IL GATTO
Campagne di Caen,Normandia, gennaio
1787
Un urlo ferino, lacerante, che non
si capiva fosse d’uomo, d’animale o di demonio ruppe la solitudine e
il silenzio del bocage, dai pascoli deserti fino alla brughiera e
più in là fino al bosco di castagni dove, a quell’ora, nessuno avrebbe
osato mettere piede. C’erano gli spiriti, si diceva, ed era possibile,
nella nebbia, intuire le loro forme evanescenti, sentire la carezza delle
loro dita gelide e bagnate. Eppoi, ammesso e non concesso che da quelle
parti vivesse qualcuno che negli spiriti non ci credeva, c’erano i lupi.
Grossi, feroci. Con lunghe zanne prominenti e occhi di fuoco. L’inverno
e la fame li rendevano molto cattivi, e qualcuno che non era una vacca o
una pecora aveva finito col farne le spese. Più di una volta. Ragazzi, o
donne che si recavano nel bosco per raccattare qualcosa di commestibile e
fascine per il focolare. Non erano bei tempi, quelli, per chi aveva poco e
stentava a campare, erano in molti a dire che le cose dovevano cambiare,
per amore o per forza.
Anche se non sarebbero cambiate,
perché così è, da che il mondo è mondo, c’è chi è nato per
comandare e chi per tirare la carretta, ed era solo una questione di
natali. Luigi XVI era come se ci fosse nato per sbaglio, a corte. Era come
le sue natiche grasse si fossero posate per sbaglio sul trono di Francia.
Fosse dipeso da lui, forse avrebbe scelto di nascere in una solida
famiglia borghese e di mantenere con il suo lavoro una moglie senza grilli
per la testa e dei figli destinati ad ereditare una bottega o un opificio,
non certo un regno. Ma non si può essere essi stessi gli artefici del
proprio destino.
La cosa urlò di nuovo, e il suo
strido acuto di dolore, di rabbia e di paura lacerò la caligine che
avvolgeva la brughiera. Maxim strattonò le redini, faticando a mantenere
il controllo del proprio cavallo e rischiando d’essere sbalzato di
sella. Era un cavaliere molto esperto, non gli era mai capitato niente del
genere. La bestia, una bella giumenta baia, doveva essere stata
innervosita da quelle grida. Lui, che da anni allevava cavalli, sapeva
quanto quelle bestie fossero sensibili e ombrose. Meglio smontare di
sella, si disse, accarezzarle il muso di velluto e cercare di calmarla.
Meglio procedere a piedi e cercare la strada di casa. Il freddo umido gli
penetrava nelle ossa e non vedeva l’ora di cambiarsi e di piazzarsi
davanti al camino, con le Satire di Giovenale sulle ginocchia e un
bel bicchiere di vino caldo in mano.
L’aria era impregnata dell’odore
metallico che precede i temporali, e una saetta squarciò il grigio del
cielo, seguita dal brontolio cupo del tuono. E dal grido di spavento,
rabbia e dolore di quella creatura misteriosa.
La giumenta scalpitò e nitrì. Con
la mano guantata di camoscio nero, Maxim le accarezzò lentamente il muso.
Non è niente, Messaline. Pochi minuti, e saremo a casa. Non è niente. O
chissà, forse invece è qualcosa di talmente orribile da gelare fin
dentro le budella perfino un uomo coraggioso. Una strega. O uno spirito. O
magari un lupo mannaro. Da quelle parti le gente era terribilmente
superstiziosa, si disse da sé solo scotendo la testa, prima di infilare
il piede nella staffa e montare nuovamente in sella. Doveva sbrigarsi,
cercare d’essere a casa prima che il temporale lo sorprendesse in quella
landa desolata, priva di qualsiasi riparo.
Non era uno spirito né una strega o
un lupo mannaro, colui che aveva gridato al cielo di piombo la sua rabbia,
la sua paura e il suo dolore. Maxim vide dinanzi alle zampe della sua
cavalla un uomo intento a prendere a calci e a bastonate un sacco che si
dimenava ai suoi piedi. Era da lì che uscivano quei lamenti.Meno
misteriosi adesso: non c’era niente di soprannaturale, in quel che i
suoi occhi vedevano, un contadino intabarrato dentro una vecchia giacca
con le pezze ai gomiti che cercava, secondo la sbrigativa e crudele usanza
locale, di liberarsi d’un povero cucciolo il cui unico torto era quello
di stare al mondo.
-Che succede?-aveva domandato, e l’uomo
gli aveva risposto finalmente li ho presi, i maledetti gatti della Fouine**,
quella strega. Lassù, la gente era convinta che il demonio stesso si
nascondesse nel corpo dei gatti neri che tenevano compagnia alle streghe.
E che bastasse un solo sguardo di quelle creature per seccare il grano,
ammazzare il bestiame e far abortire le donne incinte.
Il contadino alzò gli occhi dal
sacco che si dimenava ai suoi piedi e guardò stranito l’uomo che era
smontato di sella e s’avvicinava a lunghi passi decisi, con le mani sui
fianchi e la faccia dei giorni peggiori.
-Lascia stare quelle povere bestie,
dannato bastardo…
Non l’aveva mai visto prima, ma
non c’era da stupirsene, quello era un signore e i signori non se la
intendevano con i contadini: ben vestito, bello e giovane. Il vento gli
spettinava i lunghi capelli castani raccolti sulla nuca con un nastro di
velluto e la smorfia rabbiosa che gli alterava i lineamenti scopriva denti
bianchi e forti come quelli di un lupo.
-Vattene, prima che ti faccia
maledire il momento in cui quella puttana di tua madre ti ha messo al
mondo…
Certo, il suo linguaggio non era
quello di un gentiluomo. Era svelto di mano e forte come un bue,
contrariamente a quelli della sua razza, si era ritrovato a pensare l’uomo
asciugandosi col dorso della mano il naso sul quale si era appena
abbattuto il pugno pesante dello sconosciuto.
Andate a farvi fottere, tu e i
maledetti gatti della Fouine. Aveva borbottato il contadino,
abbastanza piano da non farsi sentire mentre se ne andava, la testa
incassata nelle spalle, il randello stretto in mano e il naso che
gocciolava ancora, senza voltarsi a guardarlo mentre si chinava ad aprire
il sacco entro il quale, si augurò, avrebbe trovato soltanto una
poltiglia di peli, sangue e piccole ossa fracassate. I maledetti gatti
della Fouine. Sputò una bestemmia tra i denti e si dileguò nella
nebbia.
