena,bere idromele* a larghe
sorsate, mentre lei si limitava a piluccare qualcosa da un vassoio d’argento,
a sorseggiare acqua di fonte da una coppa ingemmata. Era stata fortunata,
già. Le sarebbe toccato in sorte, quella notte, di giacere con un uomo
giovane, bello e vigoroso. E la Profezia si sarebbe compiuta.
Sapeva che non gli avrebbe detto di no.Gli uomini sono
tutti uguali, e neanche quello aveva trovato il coraggio di tirarsi
indietro. Non si era domandato che cosa potesse nascondere quella
maschera, mentre sentiva le dita sottili di lei insinuarsi sotto la
tunica, scorrere lungo la pelle tiepida. Aveva un aroma intenso di sudore,
di cuoio e di uomo. E un gusto di sale e di vita, sul bel collo e sul
petto possente. Baciava bene. E gli piaceva lasciarsi baciare. Morgana si
abbandonò a lui e ai suoi abbracci per tutta la notte, ricambiando
furiosamente la sua intensa passione. Avevi fame anche di questo, gli
sussurrò con voce arrocchita mentre lui la eccitava leccando, succhiando
e mordicchiando le punte dei suoi seni minuscoli e insinuando la grande
mano dalle dita lunghe e forti nella parte più segreta di lei. Non gli
avrebbe detto stai con me per sempre, pensò mentre lui la penetrava, ed
era la terza volta, nel corso di quella notte. Versa dentro di me tutto il
tuo seme immortale, Maximus, poi va dove ti porta il destino.Il mio si sta
compiendo proprio in questo momento.
Morgana giacque a lungo in silenzio tra le sue braccia.
E’ terribilmente forte, pensò. Chissà chi era e da quale recesso del
passato era venuto per portarle il dono d’inestimabile valore che lei da
anni attendeva.La luce chiara dell’alba, penetrando attraverso le
feritoie che si aprivano sui muri, illuminò il suo grande corpo disteso
nell’abbandono del sonno,il volto inquieto dai lineamenti delicati. In
un lontano passato, forse aveva avuto dei figli che gli somigliavano e che
adesso erano polvere, ossa e marciume. I figli di una donna che magari
aveva giaciuto con lui per una notte soltanto, e di quel momento d’amore
lui aveva perso la memoria.
Non ti resterà memoria neppure di questa notte,
pensava Morgana. Di una notte nel corso della quale più volte e con
uguale intensità hai amato una dama mascherata che si era offerta a te
dimenticando ogni pudore. E che avrebbe dovuto farlo anche se non fossi
stato quello che sei.
La mano della donna gli accarezzò dolcemente il petto.
Voglio toccarti ancora, per conservare in me tutto il ricordo della tua
forza e della tua bellezza, pensava. Per ringraziarti di come sei e di
quello che sei. E di ciò che mi darai, come sta scritto.
Il suo corpo era segnato da numerose cicatrici. La
prima delle sue molte vite doveva essere stata dura,difficile. Forse,
anche allora era stato un soldato. Un soldato che, nel corso di qualche
guerra era stato preso prigioniero dai suoi nemici, pensò Morgana quando
l’uomo si voltò sul fianco, dandole le spalle. E i suoi nemici lo
avevano marchiato a fuoco, come si fa con gli schiavi, dedusse quindi,
chinandosi a baciare il segno della sua antica sofferenza. Fu allora che
lui si svegliò, e la strinse a sé , afferrandola tra le sue braccia
forti. Sarebbe stato amore, ancora una volta. Se la maschera non fosse
caduta, scoprendole il viso.
-No. Non avrei voluto che questo accadesse.
E adesso vattene, torna fuori a cercare la tua strada,
Cavaliere Nero. Camelot, il Cerchio di Pietre o le nebbie della palude di
Glaston, che nascondevano il segreto di Avalon. Quanti erano impazziti o
addirittura morti, nel tentativo di violarlo?
Morgana nascose con le mani il volto sfregiato dalle
lunghe cicatrici tortuose che le segnavano la fronte e le guance. Sarebbe
stato tutto così perfetto, se lui non le avesse viste, se non ci fosse
stata tutta quella pena, nello sguardo che la accarezzava. Vattene,
Maximus. Torna nel tuo mondo, e dimenticami. Ho già preso quel che volevo
da te, prima che tu potessi vedere quello che sono e che sarò fino alla
fine dei tempi. Lo pensò e non glielo disse, Morgana, la Volpe Rossa.
Vattene, e io tornerò alla mia solitudine. A coltivare in me il tuo dono.
*Bevanda leggermente alcolica, che si ricava dalla
fermentazione del succo di mela.
IL MAGO
L’aria del primo mattino era ancora fredda, e Maximus
si strinse nel mantello. Camelot non poteva essere lontana. Avrebbe
chiesto udienza ad Artù, il re cristiano di Dumnonia. Gli avrebbe
domandato di essere arruolato tra i suoi cavalieri, per poter mettere la
sua spada al servizio di ciò che restava,lassù, di Roma e delle vestigia
di un’antica grandezza. Resti diroccati di fortificazioni e acquedotti
sparsi per la campagna, colonne mutile di templi nelle città che aveva
visto: Aquae Sulis,Glevum,Sarum,Londinium.* Resti diroccati di un mondo
che ben difficilmente sarebbe sopravvissuto all’impeto distruttivo dei
barbari Germani e delle tribù selvagge dei Pitti, dei Caledoni e degli
Scoti che premevano aldilà del Vallo di Adriano. Scampoli di una civiltà
scomparsa che molto probabilmente non avrebbero resistito neppure alle
dispute della litigiosa nobiltà locale o agli aspri contrasti che
dividevano la popolazione cristiana e romanizzata dai seguaci, ancora
numerosi, dell’ Antica Religione. Per non parlare delle bande di
briganti che, i tempi difficili come quelli, proliferavano dappertutto.
Il grido lontano di un corvo ruppe il silenzio e la
solitudine della valle. C’era qualcosa di strano, nel silenzio rotto da
quel gracchiare stridulo. Maximus fermò il cavallo, si guardò intorno.
Era un grido d’allarme, quello, non un richiamo di caccia.
Non c’erano alberi, lungo il tracciato dell’antica
strada romana. Dovevano averli tagliati, allo scopo di impedire le
imboscate. Il cielo si stava oscurando e non c’erano ripari di sorta, se
avesse cominciato a piovere. Un raggio di sole balenò attraverso le
nuvole e si riflesse su qualcosa di metallico. Armi. Grida concitate che
non erano quelle dei corvi, né di altri animali.
Maximus spronò il cavallo a correre in direzione del
bagliore sul metallo, delle urla di rabbia, forse di paura. Erano in tre,
armati di spada, e avevano assalito un vecchio. L’uomo aveva lunghi
capelli bianchi, indossava la tunica gialla dei druidi e portava con sé
un bastone nodoso, al quale si appoggiava per camminare.
Era coraggioso, anche forte, per l’età che aveva. Le
bastonate che menava, spesso, si abbattevano sui suoi assalitori, che,
smontati di sella ai loro tozzi pony pelosi, lo cingevano d’assedio
contando d’approfittare di una sua mossa avventata per farlo fuori.
Maledetti briganti. Maximus si gettò nella mischia roteando la spada.
Rimediò un fendente al petto che gli aprì la tunica e gli segnò la
pelle senza tuttavia provocare gravi danni e, nella foga della lotta, un’energica
bastonata che lo fece barcollare e che, nelle intenzioni dell’indomito
vecchio, non era certo destinata a colpire la sua schiena. Ma uccise due
degli assalitori, e mise in fuga il terzo.
-Forse sarebbe prudente che viaggiassimo insieme,
finchè sarà possibile. Adesso avete anche voi un cavallo, signore. Così
non vi stancherete.
Il vecchio ansimava come un mantice, e perdeva sangue
dal palmo della mano destra con cui, poco avvedutamente, aveva tentato di
deviare un colpo di spada. Era piccolo, magro, rinsecchito, e sembrava
impossibile avesse dato tutto quel filo da torcere a tre feroci
grassatori. Ma gli occhi erano vivi, le movenze agili, l’eloquio pronto,
a dispetto dell’età che doveva avere
-Perdete sangue. Lasciate che vi medichi.
-Potrei dire altrettanto di voi, mio giovane amico.
-Non datevi pena. Un po’ d’acqua sarà più che
sufficiente alla bisogna.
Il vecchio guardò Maximus sfilarsi la tunica,
tamponarsi la ferita con un brandello di stoffa inumidito con l’acqua
della sua borraccia. Il taglio era netto, poco profondo, qualche ragnatela
raccattata in mezzo all’erba sarebbe stata sufficiente a fermare il
sangue. Chissà per quale motivo quel giovanotto bello, dalla corporatura
possente, che si portava appresso oltre all’arco, alle frecce e allo
spadone anche il piglio del condottiero non portava una cotta di maglia di
ferro sopra la tunica e il pettorale di cuoio lo teneva appeso alla sella
anziché addosso.
-Sono mesi che schiodo le natiche dalla sella solo per
dormire e per pisciare. Troppa roba addosso mi dà fastidio. Peccato però
che quel figlio di puttana mi abbia rovinato la casacca nuova.
-Una casacca fresca, leggera e di buona stoffa.
-Ne convengo.Ma…Mostratemi la mano, signore. La
vostra ferita sanguina più della mia.
Il vecchio aveva occhi di un azzurro cupo, che
scintillavano nella profondità delle orbite rugose, ombreggiati da
sopracciglia folte, bianche, lunghe e spioventi come quelle dei grandi
cani d’Irlanda. Con quegli occhi acuti,percorse il petto nudo di Maximus,
osservò le cicatrici che lo segnavano. Risalivano ad un’altra vita, a
quando era un uomo come tutti gli altri e le ferite lasciavano il segno
sopra la sua pelle. Adesso, invece, si chiudevano senza bisogno di
medicarle e senza lasciare tracce, nello spazio di pochi minuti. Come
quella che aveva lui sul palmo della mano grinzosa.
Il giovane e il vecchio scoppiarono a ridere,
guardandosi negli occhi. I miei segreti sono i vostri, signore. Ditemi il
vostro nome, cavaliere. E voi il vostro, Mago.
-Massimo Decimo Meridio, nato l’anno Novecentesimo
dalla Fondazione di Roma, regnante il Cesare Lucio Antonino Pio a
Tergillium, nella Provincia Senatoria dell’Hispania Baetica. Contadino,
soldato, generale, schiavo, gladiatore e regicida. Ammazzato nell’Anfiteatro
Flavio all’età di trentatré anni dal Cesare Lucio Aurelio Antonino
Commodo, a sua volta da me ferito a morte, e riportato in vita, grazie ai
sortilegi di una maga della Tessaglia, per volere di Annia Lucilla Galeria,
principessa imperiale innamorata di me senza speranza. Eccovi spiegato in
quattro parole perché le ferite non solo non mi uccidono, ma si chiudono
senza lasciare il segno in pochi minuti, quale che sia la loro gravità.
Come a voi, signore.
-Taliesin. Per la mia gente, Merlino, il Mago. Il
superstite di una razza antica, il depositario della magia e della
sapienza. Colui che non doveva nascere, generato dall’unione di una
donna con una creatura delle tenebre, la notte in cui si celebrava la
festa di Beltane.** Nato dal Male per essere il Male stesso, ho scelto un’altra
strada…Un giorno capirete quel che intendo dire. Per ora, vi basti
sapere che anche a quelli come noi è dato di poter scegliere la propria
strada. Nel bene e nel male. Ma forse lo sapevate già,tutto questo.
-Dove siete diretto?
-A Camelot. Intendo chiedere udienza al re: voglio
ricevere l’investitura di cavaliere.
-Vi mancano uno stemma, un motto e una casata.
-Non credo che il re, se è saggio come dicono, si
formalizzerà sul colore del mio sangue piuttosto che sulla mia abilità
con le armi. Ma se è proprio necessario che sul mio scudo siano dipinti
un motto e una figura…”Vis et honor”***. E la testa di un
lupo.
-Anch’io vado a Camelot. Dal mio re.
-Bene. Allora andremo insieme.
*Rispettivamente le attuali Bath, Gloucester,
Salisbury e Londra.
**La festa pagana della Primavera, nel corso della
quale si celebravano riti orgiastici e sacrifici umani.
***Forza e onore.
VERSO CAMELOT
-Saremo in città, prima che faccia notte. Al sicuro.
Risero ancora, il vecchio mago e il giovane cavaliere.
-Voi conoscete bene il re.
-A me deve ciò che è e ciò che sa. Quasi sicuramente
sarebbe morto, se non ci fossi stato io. Nel momento stesso in cui è
venuto al mondo, tutti sapevano che era destinato a regnare. Ma erano in
molti a sperare che morisse: i neonati sono fragili si sa…E lui non
aveva nessuno che potesse proteggerlo, dacchè Uther, il Dragone Rosso,
colui che lo aveva avuto da una donna sposata, era morto cadendo da
cavallo. Una morte strana, per uno come lui, che cavalcava come il vento.
Ma quando si scoprì che la lama di un coltello aveva tagliato la cinghia
della sella allora tutto fu più chiaro. Lo portai via quella notte
stessa, per affidarlo a ser Hector, il duca cristiano di Tewdric,
affinché lo allevasse con suo figlio Kay e lo proteggesse dai pericoli
che lo minacciavano…finchè non fosse giunto il suo momento. Era una
notte d’inverno, e nevicava, quando lasciai il castello di Powys con
quel bambino fra le braccia.
-Io venivo via dal castello di Powys, quando vi ho
incontrato.
Un posto desolato. Una dama mascherata si consuma nella
solitudine, in quel nido di corvi, con la sola compagnia di alcuni vecchi
servi, un ronzino dal mantello falbo e una coppia di cani d’Irlanda alti
come puledri. Un posto da dove, ne sono sicuro, qualcuno ha aizzato contro
di me un falcone da caccia, con l’intento di cavarmi gli occhi. Non
avrei provato meraviglia, se avessi visto biancheggiare ossa umane in
mezzo all’erba. Ma la dama è stata gentile con me. Mi ha offerto cibo,
alloggio, abiti nuovi in luogo degli stracci sudici che mi portavo addosso…E
ha diviso con me il suo letto.
Maximus fremette, ricordando quei momenti. E anche
Taliesin strinse forte nelle mani che sbiancarono le redini del suo
piccolo pony.
-Morgana. I pericoli che minacciavano la vita del
piccolo Artù era da lei che venivano. Aveva dodici anni, quando sua madre
l’ha messo al mondo, ma il seme che l’aveva ingravidata non era quello
di suo marito. Brochavael è morto combattendo prima ancora che il figlio
di Uther nascesse e la ragazza odiava sua madre, ritenendola colpevole di
quanto la sorte aveva avuto in serbo per il duca di Powys, a cui era molto
legata. Non ti fossi comportata come una donnaccia, ma avessi fatto il tuo
dovere di moglie, di madre e di gentildonna, invece di lasciarti
trasportare dalla passione, lui sarebbe ancora vivo. Lui, l’uomo che ad
Ygraine era stato imposto, che l’aveva sempre onorata e rispettata, ma
si portava appresso cinquant’anni e un profilo da caprone, mentre Uther…Purtroppo
è così che va il mondo, mio giovane amico: ciò che abbiamo non è mai
ciò che vorremmo.