Non si fermò a guardarlo
accosciarsi, aprire il sacco ed estrarne tre piccoli corpi inerti e
massacrati. Non c’erano nascondigli o ripari, in quella landa desolata,e
stava per scatenarsi un violento temporale. Maxim accarezzò le tre
morbide pelliccette impregnate di sangue come vecchie spugne, alla ricerca
di un segno di vita. I due piccoli erano morti, ma il cuore del grosso
maschio batteva ancora. Forse non era arrivato tardi, pensò aprendosi la
camicia e infilandoci dentro la povera bestia, perché trovasse conforto
al dolore contro il suo corpo caldo. Se quel maledetto contadino avesse
potuto vederlo, forse avrebbe pensato che lui era come certe vecchie
zitelle che amano più gli animali che non gli esseri umani. Forse avrebbe
pensato questo incosciente non ci crede, nei diavoli e nelle streghe.
Forse…
*”Con il cuore e con la bocca”.Era
il motto della famiglia Corday d’Armont.
**faina
LA FOUINE
-E’ tuo?
La donna arruffata e senza età
accennò di sì con la testa, mentre Maxim tirava fuori il grosso gatto
mezzo morto da sotto la camicia. Gli aveva imbrattato i vestiti di sangue
e graffiato il petto con gli artigli aguzzi, quando lui, per staccarselo
di dosso, doveva aver stretto il povero corpicino martoriato in qualche
punto particolarmente dolorante.
-Forse sono arrivato tardi.
La donna alzò le spalle ossute, gli
piantò senza parlare gli occhi scuri e acuti nei suoi. Non si capiva
quanti anni avesse, potevano essere trenta come sessanta. Quando allungò
le mani per afferrare il gatto e sfiorò le sue, Maxim gliele sentì
ruvide e calde. Mani forti da guaritrice. La Fouine sapeva
curare i mali con le erbe e aiutava le donne del villaggio a partorire.
Certo, non erano più i tempi in cui quelle come lei rischiavano di finire
bruciate sulla pubblica piazza, ma la nomea di strega non era comoda da
portarsi appresso nemmeno nell’età dei Lumi.
-Venite dentro.
La voce non era meno ruvida delle
mani e lui la seguì nell’abituro dove viveva, un tugurio che puzzava di
fumo e piscio di gatto, ma era illuminato a sufficienza dalla luce di una
grossa lanterna da carrozze.
-Sedetevi.
Aveva occhi belli, grandi e vivi, il
naso aquilino e un dente davanti spezzato. Indossava vecchi abiti di panno
scuro, smessi da chissà chi, e la gonna troppo corta le scopriva stinchi
ossuti nelle calze slabbrate e grandi piedi infilati dentro zoccoli di
legno.
-E’ conciato male.
-Ma vivrà…I gatti hanno sette
vite. Vivrà grazie a voi…Signore.
-Maxim Merides. Allevo e vendo
cavalli, dalle parti di Caen.
Come se a quella donna potesse
importarne qualcosa, di chi era e cosa faceva. Aveva salvato da morte
certa il suo grosso gatto nero. Il suo spirito protettore.Contava quello,
per lei, e nient’altro.
Il nome che le avevano dato lo aveva
scordato o rimosso. Tutti quanti la chiamavano La Fouine. Da
sempre. La Faina. Perché era magra, famelica, insinuante e cattiva,
dicevano così. Perché sapeva la magia e di certo era in combutta con
qualche diavolo. Non aveva mai conosciuto i suoi genitori, ed era stata
una vecchia che era vissuta lì prima di lei, ad allevarla e a iniziarla
ai suoi segreti. La Fouine sapeva curare grandi e piccoli
malanni con le erbe, aiutava le donne del villaggio a partorire. Sapeva
far innamorare e mandare il malocchio. Poteva far seccare il grano e
asciugare le mammelle delle vacche con un solo sguardo. Forse la odiavano,
ma era certo che la temevano, e non osavano farle niente. Almeno
fintantoché quel contadino, lei credeva di sapere chi fosse, non aveva
ammazzato due dei suoi gatti e ridotto a malpartito il terzo. Menomale di
quel signore che le stava davanti, non fosse stato per lui neppure Gigot
ce l’avrebbe fatta. Maxim Merides. Allevava e vendeva cavalli dalle
parti di Caen, non molto lontano da lì. Non l’aveva mai visto, infatti
non capitava spesso che la strada di una sudicia strega e quella di un
giovane signore si incrociassero, com’era successo a loro.
Gli occhi di brace della Fouine lo
percorsero scrutandolo con attenzione dalla punta degli stivali incrostati
di fango agli splendidi capelli castani lunghi e ondulati, che portava
raccolti in una morbida coda e gli accarezzavano il collo. Nel corso della
sua vita, che era meno lunga quanto potesse sembrare ma non poi così
breve, aveva conosciuto molti uomini: a qualcuno s’era data per
soddisfare i suoi sensi, a molti per placare la sua fame. Certi erano
stati soltanto incontri fugaci, negli occhi di altri aveva percepito odio
e paura. Altri ancora le avevano chiesto aiuto:perché il bestiame si era
ammalato, perché un nascituro stentava a venir fuori dalle viscere della
madre mettendo la sua vita in pericolo, perché soffrivano a causa di un
amore non corrisposto…Uno le aveva chiesto l’inosabile e lei l’aveva
scacciato via urlando dal suo tugurio: se sei strega, richiama indietro
dal mondo dei morti mia moglie, che la febbre si è portata via. Aveva
solo trent’anni, e lascia cinque bimbi piccoli…Eh, già, ne aveva
conosciuti tanti. Ma nessuno era come Maxim Merides, che allevava e
vendeva cavalli dalle parti di Caen.
-Non siete come gli altri. Loro
vengono a chiedere, non a dare. Voi siete diverso, signore.
Era alto e forte come lo sono i
soldati , e aveva un bel viso dall’espressione franca e dai lineamenti
regolari. Per la prima volta nel corso della sua vita, di fronte a quegli
occhi chiari, acuti e luminosi che la fissavano, La Fouine
fu costretta ad abbassare i suoi.
I lacci allentati della camicia gli
scoprivano il petto graffiato dagli artigli del suo povero Gigot.
La donna rabbrividì, al pensiero di quella pelle dorata, di quelle stille
di sangue che si rapprendevano tra la peluria sottile, appena un po’
più chiara dei capelli. Quell’uomo era bellissimo, pensò prima di
dirgli ridacchiando vostra moglie potrebbe pensare che avete un’amante
molto focosa e prendersela a male. Le era sembrato che l’espressione del
suo viso si rabbuiasse, a quella parole dette così, tanto per dire. Sua
moglie era una donna davvero fortunata, si disse la strega da sé sola
dopo aver versato dell’infuso di arnica sopra una piccola pezza pulita
ed essergli andata di nuovo vicino. La sua pelle era calda, e aveva un
buon odore naturale, pulito e invitante. Vi riempirei di baci, vi
asciugherei quelle gocce di sangue con la lingua e vi farei impazzire dal
piacere, se non fossi quella che sono e voi quello che siete…Gli
slacciò la camicia, fece per tamponargli i graffi del gatto. Così non s’infetteranno.
IL SEGNO
I graffi che s’infettano possono
diventare pericolosi e mandare un cristiano all’altro mondo. Ho visto
uomini morire per roba del genere, e non è una bella morte. Tremi tutto
quanto e le mascelle si serrano con tanta forza che nemmeno cacciandoti un
bastone tra i denti riuscirebbero ad aprirti la bocca. Ti contorci come un
cane arrabbiato e, alla fine, una convulsione più forte delle altre ti
spezza il filo della schiena mandandoti dritto all’altro mondo. E non c’è
scienza o magia o miracolo che possa far niente per metterci rimedio.
-Toglietevi la camicia, così non ve
la macchierò con questa roba. Tanto il fuoco è acceso e non c’è
freddo, qui dentro.
La Fouine
aveva chiuso la porta con il paletto e gettato fascine sul fuoco. Non
c’era freddo, ci faceva parecchio caldo, anzi, lì dentro, pensava Maxim
mentre si sfilava prima la giacca di panno, poi la camicia di lino e
posava i due indumenti sulla spalliera di una vecchia sedia mezza
sfondata. La donna si morse le labbra, prima di prepararsi a detergergli
le ferite. Per la bellezza del suo corpo abbronzato e muscoloso, forse…Sono
una donna, si disse da sé sola. Sono una donna, anche se i più mi
prendono per un fagotto di stracci, per un guscio che è stato svuotato
dal bene e riempito di male, d’inferno e di magia, anche se non credono
che possa ancora provare del desiderio. Tutti, anche lui, forse. Quanti
anni poteva avere?Non più di trenta, trentacinque. Alcune brutte
cicatrici deturpavano la perfezione della sua pelle:quattro solchi
paralleli tra il collo e la spalla, una mezzaluna biancastra sul braccio,
un marchio a fuoco sulla schiena, come quelli con cui la giustizia soleva
segnare per sempre coloro che la fame spingeva a rubare il pane.
Era molto più alto di lei e aveva
qualcosa d’infantile, innocente nell’espressione del viso. Ma lo
sguardo era quello duro di chi ha visto troppo. Mi piacerebbe riuscire a
leggere nei vostri pensieri per capire il perché della vostra tristezza.
E per sapere chi siete. Qualche volta le era riuscito, ma non succedeva
sempre, né con chiunque. La testa le doleva da spaccarsi, in quei
momenti, e i segreti di chi le stava davanti venivano a galla come i
cadaveri degli annegati. Eppure le era impossibile leggere qualcosa negli
occhi azzurri di Maxim Merides.
Niente traspariva della sua vita e
dei sui segreti, in quello sguardo azzurro sornione e sonnolento che
dardeggiava tra le palpebre pesanti, tra le lunghe ciglia dorate. Ma la
pelle del suo petto era intatta, adesso. I graffi aperti dagli artigli del
povero gatto massacrato a calci e bastonate da quel contadino imbestialito
erano profondi, eppure non avevano impiegato che pochi minuti a chiudersi
del tutto, senza lasciare alcuna traccia.
La Fouine
lasciò correre le dita ruvide e callose lungo il contorno marcato del suo
viso, sulle guance ombreggiate da una barba di due giorni, sulla vena che
gli pulsava nel collo, sulle cicatrici che gli segnavano la pelle come
altrettanti marchi d’infamia. Aveva con sé un amuleto, una zanna di
lupo ingiallita dal tempo, che gli dondolava sul petto appesa a un
lacciolo di cuoio. Come se potesse aver bisogno di un portafortuna, uno
come lui. Uno che aveva cavalcato i secoli, uno che la morte poteva
sfiorare soltanto ma non ghermire. Ma come la morte, forse anche la
fortuna poteva sfiorarlo soltanto.
-Graffi come i vostri impiegano
qualche giorno a guarire. E voi non avete più niente.
Lo guardò infilarsi la camicia e la
giacca; la testa le doleva, come quando si sforzava di leggere nei
pensieri della gente e ciò che poteva scorgere erano ombre dalla forma
incerta le quali faticavano ad emergere da una nebbia densa e scura, che
confondeva tutto.
Si sentì stringere dalle sue
braccia, percepì il tepore della sua bella bocca sopra la fronte, nel
punto in cui pareva concentrarsi tutto il dolore che stava provando. Non
gli ripugnavano il suo aspetto e la sua nomea. Gliene fu grata.Non temeva
la sua povera magia, colui che non aveva ragione di temere la morte, dopo
averla affrontata in un duello all’ultimo sangue, chissà quanto tempo
prima. Ma La Fouine si divincolò dal suo abbraccio, gli
chiese con un filo di voce di lasciarla andare.
-Hai paura di me?
-Non ho paura di niente. Nemmeno di
voi anche…anche se ho capito che cosa siete…L’ho capito da subito.
Da quanto tempo…
Da quanto tempo i vostri piedi
calcano la polvere del mondo, la terra sotto la quale i vivi hanno
seppellito i morti? Quanti anni sono passati dal momento in cui qualcuno
ha riportato la vostra anima indietro dall’aldilà per amore, per odio,
per tornaconto, per chissà quale altra misteriosa ragione?
-Mille e seicento anni. Più o meno.