Non aveva voluto prender marito, Morgana, la Volpe
Rossa. Morgause, la sua sorella minore, a quattordici anni era andata in
sposa a Lot di Orkney, il sovrano di una lontana terra settentrionale,
mentre lei era rimasta orgogliosamente sola. Nessun uomo sano di mente
prenderebbe con sé una strega, ma lei non sembrava affatto dispiacersene.
Il grande cavallo e il piccolo pony varcarono le mura
di Camelot al tramonto. Il vento del nord aveva spazzato via le nuvole.
Faceva freddo. La poca gente rimasta ancora per strada si affrettava verso
casa a passo svelto.
-Mentre…Beh, ci siamo capiti…Mentre io e lei
facevamo l’amore le è caduta la maschera.La duchessa di Powys ha il
viso orribilmente sfregiato.
-Quella donna è…E’ esattamente ciò che siamo io e
voi, cavaliere. Un’Immortale. Sarà costretta ad attraversare i secoli
con quella maschera sul viso, se non vorrà leggere orrore e ripugnanza
negli occhi che la guarderanno. E’ il castigo, questo, dovuto alla sua
malvagità. Chi credete che volesse la morte del piccolo Artù? E Ygraine?La
gente ritiene che sia morta di febbre, ma come non mettere in dubbio che
non si sia trattato, in realtà, di veleno? E chi, se non lei, potrebbe
aver tagliato la cinghia prima che Uther Pendragon montasse in sella?
-Allora chi ha voluto riportarla indietro dal mondo dei
morti l’ha fatto con uno scopo ben preciso…
Taliesin guardò dritto negli occhi il suo
interlocutore. Aveva fatto l’amore con quella creatura infernale, gliel’aveva
confidato lui stesso. Un Immortale, si disse, non può ingravidare una
donna qualsiasi, ma era possibile che potesse farlo con una come lui…Morgana,la
Volpe Rossa, aveva adescato il bel guerriero che veniva dal passato
proprio a quello scopo:per generare un figlio che diventasse strumento del
suo odio e della sua sete di vendetta. Avrebbe voluto parlare, Taliesin il
Mago. Ma a che pro? Se quel che doveva essere era stato, ormai era troppo
tardi per porvi rimedio.
-Vi domandate chi e perché ha voluto che Morgana
tornasse indietro dal mondo dei trapassati. Da solo, forse vi siete
risposto che ciò è stato per volere dei nemici del nostro re. Oh, sono
in tanti coloro che vorrebbero vederlo morto: i nobili che ambirebbero a
prendere il suo posto. Aelle ed Hengist, i capi dei Sassoni, nostri
nemici. Gli Scudi Neri di Demetia*, i Pitti, i Caledoni e gli Scoti che
premono aldilà del Vallo di Adriano…I seguaci della Vecchia Religione
perché Artù è cristiano, il clero cristiano perché il nostro re è
troppo tollerante nei confronti di chi si ostina a venerare gli Antichi
Dei. Invece…
-Invece?
-Fui io, malgrado possa essere difficile crederci. I
nostri passi nel mondo sono segnati nelle stelle, il destino di ciascuno
di noi è scritto nel momento stesso in cui veniamo al mondo. Questo per
dirvi che non avrei dovuto farlo. E che spero di non dovermene pentire, ma
è stato più forte di me.
-Perché dite questo?
-Ascoltatemi, giovane amico. E’ capitato non più di
un anno fa. Siete stato suo ospite, e avete visto dove e come vive la
duchessa di Powys: sola, se si eccettuano un paio di famigli decrepiti, un
vecchio cavallo e una coppia di grossi cani. Il suo unico passatempo è la
caccia con i falconi, che alleva e addestra personalmente. E’ molto
abile in questa difficile arte,mi si dice.
-Ne convengo. Adesso immagino chi possa essere stato ad
aizzarmi contro quel dannato uccellaccio, quando…
-Morgana non è certo una donna ricca, ma il suo sangue
nobilissimo e la sua grazia hanno nel tempo attirato numerosi pretendenti
le cui profferte lei ha sempre ricusato con sdegno. Dev’essere stato un
suo pretendente respinto a regalarle il falcone che le ha sfregiato la
faccia, per vendicarsi di essere stato umiliato in quel modo. E’ stato
in conseguenza di quelle ferite che Morgana è morta.
Non si muore a causa di qualche graffio, per quanto
profondo e deturpante possa essere o forse…Forse gli artigli dell’animale
erano stati avvelenati, magari semplicemente insudiciati con terriccio,
ruggine ed escrementi. I Germani, a volte, lo facevano con la punta delle
loro frecce, pensò Maximus. La conseguenza erano ferite da poco conto a
cui non si badava, ma che di lì a pochi giorni scatenavano nel sangue un’infezione
violentissima, che portava alla morte tra atroci sofferenze.
-Gli spasimi l’avevano appena uccisa, quando due
donne vennero a cercarmi per chiedermi di fare quello che poi ho fatto:Maeve,
la sua vecchia nutrice. E una ragazza piccola, minuta, dai capelli che
avevano il colore dei raggi della luna.Nimue.Vivian…
L’ultima luce del giorno illuminò gli occhi del
vecchio e Maximus abbassò la testa. Avrebbe potuto chiederti qualsiasi
cosa, la fanciulla dai capelli di luna e tu l’avresti fatta, grande
Mago. L’avresti fatta perché uno sguardo e un sorriso di lei è bastato
a farti perdere la saggezza, forse la ragione. Con tutti gli anni e tutta
la sapienza che ti porti dietro, Taliesin. Merlino.
Una figura minuta attraversò la strada proprio davanti
ai loro cavalli. Una contadinella, infagottata dentro una rozza tunica di
stoffa grigia e con la testa avvolta da uno scialle di lana da cui
fuggivano ciuffi di capelli lisci,di un biondo quasi albino. E’ magra e
macilenta, si ritrovò a pensare Maximus, guardandola. Non è bella, ed è
sicuramente meno giovane di quel che sembra vista da una certa distanza.
-Nimue…Vivian…-mormorò piano il Mago, drizzandosi
sulla sella. Sei solo un vecchio ridicolo, Taliesin. Torna in te stesso.
Non ti rendi conto di quel che stai facendo?
Quel che avrebbe voluto dirgli, rimase imprigionato nei
suoi pensieri. Nimue aveva occhi freddi, incapaci di sorridere, e labbra
dure. Maximus rabbrividì.
*Pirati irlandesi.
GINEVRA
A tre anni dall’arrivo di Maximus a Camelot.
La moglie del re, la sua regina, aveva lunghi capelli
biondi e grandi occhi inquieti. Era bella, pensava Maximus. Bella e
infelice. Lui aveva imparato a riconoscere a colpo d’occhio l’infelicità
di una donna, in tanti anni che stava al mondo. Pur non somigliandole, gli
ricordava Lucilla. Come a lei, altri le avevano cucito addosso il destino.
Come lei, non aveva mai accettato la sua sorte accanto a un uomo che
avrebbe dovuto amare, e non amava.