Vedo riemergere la vostra prima
vita, signore. Quella in cui eravate un uomo importante, un capo di
soldati armati, prima di diventare schiavo, prima di essere costretto a
battervi alla morte con altri schiavi perché un nemico troppo più
potente di voi aveva stabilito che la vostra vita non valeva niente. Un
nemico che avete sfidato e ucciso, prima che la sabbia bevesse il vostro
sangue.
-Quello che vi devo è molto,
signore, e non solo per quella povera bestia. Potrebbe capitarvi di aver
bisogno di me e allora…Allora pensatemi. Pensatemi fino a sentire male.
E io…E io sarò da voi.
Chissà se aveva sentito le sue
ultime parole, pronunciate mentre lui infilava il piede nella staffa,
balzava in sella e si dileguava nella nebbia fredda, umida e greve della
sera. Forse avrebbe avuto bisogno della sua magia, un giorno, Massimo
Decimo Meridio, contadino, soldato, schiavo, gladiatore e regicida che l’amore
di una donna aveva riportato indietro dal mondo dei morti, oltre mille e
seicento anni prima. Per sempre.
LA FIGLIA DIMENTICATA
Caen, convento dell’Abbaye Aux Dames,Luglio 1789
Charlotte alzò gli occhi dal libro
che stava leggendo, lo chiuse e lo posò sulla sedia dalla quale si era
alzata per andare ad aprire la finestra.Le monache non avrebbero trovato
niente di riprovevole nel suo gesto: faceva caldo e la brezza che soffiava
dal giardino avrebbe mitigato la calura opprimente della sua stanza. Il
convento era la sua casa da quando, a quattordici anni, con la morte di
sua madre, aveva dovuto dire addio alla stagione della spensieratezza. Il
padre aveva sistemato i figli maschi in una scuola militare, le ragazze in
quel convento, dove avrebbero appreso quel che una buona moglie deve
sapere per essere la gioia del suo sposo e la benedizione della casa in
cui andrà a vivere. Di lì sarebbe uscita quando il Signor de Corday d’Armont
si fosse trovato per le mani il partito adatto al loro illustre blasone e,
perché no, alle loro traballanti finanze, e poco importava che fosse o
meno di suo gradimento.
Sposa. O monaca, in alternativa.
I tempi sono cambiati, cambierà
anche il nostro destino di donne, si era detta tante volte: aveva già
ventuno anni e suo padre non si decideva a trovarle marito e a tirarla
fuori di lì dentro. Ma non la sollecitava, nelle sue poche, frettolose
visite, neppure a prendere il velo. Forse aveva intuito come i tempi
potessero essere cambiati, o semplicemente era oppresso da pensieri troppo
cupi che gli impedivano di occuparsi dei suoi figli come sarebbe stato il
suo dovere di padre. Figlie dimenticate, si definivano le sue sorelle,
delle quali lei raccoglieva le confidenze e le lacrime. Che ne sarà di
noi, le avevano chiesto tante volte. Erano deboli, come la maggior parte
delle donne. Troppo per prendere in mano i loro destini senza lasciarsi
guidare da qualcuno. Forse i tempi erano cambiati, ma acqua sotto i ponti
doveva passarne parecchia, prima che le donne potessero impadronirsi
definitivamente delle loro vite.
Figlia dimenticata. Figlia senza
affetto, senza una guida, senza una presenza costante nella sua vita.
Presto, le monache le avrebbero domandato se intendeva prendere i voti e
restare lì per sempre. Avrebbe risposto di no, non aveva la vocazione e
la sua stessa devozione era superficiale, credeva più nell’Uomo che in
Dio, lei; ma non si poteva parlare così alla superiora e avrebbe dovuto
inventarne un’altra, per giustificare quelle idee riprovevoli che le
erano nate dentro la testa. Sarebbe tornata a stare con suo padre, avrebbe
consumato la sua giovinezza accanto a quell’uomo grigio, cupo, piegato
dalle disgrazie. Finchè , dall’oggi al domani, non si sarebbe ritrovata
vecchia. Senza accorgersene.
Il mondo sta cambiando, ed io voglio
essere parte di quel mondo. Al ricamo, aveva deciso di preferire la
lettura. Romanzieri. Filosofi. Enciclopedisti. Il mondo sarebbe cambiato,
e lei voleva esserci, voleva partecipare, voleva veder trionfare la
giustizia, cambiare quel mondo iniquo nel quale era nata e cresciuta e
che, le era stato insegnato, era l’unico possibile. Un mondo di
oppressori e di oppressi. Un mondo nel quale un uomo stringeva in pugno i
destini degli altri per diritto di nascita. Un mondo sul quale già da
tempo soffiava una brezza che era diventata vento, il 14 Luglio, intorno
alla vecchia prigione di Parigi. Vento di tempesta.
IL PREZZO DELLA LIBERTA’
Caen, 12 Agosto 1789
Suo padre non si decideva a cercarle
un marito, pensava Charlotte, ma non gliene importava. Era la sete di
giustizia che infiammava gli animi, il solo amore della sua vita, e non
lasciava posto ad altri. A Parigi la Bastiglia era caduta e con le porte
della vecchia fortezza anche le catene della schiavitù sarebbero cadute.
Libertà…Uguaglianza…Fraternità…Non più sogni, non più parole
proibite da sussurrare piano per non essere sentiti.
Il vento caldo che soffiava dal mare
puzzava e gridava come la folla esaltata da parole che non aveva mai
sentito prima, dalla promessa di una vita nuova in cui non vi sarebbe
stato più posto per il dolore, il sopruso e l’ingiustizia. La nuova
libertà li eccitava,come cani tenuti a lungo legati alla catena che si
ritrovino sciolti all’improvviso e inaspettatamente. Le erano giunte all’orecchio
notizie di violenze, da una parte e dall’altra: c’era chi lottava alla
morte pur di non perdere i suoi privilegi e chi voleva bere il sangue di
coloro che l’avevano angariato, avvilito, sfruttato dacchè sul mondo
sorgeva il sole e cadeva la pioggia.
Hanno ucciso il visconte de Blensunce. Mormoravano piano le suore. Forse non sapevano come, o forse la
loro mente rifiutava di pensare che uomini e donne potessero arrivare a
tanto. L’avevano ammazzato, mutilato, gli avevano strappato il cuore che
un ragazzino si era divertito a prendere a calci e che una megera aveva
poi arrostito e mangiato. Il visconte era nipote della vecchia badessa del
convento.
Charlotte si morse le labbra a
sangue quando sentì i tonfi lugubri del tamburo farsi sempre più vicini,
le voci ubriache di vino e di sangue. Avevano issato in cima a una picca
la testa del visconte e infilzato su un forcone un gomitolo sanguinolento
delle sue viscere. Si dirigevano verso il convento dove era stata accolta
ed educata, dove aveva scoperto nei libri di aspirare ad un governo
repubblicano giusto e generoso. Sentì i colpi sulla porta, le grida di
odio, le minacce di morte. Cercò di non guardare gli orrori infilzati
sulla picca e sul forcone che venivano fatti passare dinanzi alle
finestre. Un gruppo di suore corse a rifugiarsi nella cappella e una
giovane novizia, incontrandola, le si parò davanti. Aveva gli occhi
rossi, i pugni stretti, il volto livido di rabbia e di repulsione. Eravate
voi quella che affermava che il popolo di Francia marciava verso la
libertà. Ed ecco che, invece, è diventato cannibale. Non è il popolo,
sorella. E’ la marmaglia.I colpevoli sono coloro che la istigano ad
uccidere.
MADAME DE BRETTEVILLE
Poiché aveva concluso il suo corso
di studi e la sua educazione ormai poteva ritenersi completata, Charlotte
Corday avrebbe potuto lasciare il convento e tornare presso la sua
famiglia. Le venne tuttavia offerto di rimanere, in qualità di maestra
delle educande, e lei rimase, godendo di maggiore libertà rispetto a
prima e ben lieta, soprattutto, di aver accesso alla ricca biblioteca del
monastero, che, contrariamente a quanto si potrebbe pensare, era ben
fornita anche di opere profane. Fu attraverso queste letture che la
giovane Charlotte formò e consolidò il suo credo repubblicano.
Il 13 Febbraio 1790, con il decreto
che imponeva la chiusura dei conventi, Charlotte dovette far ritorno alla
casa di suo padre, che lascerà pochi mesi dopo, per trasferirsi a Caen,
presso un’anziana cugina, Madame de Bretteville.
Sarebbe andata a tener compagnia
alla vecchia cugina che stava in città e consumava nella solitudine i
suoi giorni, aveva detto al padre prima di lasciare la casa dov’era nata
e aveva vissuto gli anni della sua spensieratezza, dove lo zio prete
Amédée le aveva insegnato a leggere e dove aveva scoperto le opere di
quel Pierre Corneille da cui la sua famiglia discendeva, il grande
drammaturgo che aveva posto a fulcro delle sue opere il conflitto tra il
dovere e i sentimenti. Ma i tempi non erano più quelli: il domani incerto
e la povertà avevano inasprito l’animo di suo padre, le sorelle se n’erano
andate, i fratelli avevano scelto la via dell’esilio. Al vecchio zio,
che aveva rifiutato di prestare il giuramento di fedeltà alla
Costituzione, era stato proibito di celebrare la Messa, e viveva
prigioniero in casa sua. In città sarebbe stato diverso. O forse no. Ma
almeno, sperava, non avrebbe visto intorno a sé solo facce tristi,
sguardi vacui, svuotati di speranza. Avrebbe continuato a leggere, a
documentarsi, a confidare che la furia delle plebi si sarebbe placata come
un temporale estivo e sulla follia sarebbe infine prevalsa la forza della
ragione.
Le capitava di parlarne, con la
vecchia cugina che non usciva più da casa e aveva consumato il suo
rosario d’argento, a forza di rigirarne i grani tra le dita. Le cose
cambieranno, è inevitabile. Il peggio passerà, come passa il temporale.
E la vecchia dama, scotendo la testa, diceva passerà, sì. E allora
soltanto potremo valutare i danni. Danni forse irreparabili, mia piccola.
Ferite le cui cicatrici non si cancelleranno mai. E quando sarà?Quando
voi sarete quella che sono io, una vecchia senza futuro?
Ma Charlotte sentiva dentro di sé
che non avrebbe mai perduto la speranza in un domani migliore e la fede
nell’innata bontà degli uomini. Nemmeno quando avrebbe avuto l’età
di Madame de Bretteville, le sue rughe, i suoi capelli grigi. Avrebbe
continuato a sperare in un domani migliore, a lottare, se non per lei, per
le generazioni future. Guardarsi indietro, ricordare con rammarico un
passato nel quale non c’era niente da rimpiangere? Mai, si disse da sé
sola chiudendo il libro che aveva appena iniziato a leggere. Mai.
LOUISON *
Non era passato molto tempo dacchè
i deputati dell’Assemblea avevano riso del dottor Guillotin e della sua
geniale invenzione, e sembrava fossero trascorsi secoli. Qui sotto ci
passerà di tutto, aveva latrato il tribuno Marat quando, il 25 Aprile
1791, sul far della notte, la ghigliottina montata nella Place de Grève,
aveva mietuto la sua prima vittima, un ladro. Ne salteranno, di teste!
Profittatori. Aristocratici. Mercanti. Preti. Deputati. Le esecuzioni
sarebbero diventate uno spettacolo tanto consueto quanto edificante, e
ogni città, ogni paese avrebbero avuto la loro ghigliottina, montata nel
bel mezzo della piazza principale, perché fosse fatta pubblica giustizia
dei nemici del Popolo e della Rivoluzione. Era stato perfino appioppato un
nomignolo gentile, all’infernale marchingegno:Louison.*
Le rivoluzioni devono
necessariamente essere nutrite di sangue. Dieci. Cento. Mille. Diecimila
teste. Il terrore avrebbe annientato i nemici, fatto trionfare il nuovo
che avanzava. Non la ragione, non il dialogo. Il sangue.
Duecentosettantatremila teste, aveva chiesto Marat. Per il bene della
Francia e del suo popolo. Duecentosettantatremila teste, o quello in cui
speriamo si scioglierà come neve al sole senza neppure poterlo veder
balenare sotto i nostri occhi un attimo soltanto. Le nostre speranze si
nutrono di sangue, non di parole. Morte. Massacri. Vendetta. Sarebbero
state le picche dei sanculotti, le urla delle megere appostate sotto i
patiboli a portare il cambiamento. Senza sangue, senza violenza, senza
paura questo non sarebbe stato possibile, checchè ne pensassero Danton e
tutti quelli che, come lui, sognavano di cambiare il mondo senza sporcarsi
le mani, riempiendosi la bocca di chiacchiere che il popolo non era
certamente disposto ad ascoltare..