Il suo dovere di regina era dargli dei figli,
assicurare al trono di Dumnonia una discendenza. Era importante, in tempi
come quelli. Gli altri gliene facevano una colpa. Ed era davvero colpa
sua, visto che, a vent’anni, Artù aveva avuto un figlio bastardo da una
serva, un figlio di cui tutti sapevano. Un altro l’avrebbe ripudiata,
costringendola a restare fino alla fine dei suoi giorni prigioniera tra le
mura di un convento. Artù, invece, continuava a tenerla presso di sé,
chiamandola mia regina ed onorandola, come se l’amasse perdavvero. Ma è
possibile amare qualcuno che neppure conosci e che vedi per la prima volta
inginocchiato al tuo fianco davanti al prete che celebrerà le nozze? E’
giovane, di bell’aspetto e di animo nobile, le aveva detto la sua
nutrice. Lo conoscerai, imparerai ad amarlo e con lui sarai felice. L’aveva
conosciuto. Era vissuta al suo fianco, aveva giaciuto con lui accettando
senza lamentarsi di onorare il debito coniugale. Ma non aveva mai imparato
ad amarlo. Era alto, imponente, aveva uno sguardo franco e bei capelli
folti. Era tutt’altro che brutto. Eppure, le ripugnavano il tono della
sua voce, l’odore della sua pelle, le sue grosse lentiggini scure. Le
dava fastidio la sua vicinanza. Quando facevano l’amore, non si
preoccupava neppure di fingere il piacere che non provava.
Ginevra scostò le cortine della finestra, si sporse
appena in modo da guardare senza essere vista. Nella grande corte, i
cavalieri del re si esercitavano con le armi e nella lotta a mani nude.
Maximus il Lupo veniva dal sud, anche se sembrava uno di loro. Veniva da
quel che restava del grande Impero d’Occidente, un lembo di terra
gettato come un ponte tra le brume dell’Europa e il sole dell’Africa,
dove sorgeva Roma, un tempo faro di civiltà, adesso stalla dei cavalli di
Thiuda* l’Amalo e dei suoi guerrieri ostrogoti. Doveva essere fuggito
via da una realtà che non amava e rifiutava di accettare.
L’unica possibile fuga da una realtà tanto
inaccettabile quanto ineluttabile sono i sogni, pensava la regina
guardandolo, mentre insegnava i trucchi della lotta ad alcuni giovani
paggi. Il suo corpo possente, lucido di sudore avrebbe potuto darle il
piacere che non aveva mai provato, si ritrovò a pensare. Quell’uomo era
bellissimo, proprio colui dal quale sognava di essere stretta, mentre
fuori, nella notte, i lupi ululavano e cadeva la neve.Non aveva moglie, le
era stato detto. Non aveva una compagna, un’amante, una donna qualsiasi
con cui dividere il letto. Forse andava alla ricerca di quel che non
aveva, e non gliene importava un bel nulla che lei fosse la moglie del suo
re, aveva pensato un giorno Ginevra, ritrovandosi faccia a faccia con lui.
Aveva un bel sorriso, ricordò, tratti delicati in contrasto con la
corporatura massiccia e occhi incredibili:azzurri, venati di verde e
spruzzati di gocciole d’oro; visto da lontano e armato dei suoi
micidiali strumenti di morte, sembrava molto più alto e più grosso di
quanto in realtà non fosse. E assai meno vulnerabile.
Erano soli, e vicini, tanto da confondere i rispettivi
respiri. Non le avrebbe detto di no, non esiste al mondo uomo che lo
farebbe, se una donna gli si offre, fosse essa pure la donna del suo re, a
cui ha giurato lealtà a costo della vita. La piccola mano delicata della
regina gli sfiorò il petto in una lenta, provocante carezza. Le labbra si
protesero a cercare le sue.
-No. Ho giurato fedeltà al mio sovrano, e intendo
rispettare i patti.
Maximus. Che tu sia maledetto. Il pensiero le
attraversò come una folgore la mente sconvolta. Lo guardò allontanarsi,
prima di andarsene anche lei, per rinchiudersi nei suoi appartamenti e
piangere, lontana da occhi indiscreti, tutte le sue lacrime.
*Teodorico
ARTU’
A diciannove anni dall’arrivo di Maximus a Camelot.
Presto sarà guerra, tra noi e loro. Presto saranno le
armi a decidere a chi toccherà il dominio su queste terre, tra noi dell’Antica
Razza e loro, i Sassoni dai capelli incolti e dagli elmi cornuti. Presto.
Troppo presto, si ritrovò a pensare il Re, tracannando d’un fiato l’ennesimo
bicchiere di idromele. Quel tempo era nell’aria già da quando, poco
più che bambino, sfilai dal ferro e dalla roccia la lama arrugginita di
Caledfwylch, ma in realtà speravo che non venisse mai. Invece è
arrivato, proprio quando meno me l’aspettavo:adesso che sono solo, senza
consigli e senza difese, senza una amico fidato, senza una donna nel cui
calore cercare conforto. Parecchi suoi cavalieri erano partiti alla
ricerca della più santa di tutte le reliquie, il Graal che le nebbie
della palude di Glaston occultavano all’avidità degli uomini. Solo un
cuore completamente puro avrebbe potuto sperare di portare a termine quell’impresa
e offrire alla venerazione del popolo il santo calice che aveva raccolto
il sangue di Cristo in croce e che, in tempi molto lontani, era giunto in
quelle contrade portatovi da Giuseppe d’Arimatea, che di Gesù era stato
apostolo e seguace. Alcuni non tornavano. Altri impazzivano. I più
tornavano sì, ma l’amarezza e lo sconforto della sconfitta avevano
fatto di loro altri uomini, ben diversi dai baldi e coraggiosi guerrieri
che erano stati prima di partire.
Da poco meno di un anno, Taliesin era scomparso.
Ritornerà, si era detto il Re, anche se il Vescovo sperava che l’avesse
inghiottito l’inferno, perché quello era il posto giusto per gli empi e
i ciarlatani suoi pari, per coloro che continuavano a rifiutare l’unico
vero Dio pur di non rinnegare gli antichi idoli falsi e bugiardi dei loro
progenitori.
E Ginevra…Artù tracannò d’un fiato l’ennesimo
bicchiere. Lui l’aveva amata, e non solo perché gli era imposto dal
dovere. E lei lo aveva ricambiato con la moneta del tradimento.
Quanti anni erano passati dacché Lancillotto aveva
posato il suo piede sul sacro suolo di Dumnonia? Forse dieci. Preceduto da
una fama di coraggioso combattente, era giunto da Benoic, nella terra di
Broceliande* ed era stato arruolato nella guardia personale del re. Aveva
fatto carriera in fretta, diventando in breve capo di quelle stesse
guardie e guadagnandosi l’onore di prender posto alla sinistra del suo
sovrano. Era diverso dai rudi guerrieri che sedevano intorno alla grande
Tavola Rotonda e non dovette passare molto tempo prima che Ginevra lo
notasse. Non era alto e massiccio, bensì agile e ben proporzionato.
Conosceva il latino, sapeva leggere, scrivere, suonare il liuto e comporre
versi. Gli piacevano le vesti eleganti, i profumi, portava i capelli, che
erano neri e lisci, tagliati corti e teneva sbarbate le guance pallide.
Ginevra, forse, non aveva creduto possibile che sulla terra esistessero
uomini simili e lui era di quelli che sembravano nati per portare
consolazione alle donne che, per una ragione o per l’altra, consumavano
la loro vita nella malinconia e nella noia. In poco tempo, malgrado
fossero entrambi sposati, i due erano diventati amanti. E Artù aveva
sempre cercato di negare l’evidenza. Perfino quando Lancillotto e
Ginevra erano fuggiti insieme. Non aveva ordinato ai suoi uomini di
inseguirli fino in capo al mondo e di riportarli in catene a Camelot dove
lei sarebbe stata marchiata a fuoco, rasata e seppellita viva in un
monastero, mentre lui avrebbe conosciuto la sorte che spettava ai
traditori, la morte per squartamento: il boia avrebbe legato le sue
braccia e le sue gambe a quattro grossi cavalli, che sarebbero stati poi
lanciati al galoppo in direzione dei quattro punti cardinali…
Artù si voltò verso la porta e il suo sguardo
incrociò quello di Maximus. Non lo aveva sentito entrare, perché quell’uomo
gagliardo aveva il passo leggero di una lince sulla neve. Come farà, si
era sempre domandato. Allo stesso modo in cui si era domandato come avesse
fatto a fermare il tempo. Nonostante fossero trascorsi quasi vent’anni,
lui non era cambiato:non un capello bianco, non una ruga in più, un dente
guasto, un filo di grasso superfluo.Dimostrava trent’anni, e doveva
averne più di cinquanta. Il re, invece, a quaranta sembrava un vecchio.
Gli occhi di Maximus gli bruciavano sulle chiazze di calvizie, sul viso
rosso e gonfio da bevitore, sulle cornee iniettate di sangue. E la pietà
che non riuscivano a nascondere gli faceva più male di una ferita.
-Mi sono sempre chiesto come sia possibile…che voi
non invecchiate come tutti quanti gli uomini. Siete…uno stregone,
messere?
-Dimenticate che a uno stregone dovete tutto
quanto.Compresa la vostra stessa vita.
-Taliesin…Chissà che ne è stato di lui.
Vi manca, Sire. Siete perso, senza di lui e senza
quelle certezze che credevate inamovibili. Specialmente adesso, che i
tempi si sono fatti difficili, per voi e per il Regno.
-Ho ricevuto, molto tempo fa, un dono che a pochi è
dovuto. Un dono d’amore che è diventato una maledizione.
-L’immortalità…messere? Non vi invidio.
Maximus si era accomodato su uno sgabello, ai piedi del
re. Raccontatemi di voi, gli aveva domandato Artù con voce ubriaca, e lui
gli aveva detto tutto. Ho oltre trecento anni. Nella mia vita mortale,
sono stato un generale al servizio dell’imperatore Marco Aurelio e uno
schiavo durante il regno del suo figlio e successore, il turpe Lucio
Aurelio Antonino Commodo. Mi costringevano a combattere per il sollazzo
della plebaglia ed è stato nel corso di uno di questi duelli che sono
morto, colpito a tradimento dallo stesso imperatore, che era un pazzo
sanguinario e si dilettava a battersi nell’arena con i gladiatori. La
vita eterna è un dono di Annia Lucilla Galeria, principessa imperiale,
che mi amava di un amore senza speranza.
Lo sguardo limpido di Maximus si era velato di
tristezza.Parlatemi della grandezza di Roma, parlatemi dell’impero più
potente che sia mai esistito, messere. Voi avete conosciuto quei tempi…Che
oggi non sono più quelli, Sire. L’Impero d’Occidente è crollato
sotto i colpi dei barbari, quello d’Oriente vive nell’isolamento
rivangando i ricordi di una grandezza che è stata e adesso non è più.
Il passato non torna.
-Prima di chiedervi licenza e di andarmene, voglio
dirvi una cosa soltanto, Sire. Il giovane Galahad di Benoic è tornato
dall’isola di Avalon…
-A mani vuote e con il cervello sconvolto, come quelli
che lo hanno preceduto.
Maximus scosse la testa.
-Recava con sé il Sacro Calice. Una semplice ciotola
di legno, non molto diversa da quelle di cui si servono i contadini per
consumare i loro pasti.
-Ha compiuto una grande…impresa. Immagino che dovrò
riceverlo.
Sul volto del suo interlocutore, il Re vide disegnarsi
un sorriso mesto.
-Non sarà necessario che riceviate con tutti gli onori
il figlio del traditore Lancillotto. La fatica e la febbre delle paludi
hanno consumato il suo corpo. Galahad di Benoic è morto, Sire.
-La profezia diceva che soltanto un giovane nel cui
cuore non albergasse ombra di peccato sarebbe potuto riuscire nell’impresa.
Povero ragazzo.
-Non aveva ancora diciotto anni.
-Ed era puro come un fanciullo. Sembra impossibile che
nelle sue vene scorresse lo stesso sangue del traditore.
-Già. I lombi di un traditore possono generare un
santo. Nello stesso modo in cui quelli di un galantuomo possono generare
un assassino.
*L’attuale Bretagna, in Francia.
MORDRED
Il duca di Powys chiede di essere arruolato tra i
vostri cavalieri, Maestà. Ma non era morto da quasi quarant’anni,
Brochvael, il duca di Powys? A meno che quella pazza di Morgana non si
fosse finalmente decisa, all’età che aveva, a prendere marito e a
trasmettergli il suo titolo, com’era giusto che fosse. Già, quanti anni
aveva, sua sorella? A conti fatti, pensò Artù, dovevano essere più di
cinquanta. Chi se l’era presa non poteva essere un giovincello con la
testa piena di sogni di gloria.
-Maestà…
Era ancora inginocchiato e inchinato al cospetto del
re, quando Maximus entrò nella sala del trono. Il giovane cavaliere
vestiva completamente di nero e aveva capelli sfumati di biondo che gli
ruscellavano giù per le spalle possenti. Dritta accanto a lui, stava una
piccola dama vestita di bianco che l’Immortale riconobbe subito,
malgrado non l’avesse vista che una volta, di sfuggita e per pochi
istanti: Nimue, colei che aveva saputo accendere il fuoco del desiderio
nel vecchio sangue di Taliesin. Aveva i capelli color della paglia, gli
occhi freddi e le labbra dure.
Quando il giovane duca di Powys, ricevuta sulla spalla
la piattonata della spada che lo proclamava ufficialmente cavaliere, si
drizzò in piedi sollevando orgoglioso la testa, il cuore di Maximus
mancò un battito. Aveva avuto un figlio, in quell’altra vita. Un figlio
colpevole solamente d’essere sangue del suo sangue, ma tanto era bastato
agli scherani di Commodo per prendersi la sua piccola vita innocente. Se
lo avessero lasciato vivere, forse avrebbe avuto le spalle larghe e i
lineamenti delicati del duca di Powys. Era bellissimo, pensò l’uomo con
orgoglio. Gli somigliava, anzi, sembrava la sua immagine speculare: stesso
profilo perfetto, stesse sopracciglia folte, stesse labbra tenere. Non
portava la barba, però, e gli occhi erano più chiari, di un verde
trasparente, freddo. Era figlio suo e di Morgana. Ed era immortale. Come
sua madre e suo padre.
Artù non si era domandato come mai il ragazzo si fosse
fatto accompagnare da quella piccola dama bionda, invece che da sua madre.
Pur non avendola mai più incontrata, sapeva dell’incidente. Morgana era
stata aggredita e sfregiata da un falco;le sue ferite si erano infettate
e, non fosse stato per Taliesin e i suoi impiastri a base di erbe le cui
virtù erano note a lui soltanto, sicuramente sarebbe morta. Si era
salvata ma, essendo rimasta sfigurata, non amava mostrarsi in giro, il che
era perfettamente comprensibile. La dama bionda si era presentata con il
nome di Vivian e aveva detto di essere madrina e tutrice del giovane. Si
muoveva con grazia e aveva una bella voce, ma gli occhi erano freddi, e le
labbra non ridevano.