Il 27 Gennaio 1793 cadde la testa
dell’ex sovrano. L’abulico, grasso, inetto Luigi XVI era stato capace
di morire con dignità. E non trascorse molto tempo, dacchè coloro che
avevano chiesto per lui la clemenza e l’esilio ne seguirono la sorte.
Due mesi dopo, anche Caen ebbe la
sua ghigliottina e, il 5 Aprile 1793, in Place Saint Sauveur, si
procedette alla prima esecuzione: quella di André Chabert, reo di
tradimento.
* Luisella.
CHABERT
Lascerò più serenamente questo
mondo, se saprò che ci sarete.
Non faceva freddo, quel giorno,
eppure Maxim aveva faticato a reprimere un brivido, guardando il suo amico
salire i gradini del patibolo trascinando la gamba storpiata dalla
paralisi infantile. Non so, si era detto, se ci credevate sul serio a quel
che avete scritto nella lettera che mi avete fatto recapitare due giorni
fa, quando avete saputo che per voi era finita. Non ve ne andrete
serenamente neppure se mi vedrete, amico, se saprete che io sarò lì,
sotto il patibolo, a raccogliere gli ultimi istanti della vostra
esistenza, a promettervi con il pensiero che mi occuperò di Marc…Povero
bambino. Non ha neppure dieci anni, e la vita non gli ha risparmiato
nessun dolore.
Maxim aveva cominciato a frequentare
André Chabert cinque anni prima. Cinquantenne, avvocato di grido, lo
aveva patrocinato brillantemente nel corso di un contenzioso riguardante
la proprietà di un terreno. Era un uomo introverso, malinconico, che
aveva perso da pochi mesi la moglie. Strano destino, il suo: si era
sposato con una ragazza di natali assai modesti quando ormai pensava che
sarebbe morto scapolo; era diventato padre all’età in cui di solito si
diventa nonni e la moglie, nonostante avesse vent’anni in meno di lui, l’aveva
preceduto nella tomba uccisa dal tifo. I soli affetti che gli restavano,
erano un’arcigna sorella nubile, che si era trasferita a casa sua per
badare al bambino e Marc, la luce dei suoi occhi, la sua sola ragione di
vita.
L’avvocato Chabert era un
affascinante conversatore dotato di vasta erudizione e profondo
conoscitore della storia antica: parlava il latino altrettanto bene del
francese e si era meravigliato sentendo fare altrettanto al bel giovanotto
dai modi spicci e dalla muscolatura gagliarda che aveva appena terminato
di patrocinare. Allevava cavalli e non aveva certo l’aspetto dell’intellettuale,
eppure poteva vantare una mente brillante e una cultura di tutto rispetto.
Gli piacevano i bambini e si era subito affezionato al piccolo Marc.
Meglio così, non era giusto che crescesse circondato unicamente da
vecchie persone tristi e che la malinconia gli mangiasse la vita a cinque
anni soltanto. Il nuovo, giovane “zio” giocava e rideva con lui. Gli
aveva regalato un minuscolo pony inglese e aveva promesso che, di lì a
qualche anno, gli avrebbe insegnato a montare un cavallo “vero”. Delle
volte capitava che si intristisse, quando lo guardava, come se Marc gli
ricordasse qualcuno che aveva amato e perduto. Ma si ricomponeva subito, e
scacciava come fosse stata una vergogna innominabile la malinconia dai
suoi occhi.
Era stato il primo a sapere che l’avvocato
Chabert aveva deciso di dedicarsi alla politica, candidandosi all’Assemblea
Legislativa.
Lo faccio perché credo nell’innata
bontà dell’Uomo. Aveva detto. Perché aspiro ad una società in cui
ogni atto sia illuminato dalla luce della Ragione. Perché voglio
consegnare a mio figlio un mondo più giusto. E perché…Perché avete
paura che questi siano solo sogni, Chabert. Perché sapete che l’Uomo
non è buono, che il mondo non è giusto e che la tenebra dell’odio e
della follia spesso e volentieri offusca completamente la luce della
Ragione. Perché in ogni epoca l’inferno ha sputato i suoi demoni sopra
la terra, e così sarà per sempre. Non chiedetemi come faccio a saperlo,
perché mi prendereste per pazzo, se vi dicessi tutto di me…Se vi
raccontassi che sopravviverò a tutto questo, e che continuerò ad essere
ciò che ero e che sono anche quando questi mostri non saranno più
nemmeno ossa.
Dopo l’esecuzione del re, Chabert
era tornato. Non me ne andrò più, gli aveva detto. Avevate ragione, le
mie non erano che le fantasie patetiche di un sognatore. Starò qui, con
mio figlio. E aspetterò che tutto passi, perché passerà, ne sono
sicuro.
Marat. Era lui, il mostro generato
dal sonno della ragione, lui che reclamava il sangue di cui si sarebbe
nutrito l’ideale rivoluzionario. La Patria, diceva, non sarà al sicuro
finchè l’ultimo dei traditori conserverà in corpo un solo alito di
vita. La Patria? Ma quale Patria, se lui era un apolide, figlio di padre
sardo e di madre svizzera, uno che, nel corso della sua vita, era stato
costretto diverse volte a prendere la via dell’esilio, e non a causa
delle sue idee ma dei suoi debiti? E in quanto ai traditori…Quando l’Assemblea
aveva voltato per la morte del re, non erano stati in pochi ad opporsi.
Pagherebbe colpe che sono sue soltanto in parte, si erano giustificati. La
condanna capitale farebbe di quell’omiciattolo indolente e inetto un
eroe agli occhi di molti. La destituzione e l’esilio sono pene
sufficienti a scontare le colpe di cui si è macchiato…Ma la testa del
re era caduta e coloro che avevano chiesto per lui la clemenza e l’esilio
adesso tremavano. Perché qualcuno chiamava con il nome di tradimento
quello che era stato soltanto un tentativo abortito di mostrare un po’
di pietà.
Non si è mai sporcato le mani di
sangue, se si eccettua quello degli animali che ha vivisezionato nel corso
dei suoi crudeli esperimenti, quando diceva di studiare medicina. Ma con i
suoi scritti e con le sue parole, il Mostro ha aizzato i bassi istinti
della marmaglia e condiziona la vita politica dell’intera nazione. Chi
non è con lui è contro di lui. A Parigi…E non solo lì. Adesso non si
muore più soltanto nella capitale, in nome del Popolo e della Nazione.