Il giovane cavaliere somigliava a Maximus come una
goccia d’acqua. Quella cagna di Morgana doveva aver giaciuto con lui,
una ventina d’anni prima, e i risultati gli stavano davanti: un figlio
bastardo, a sua vergogna e disonore. Un figlio bastardo, esattamente come
me, pensò il sovrano. Era alto e vigoroso, il duca di Powys. Qualche anno
ancora, e sarebbe diventato identico a suo padre in tutto e per tutto.
Chissà se da lui aveva ricevuto in eredità anche il dono della vita
senza fine.
Il giovane duca di Powys appariva serio, compreso nel
suo nuovo ruolo di cavaliere. Maximus non dubitò nemmeno per un attimo
che non potesse essere abile con le armi e coraggioso come lui. Tuttavia c’era
qualcosa di strano nella sua immobilità, nei suoi occhi gelidi, nel fatto
che non poteva non aver notato la loro somiglianza e riusciva, nonostante
tutto, a ostentare tutta quell’indifferenza. Possibile che non avesse
mai chiesto di suo padre alla donna che lo aveva generato e allevato da
sola? Possibile che, una volta cresciuto,non si fosse posto delle domande
a riguardo?
Sembrava più grande dell’età che aveva, ma anche
lui a diciotto anni ne dimostrava di più, pensò Maximus. I suoi occhi lo
percorsero da capo a piedi, osservando ogni dettaglio della sua figura,
dalle ciglia lunghe al pugno di lentiggini che aveva sotto gli occhi e sul
dorso del naso, dai capelli quasi biondi, che portava lunghissimi al busto
muscoloso e possente, sotto la casacca di seta nera, fregiata proprio in
mezzo al petto, della figura stilizzata di un falco che calava in
picchiata sulla preda. Lui mi guarda con indifferenza ma io, che avevo un
figlio e l’ho perduto, io che disperavo di poter conoscere un’altra
volta le gioie della paternità, dovrei stringerlo a me e dirgli quanto
gli voglio bene, invece…Invece è come se il mio cuore fosse
imprigionato in un blocco di ghiaccio che niente e nessuno potrebbe mai
sciogliere.
-Rivelateci il nome che vi hanno dato quando siete
venuto al mondo, mio giovane amico.
Il cavaliere non rispose al suo sovrano chinando
rispettosamente la testa orgogliosa. Lo guardò, anzi, dritto negli occhi
.
-Mordred* di Powys.
Mordred. Assassino. Un brivido gelido attraversò come
una folgore tutto il corpo di Maximus, l’Immortale.
*Molti studiosi dei miti arturiani hanno riscontrato la
probabile derivazione del nome del Cavaliere Nero da un antico termine
germanico di cui è evidente la parentela con l’inglese murder e il
tedesco Mörder (assassino). Anche il nome che designa il feroce mustelide
sterminatore di galline,la martora, avrebbe questa derivazione.
EXCALIBUR
Maximus si avvolse nelle coperte di pelliccia gettate
in disordine sopra il suo letto. Tremava di freddo, ed erano anni che non
provava sulla sua pelle un sensazione tanto spiacevole. Nemmeno dell’altra
vita la sua memoria serbava un simile ricordo. Eppure, allora poteva
ancora morire.
Una freccia sassone gli aveva trafitto la schiena, nell’inferno
della battaglia. Una gran brutta ferita, di quelle che avrebbero portato
un altro alla morte dopo giorni di agonia atroce, pensò. Ma non lui.
Tuttavia doveva estrarla, se voleva continuare a combattere. Cercare di
spezzarla, quindi d’estirparla via, per poi magari aspettare che quel
dolore lancinante finisse di straziarlo. Si conosceva, sapeva che non
sarebbe durato a lungo, pensò. Era riuscito a guidare il suo cavallo in
un luogo solitario, a nascondersi in un folto di alberi. Liberatosi del
pettorale di cuoio, si era appoggiato pesantemente al grosso tronco di una
quercia, aveva spinto la freccia nella carne fino a quando non aveva
sentito la punta uscirgli dal petto. Soffocando il dolore terribile, l’aveva
strappata via. Ed era svenuto, per ritrovarsi nei suoi appartamenti
chissà quanto tempo dopo, febbricitante e dolorante ancora. Lui, le cui
ferite, per quanto gravi fossero, impiegavano pochi minuti a chiudersi e a
guarire senza lasciare nemmeno la cicatrice.
La benda che gli fasciava il busto era chiazzata di
sangue. C’era stata una lunga battaglia tra l’esercito di Artù e le
orde di Aelle ed Hengist, nella valle del Thate. Una battaglia da cui, a
causa di quella strana ferita, lui era stato costretto suo malgrado a
ritirarsi. Qualcuno doveva averlo portato via, mentre era svenuto. Chissà
che ne era stato del re. E di tutti quanti gli altri.
Sua madre sognava spesso. Ecco, di lei, morta nell’incendio
della sua casa con il marito e il figlio minore quando lui aveva sette od
otto anni, Maximus ricordava poco: gli occhi azzurri, i capelli castano
dorati, il profumo di rose e di pane fresco che le aleggiava intorno. E il
fatto che credesse nel potere divinatorio dei sogni. Sono avvertimenti che
ti mandano gli dei, diceva sempre.
Lui aveva sognato la battaglia, mentre giaceva privo di
sensi nel suo letto coperto di pellicce. Aveva visto i paladini stringersi
in cerchio intorno al loro sovrano, difenderlo dagli assalti dei barbari
Sassoni facendo mulinare le lunghe spade: Sagramor, che aveva la pelle
nera ed era giunto lassù dalla Nubia che non conosce inverni. Galvano di
Orkney, Owain,Llwellyn, Agravain, Kay, il fratellastro di Artù. Aveva
visto alcuni di loro cadere, e un’ombra nera, minacciosa, torreggiare
sul suo Re. L’ombra della morte. L’ombra del tradimento. Colpito alle
spalle da un cavaliere che non era un barbaro Sassone, Artù era caduto.
Pochi istanti soltanto, e nel sogno Maximus aveva visto balenare
attraverso le fessure dell’elmo lo sguardo verde, trasparente e freddo
del duca di Powys, il Cavaliere Nero. Di Mordred. Di suo figlio.
“Il re è morto.Lunga vita al nuovo re!”
L’urlo della folla acclamante gli giunse ovattato all’orecchio.
Salutavano Artù, il saggio sovrano che aveva sacrificato la vita al suo
regno. Festeggiavano la sconfitta delle orde di Aelle ed Hengist.
Festeggiavano il nuovo re, il parente più prossimo del monarca defunto,
che non aveva avuto altri figli ad eccezione di un bastardo nato da una
serva e morto in tenera età. E la corona si sarebbe posata sulla bella
testa bionda del duca di Powys, suo nipote, il figlio di Morgana e dell’amante
che, per una notte, aveva diviso con lei il letto. Il figlio di Maximus, l’Immortale.
L’ombra che, nel sogno, lui aveva visto incombere minacciosa su Artù.
Mordred, che aveva il viso d’angelo e il cuore non meno nero delle sue
vesti.
I sogni son solo sogni, si disse Maximus chiudendo gli
occhi. Si sentiva terribilmente debole e sapeva che solo dormendo avrebbe
potuto ritrovare le sue forze.
Passi pesanti di stivali ferrati lungo il corridoio lo
svegliarono di soprassalto. Owen, il suo scudiero. Quando la luce della
torcia che teneva in mano lo investì, Maximus notò una ferita sulla
fronte, lo sguardo triste, i capelli imbrattati di sangue e di fango.
-La febbre è scesa, mio signore?
Owen si preoccupava della sua febbre invece che della
paura, del dolore, della rabbia che doveva aver provato nel corso di
quella che era stata la sua prima battaglia. Nessuno di quelli che
sapevano l’aveva messo al corrente del segreto che rendeva invulnerabile
il suo signore. Del resto, proveniva da un lontano regno del Nord e stava
con lui da pochi mesi soltanto.
-Ser Sagramor e ser Agravain sono morti. Ser Galvano è
ferito gravemente, è difficile che si salvi. E il nostro Re…
-Lo so.
-Sono io che l’ho trascinato lontano dal campo di
battaglia. E sono io che l’ho visto cadere. Non è stato un Sassone a
colpirlo, mio signore. E’ stato uno dei nostri.E’ stato…
Taci, so anche questo. La febbre mi ha mandato un sogno
nel corso del quale ho visto tutto. Adesso è lui il re, Artù non ha
lasciato eredi diretti e Mordred è figlio di sua sorella Morgana. Suo…e
mio, Owen. Ed è…immortale.
-Artù ti manda questa, mio signore. Ha detto che sei l’unico
degno di portarla:sono state le sue ultime parole.
Le dita di Maximus corsero lungo la lama ossidata,
tastarono le scritte consunte e illeggibili della spada che Artù, ancora
quasi bambino, aveva estratto da un incudine piantato nella roccia. Il
segno del potere. Caledfwylch. Excalibur. Con delicatezza, la posò
accanto a sé, sul suo giaciglio. E si addormentò di nuovo.
NIMUE
Non fu l’eco dei passi lungo il corridoio a
svegliarlo. Fu la mano gentile di una donna, che gli scostava i capelli
dalla fronte sudata. La luce del mattino che attraverso la finestra
inondava la stanza, le illuminò la testa bionda, danzò per qualche
istante sull’azzurro pallido delle sue pupille.
-Mi auguro che il sonno vi abbia fatto recuperare tutte
le forze, messere.
Lo guardava con i suoi occhi senza espressione, Nimue,
colei che aveva introdotto a Corte il traditore. Di lei, si diceva che
sapesse la magia per averla appresa dallo stesso Merlino. Ma sicuramente
non ne faceva l’uso che ne aveva fatto lui, e forse c’entrava
qualcosa, con quella strana ferita che non voleva saperne di guarire.
-Conosco i segreti delle erbe e dei veleni per averli
appresi dal grande Taliesin, colui che la gente chiamava Melino.
-E io conosco bene il MIO segreto, donna. Un sicario
dell’imperatore Publio Elvio Pertinace mi ha piantato la sua daga nel
ventre e la ferita non ha impiegato più di un’ora a guarire del tutto.
Mi sono strappato dal cuore una freccia nell’anfiteatro di Emerita
Augusta e…
-Siete immortale, messere.
-Questa ferita non può uccidermi. Ma non guarisce.
Nimue prese un piccolo pugnale che portava alla cintura
e, con delicatezza, tagliò il bendaggio dal torso di Maximus.
-Si sta chiudendo. Certo, avete avuto proprio un bel
coraggio a fare quel che avete fatto. A un altro sarebbe sicuramente
costato caro. Estrarre una freccia che si pianta in profondità nella
schiena facendola uscire attraverso il petto…
-Sapete anche voi che comunque non rischiavo di morire.
-Ma dovete aver sofferto. Il dono dell’immortalità
non cancella il dolore.
Del largo squarcio, non restava più che un piccolo
segno arrossato, appena sotto il capezzolo sinistro. Una piccola ferita,
da cui stillava ancora qualche goccia di sangue scuro e di materia
infetta.
-Lasciate che vi medichi. Impiegherete meno tempo a
guarire del tutto.
Non le disse quel che avrebbe voluto dirle, vattene,
lasciami in pace, strega, non ho bisogno di te per tornare ad essere
quello che ero e sarò fino alla fine dei tempi. Ma le dita di Nimue erano
abili e da quella piccola lesione ancora profonda smise presto di
fuoriuscire sangue infetto. Adesso la febbre e il dolore se ne andranno,
gli diceva, parlandogli come avrebbe fatto con un bambino malato. Certo,
Taliesin era stato per lei un grande maestro di sapienza e di magia. Non
era geloso dei suoi segreti, il Mago. Non aveva mai preteso di tenerli per
sé. Nimue sorrise, e quel suo sorriso era freddo come uno strato di brina
steso sopra un vetro.
-Il re è morto.
-Sul trono siede un nuovo sovrano, che farà grande
Camelot e tutta la Britannia.
-Il re è caduto vittima di un tradimento.
Il dito sottile di Nimue gli si era posato sulle
labbra, leggero e carezzevole come ali di farfalla.
-Shhh… Comunque sia andata, Artù è morto da eroe,
messere. Ha salvato la Britannia e ha salvato la sua faccia. Cosa che non
sarebbe stata possibile,se fosse sopravissuto. Nessuno fingeva di non
vedere che il re, ormai, era ridotto all’ombra di se stesso, che beveva
fino ad ubriacarsi per non sentire più niente e ottundere i suoi pensieri
cupi nell’abbrutimento. I suoi cortigiani dicevano che le mani gli
tremavano. E che, a volte, farneticava. Mordred non gli ha dato la morte
per odio o per sete di potere, ma solo per pietà. E non lo farà
rimpiangere, quando siederà sul trono.
Mordred. La dama sorrise, pronunciando quel nome. Sei
bello proprio come lui, gli disse, mentre il dito che gli aveva posato
sulle labbra era sceso a sfiorare i contorni delicati e forti della
mandibola, la vena che gli pulsava sul collo. E come lui, sei immortale.
Apparteniamo a una razza privilegiata, noi. Noi? Intendi dire che anche tu…Le
dita di Nimue avevano preso a giocherellare con la peluria leggera che
Maximus aveva sul petto. Gli si era seduta vicino, sul grande letto
sfatto, coperto di pelli d’orso e d lupo, e continuava a provocarlo, con
le sue carezze. Puoi avermi, se mi vuoi, aveva sussurrato con voce rauca,
sfiorandogli un capezzolo, e poi chinandosi per baciaglielo. Certo. E, com’è
successo a te, anche nel mio caso si è trattato d’un dono d’amore.
Maximus aveva trattenuto il respiro, quando la mano di
Nimue si era insinuata sotto le coperte. Quella creatura che gli sorrideva
invitante e dava piacere al suo corpo era malvagia. Malvagia e immortale.
Era un pericolo contro il quale non esistevano difese e dal quale non gli
era stato insegnato a guardarsi.
Nimue continuò a guardarlo e a sorridergli, mentre si
apriva la veste. L’immortalità è un dono di Taliesin, gli disse. Era
pazzo di me, e per me avrebbe fatto qualunque cosa, anche…Anche perdere
se stesso.
E a te è bastato mostrargli questi per averlo ai tuoi
piedi come un cane, le aveva sibilato lui toccandole ruvidamente e senza
tenerezza i seni nudi. Piacciono anche a te, come sono piaciuti a lui, mio
bel guerriero immortale venuto dal passato…Lascia che mi sdrai accanto a
te, e che il mio corpo ti dia piacere. Io ti desidero, Maximus, e tu
desideri me.
-Che fine ha fatto Taliesin?
Maximus era scattato in piedi, incurante della sua
nudità, e aveva stretto nelle sue grandi mani i polsi sottili di Nimue.
Adesso parlerai. Adesso mi dirai tutto…
-Taliesin era come Artù:non meritava di vivere.