Adesso si muore dappertutto.
Nel giro di due giorni, Chabert era
stato arrestato, processato e condannato. Il Tribunale non concedeva
appelli e la sentenza sarebbe stata inevitabilmente eseguita. Gli aveva
scritto e fatto recapitare una lettera dalla prigione, nella quale lo
esortava a non esporsi ad inutili pericoli e a prendersi cura di Marc,
come se fosse stato figlio suo. Poveretto. Non sapeva che lui aveva avuto,
un mare di tempo prima, un figlio che portava quello stesso nome e che,
per ordine di un altro di quei mostri che l’inferno vomita sopra la
terra, era stato ammazzato come un cane. Non immaginava quel che avrebbe
dovuto dire al piccolo, quando questi sarebbe cresciuto e non lo avrebbe
visto invecchiare. E neppure che, se non avesse deciso per tempo di
scomparire dalla sua vita,sarebbe stato lui a veder avvizzire come l’erba
stenta dell’inverno e poi morire quel pupillo che aveva conosciuto
bambino.
Guardatevi dall’esporvi a pericoli
inutili, amico mio…L’essere in intimità con un traditore è anch’esso
da ritenersi tradimento…
Voi non sapete che, se dovesse
calare sul mio collo, la lama della ghigliottina andrebbe in pezzi,
perché niente può niente contro di me, dacchè l’amore di una donna e
il sortilegio di una strega mi hanno riportato indietro dal mondo dei
morti.
Giuratemi che lo farete…Per voi…E
per Marc. Perché adesso anche voi avete un figlio, Maxim Merides.
Gli avevano tagliato i capelli,
strappato via il colletto della camicia, perché la lama non trovasse
intoppi e la morte fosse istantanea. La postura eretta, lo sguardo fermo
del condannato esprimevano dignità e coraggio. Quelli che non
trasparivano dall’atteggiamento della folla che urlava morte al nemico,
che rideva sguaiatamente mentre il boia mostrava al popolo la testa
mozzata del traditore.
Maxim chiuse gli occhi, inghiottì
il groppo di bile e di vomito che gli serrava la gola e ritornò indietro
nei secoli con il pensiero, a quando era un capo di uomini armati e, tra
le brume del Nord, guidava il suo esercito contro i barbari Germani.
Rivide la testa del tribuno che aveva mandato come latore di un’ambasciata
al capo dei nemici rotolargli sui piedi, ripensò che, anche allora, aveva
sentito la sua bocca riempirsi del sapore acre della bile e aveva faticato
a ricacciare indietro il conato di vomito che dallo stomaco gli era salito
alla gola.
Ci rivedremo un domani, quando il
tempo sarà passato e allora sarà per sempre, mormorò Maxim tra i denti
allontanandosi. Lo disse nella lingua in cui aveva imparato a parlare, in
quel latino rotondo e solenne del quale si era servito tante volte per
discutere con André Chabert. Con te, la società ha perso un galantuomo,
tuo figlio un padre, io un amico. Ma, com’è vero il mondo, coloro che
hanno la tua morte sulla coscienza pagheranno. Non lo disse e lo pensò
soltanto, nella lingua antica dei suoi padri, mentre le lacrime che la sua
condizione gli impediva di versare gli bruciavano gli occhi e la gola, e i
pugni si serravano stretti, al limite del dolore, in fondo alle tasche
della giacca da cavallerizzo.
PAURA
Tutta la città aveva paura. Madame
de Bretteville non osava più uscire da casa sua, ma Charlotte continuava
a farlo, malgrado i rimbrotti della vecchia cugina che la ospitava presso
di sé. Mi sentirei responsabile, se vi capitasse qualcosa di brutto.Le
diceva. E lei rispondeva, che razza di libertà sarebbe, se non potessi
più nemmeno uscire in strada? Che cosa sta succedendo? Ci avevano
promesso giustizia, invece…
Le sue orecchie percepirono il
brusio della folla inferocita quando era tardi per tornare indietro. Fatti
più piccola che puoi, cerca di passare inosservata e non ti succederà
nulla, anche perché non è te che cercano.
Si erano accalcati in fondo alla
piazza, dalla parte della prigione: forestieri provenienti dalle campagne
circostanti, numerosi, violenti. Marmaglia ubriaca di odio, vomitata dai
tuguri alla periferia della città. Volevano Georges Bayeux, il sindaco.
Il traditore.Colui che aveva rifiutato di consegnare a Parigi gli ottanta
detenuti politici rinchiusi nelle prigioni della sua città ed era stato,
per questo, arrestato egli stesso.
Si diceva che sua moglie, incinta,
si fosse recata a Parigi per tentare di salvarlo. Ed eccola lì, davanti
alla prigione, Madame Bayeux, con il figlioletto maggiore tra le braccia,
il ventre gonfio e l’ordine di scarcerazione in pugno.
La folla attese paziente che il
sindaco uscisse di prigione, abbracciasse commosso il suo bambino e
cominciasse ad avviarsi. Era tutto finito, pensava. Invece…Invece gli
strapparono il bambino dalle braccia e lo massacrarono sul posto, a calci
e pugni, per poi darsi ad una fuga precipitosa.
Charlotte andava dove la portavano i
suoi passi, nella piazza ormai deserta di folla. L’uomo giaceva a terra,
orribilmente sfigurato. Non c’era più nulla che potesse fare, per lui.
Nulla.
Un refolo di vento spinse ai suoi
piedi un foglio che lei si chinò a raccogliere, vincendo la nausea,
vincendo la ripugnanza e la pietà che la vista di tutto quel sangue le
ispiravano. Lo lesse. Era il testo della circolare di Marat, datata 3
Settembre 1792:La Comune di Parigi…Mettere
a morte…Terrore…Traditori nascosti…Tradimento…Orlo dell’abisso…Sgozzare
le nostre donne e i nostri figli…
La giovane strinse i denti,
ricacciò indietro a fatica la nausea e le lacrime. Mormorò, abbastanza
piano da non farsi sentire:”Marat…Il cannibale assetato di morte…Parigi
non è la Francia: eppure è Parigi che versa il suo sangue!”
Ma forse l’uomo l’aveva sentita.