-Lui è ciò che siamo noi, e non può morire.
-La nostra razza è fatta per dominare il mondo, ma lui
aveva troppi scrupoli. E dire che era stato generato per quello…Per
dominare il mondo.Lo sapevi che Merlino è figlio del demonio? Non te l’ha
mai detto, in tutto il tempo che ha passato con te?
-Mi ha detto solo che nessuno può decidere per gli
altri, e che siamo noi stessi gli arbitri del nostro destino, qualunque
sia il sangue che ci scorre in corpo. Lui aveva scelto di non fare del
male agli altri, anzi, di mettere i suoi poteri al servizio del bene.
Nimue rise. Merlino dorme in una grotta nascosta nel
cuore profondo e inaccessibile di una grande foresta.Lo avrei ucciso, se
avessi potuto. Mi sono dovuta accontentare di addormentarlo. Ed è stato
proprio quel vecchio idiota a rivelarmi le parole magiche per poterlo fare
mentre io, lentamente, senza cessare di guardarlo negli occhi e di
sorridergli, mi toglievo i vestiti davanti a lui…Temo che, nel profondo
dell’inferno, il demonio si sia vergognato di quell’idiota di suo
figlio.
Taliesin, che avrebbe potuto scegliere di fermare alla
giovinezza l’avanzare degli anni nella sua esistenza senza fine, aveva
scelto di essere vecchio per sempre. Nell’età in cui la vita ripiega su
se stessa e le passioni s’acquietano, niente l’avrebbe distratto dalla
ricerca della verità e del bene. Invece erano bastati il sorriso freddo
di Nimue, il suo piccolo corpo provocante e le sue astuzie a perderlo per
sempre.
Il mondo sarebbe stato suo, pensò Maximus guardandola.
Suo, e di Mordred. Morgana era stata una pedina del suo gioco, proprio
come lui. Certamente, a quella donna dal viso devastato e dalla bellezza
distrutta non interessava stringere in pugno i destini del mondo, ma quel
figlio generato con un altro immortale avrebbe annientato l’oggetto del
suo odio, Artù: l’ultimo anello che mancava a chiudere la catena della
vendetta, dopo Uther ed Ygraine. Nimue, che aveva riportato indietro
Morgana dal Regno delle Ombre, l’aveva fatto per poter strumentalizzare
a suo vantaggio i rancori che non si erano mai spenti, dentro il cuore
solitario della duchessa di Powys.
-Allora, mio bel cavaliere?
Gli occhi trasparenti di Nimue scintillavano maliziosi
sotto l’arco delicato delle sopracciglia. Quel che hai fatto di me è
abbastanza, maledetta strega. Non mi lascerò incantare dai tuoi inganni,
né avvincere dalle catene del sonno eterno, come Taliesin. E adesso
vattene, sparisci dalla mia vista.
Nimue si coprì i seni e si sistemò le vesti senza
cessare un istante di guardarlo. Non potrò usare con te l’incantesimo
che ha annientato Merlino, ma non me ne importa niente. Mordred è re, io
sarò la sua regina. E Dumnonia sarà presto troppo stretta per noi due.
Non ci basterà il mondo, quando potremo mettere le mani su quello che
Galahad di Benoic ha portato dall’isola di Avalon. Perché allora saremo
davvero simili agli dei.
Le dita di Maximus sentirono l’acciaio di Caledfwylch,
duro e freddo contro le calde pellicce che coprivano il suo letto. Ma
sapeva che sarebbe stato inutile alzare contro quel mostro immortale la
spada di Artù. Chiuse gli occhi, ritornò indietro con la memoria. Aveva
quasi quattordici anni e di lì a pochi mesi si sarebbe arruolato nelle
Legioni, quando aveva incontrato per la prima volta Eliazar, al mercato di
Emerita Augusta. Era un vecchio ebreo che vendeva cianfrusaglie e
conosceva bellissime storie. I progenitori del genere umano si chiamavano
Adamo ed Eva, gli aveva raccontato. Vivevano in un giardino incantato,
dove non esistevano pena, vecchiezza e morte. Erano liberi di fare ciò
che volevano, ma Colui che E’ aveva proibito loro di cibarsi del frutto
dell’albero che cresceva nel mezzo del giardino. Il demonio, in forma di
nera serpe velenosa, li aveva tentati. Mangiate il frutto, aveva detto
loro, e sarete simili a Dio. Loro si lasciarono tentare, e non ottennero
quel che desideravano, bensì pena, vecchiezza e morte, in un esilio
chiamato Terra.
EPILOGO
Maximus, prima di saltare in sella al cavallo, si cinse
al fianco la spada Excalibur e guardò la ciotola che di lì a poco
sarebbe sparita in fondo alla bisaccia. I secoli avevano consunto il
vecchio legno di mirto nel quale era stata intagliata dalla mano di un
artigiano non particolarmente abile: un oggetto modesto, rozzo, di quelli
che trovano posto nelle case e sulle mense della povera gente. In quanti
erano morti, in quanti erano impazziti per avere quella ciotola il cui
unico pregio era il profumo sottile e un po’ amaro di legno aromatico
che avrebbe regalato al vino in essa versato?
I Cristiani di Dumnonia e di tutta la Britannia
dicevano che avesse contenuto vino e sangue. Il vino che Gesù aveva
consacrato, il sangue sgorgato dal Suo corpo, quando l’avevano
inchiodato alla croce. Dicevano che fosse giunta nella loro terra portata
dall’apostolo Giuseppe d’Arimatea e che alcuni monaci la custodissero
in un recesso segreto dell’isola di Avalon. La più santa di tutte le
reliquie avrebbe consentito a chi ne fosse entrato in possesso di operare
prodigi, ma solo un uomo dal cuore puro avrebbe potuto trarla fuori dal
suo nascondiglio per mostrarla al mondo.
Nimue e Mordred avevano bevuto acqua di fonte dal Santo
Graal. Fallo, e sarai simile agli dei, aveva detto la donna al giovane,
come la madre di tutti i viventi ad Adamo, il primo uomo, mentre gli
porgeva il frutto da mordere. Una voragine si era spalancata ai loro
piedi, e il Nulla li aveva inghiottiti.
Una bruma verdastra e gli schiamazzi delle anatre in
migrazione si levavano dalla palude di Glaston. Alcuni pescatori avevano
indicato a Maximus la strada segreta, nascosta sotto l’acqua melmosa,
che avrebbe permesso al suo cavallo di giungere ad Avalon senza rischiare
d’essere inghiottito dalle sabbie mobili. Avevano tremato, guardandolo
sfilare la lunga spada dal fodero. Doveva essere un brigante, uno dei
tanti che infestavano la Britannia e che si sarebbe accontentato anche
delle loro povere cose, le vecchie reti, le nasse, quattro carpe dalle
carni insipide e che sapevano di fango ma che, anche quella sera,
avrebbero dato requie ai morsi del loro stomaco. Invece il grande
cavaliere solitario aveva pronunciato poche, enigmatiche parole, sono
venuto a restituire, non a prendere, prima di gettare nell’acqua la sua
spada e di guidare il cavallo lungo il cammino segreto che lo avrebbe
condotto all’Isola Sacra. Non sapevano che la sua missione era quella di
restituire Excalibur al suo re. E di riportare in quel luogo nascosto agli
occhi avidi di un mondo che non sarebbe più stato quello che era, il
Santo Graal.
FINE
I nomi delle località e dei personaggi sono tratti da
“Excalibur” l’opera di Bernard Cornwell dedicata alle imprese di
Artù e dei suoi cavalieri.
Lalla,
4 settembre 2002
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