Le aveva sorriso, e l’istinto aveva suggerito a Charlotte che poteva
fidarsi di lui, malgrado non sapesse chi fosse, non l’avesse mai visto
prima e i tempi fossero quelli che erano. Finirà, le aveva detto,
guardandola con i suoi occhi azzurri dall’espressione franca, mentre si
domandava chi potesse essere quella bella creatura dai riccioli color
miele e lo sguardo trasparente che sembrava uscita da un quadro di
Largillière e se ne stava inginocchiata accanto a un cadavere
mormorando,invece che preghiere in suffragio di quella povera anima,
parole di maledizione che pesavano come macigni.
COMPAGNI DI VIAGGIO
Il 23 Aprile, Charlotte domandò e
ottenne un visto per Parigi: sarebbe partita, appena possibile. A costo di
fuggire dalla casa di Madame de Bretteville come una ladra e di non
tornare mai più. Si sarebbe procurata la possibilità di uccidere Marat,
il Mostro, contro il quale nessuno sembrava potere niente e tutte le bugie
necessarie a coprire il vero scopo di questo suo viaggio: un nuovo
nipotino da conoscere, una vecchia zia molto malata…Ci avrebbe pensato.
Il tempo non le mancava.
Alla stazione di posta, sperò che
nessuno la notasse. Si era vestita con la semplice eleganza di sempre,
chiunque l’avrebbe potuta scambiare per una giovane moglie borghese che
andava a raggiungere il marito a Parigi. Il suo bagaglio era costituito
solamente da una vecchia borsa di tela e di cuoio.
Era il 9 Luglio, e faceva un caldo d’inferno,
contro il quale il ventaglio di seta poteva veramente molto poco.
Guardando gli altri passeggeri che aspettavano con lei la diligenza per
Parigi, Charlotte si rammaricò di non aver portato con sé qualcosa di
simile a una fede da infilare nel dito onde tutelarsi dalle sgradite
attenzioni di qualche bellimbusto. Stava augurandosi che non le accadesse
niente quando uno dei suoi compagni di viaggio, un popolano dal collo
taurino, la pancia grossa e la faccia paonazza da avvinazzato, se si
avvicinò, l’afferrò per un braccio e le sfiatò nell’orecchio una
zaffata puzzolente di aglio e una raffica di oscenità.
-Lasciatemi, o sarò costretta a
chiedere aiuto.
Il bruto rise, sfiorandosi
oscenamente la patta dei calzoni. Sbraita quanto vuoi, bellezza, tanto non
troverai un cane che ti difenda. Quei tempi sono finiti, bella mia…
Il viaggio da Caen a Parigi non
durava meno di quaranta ore e sopportare una compagnia simile per così
tanto tempo era chiedere troppo alla sua pazienza, senza contare i rischi
che correva. Anche le bestie come questo rispettano le donne sposate,
pensò. Mio marito sarà qui a momenti…A chi vuoi darla a bere, bionda?
Di certo non a me…Bah, tanto non sei nemmeno sposata, non hai la fede al
dito…
L’orribile mano di quell’osceno
bifolco stava sicuramente per mettersi a palparle il fondoschiena. Era di
quelli che non rispettano niente, fosse vita, fosse onore. Forse era tra
coloro che avevano sbudellato il visconte di Blensunce e massacrato a
calci e pugni il sindaco Bayeux. Sicuramente apparteneva alla stirpe di
bestie in mezzo a cui Marat il Mostro cercava avvallo e complicità per i
suoi crimini. Se si fosse azzardato a toccarla, lei avrebbe urlato, pensò
Charlotte, e non sarebbe servito a niente. Si sorprese a pregare.Era da
tanto che non lo faceva. Da talmente tanto di quel tempo che non meritava
che Dio o un angelo o un santo l’aiutassero in un simile frangente.
Invece…
I suoi occhi incontrarono uno
sguardo chiaro, acuto e franco. Finalmente, mormorò con un filo di voce.
Finalmente siete qui…marito mio. Lui le indirizzò un sorriso complice,
prima di aprire le braccia ed accoglierla, come se fosse stata davvero sua
moglie. E al bifolco che l’aveva importunata e che,con altri due della
sua specie, avrebbe dovuto raggiungere Parigi servendosi di quella stessa
diligenza, probabilmente anche mangiando e dormendo nelle stesse stazioni
di posta, non restò che farsi da parte con la coda tra le gambe: la
muscolatura imponente, l’atteggiamento fiero e l’aria risoluta dello
sconosciuto raccomandavano la massima prudenza.
-Non vi sareste dovuta mettere in
viaggio da sola, Madame. Sono brutti tempi, questi.
Era stato per non sciropparsi le
prediche della povera cugina de Bretteville che aveva lasciato la sua casa
quasi di nascosto, inventando qualche bugia nella quale la brava donna
aveva creduto o quantomeno fatto finta di credere. E adesso la predica
gliela faceva colui che l’aveva tolta dai guai, mentre entrambi
aspettavano seduti a un tavolino della stazione delle diligenze, davanti a
una caraffa di limonata fresca.
-A Parigi devo raggiungere una
vecchia zia molto malata. Non avrei potuto aspettare tempi meno brutti,
per essere sicura di vederla viva un’ultima volta.
-Allora vi conviene continuare il
gioco con cui avete imbrogliato quella canaglia, anche perché, se
scoprisse che lo avete raggirato, per voi potrebbero essere guai seri.
-Dovrò continuare…a fingermi
vostra moglie fino al nostro arrivo a Parigi?
-Ve lo consiglio vivamente.
L’aveva riconosciuto. E aveva
deciso di fidarsi di lui, come in quel giorno terribile durante il quale
la folla inferocita aveva massacrato il povero Bayeux sotto i suoi occhi.
-Se dobbiamo fingere di essere
marito e moglie, forse sarà il caso che ci presentiamo. Io mi chiamo
Maxim Merides...-
La voce grave dell’uomo era
ridotta a un bisbiglio, perché solo la sua interlocutrice potesse
sentirlo-E voi?
-Charlotte. Charlotte Corday.
-Ci stiamo recando a Parigi per
affari. Siamo marito e moglie da cinque giorni…Charlotte.
La giovane sorrise, senza togliere
gli occhi di dosso al suo interlocutore. Non le sarebbe affatto
dispiaciuto che fosse stato suo marito per davvero, un uomo così. Si era
dimostrato gentile a prendersi cura di lei, e il suo sguardo era sincero.
E poi era un uomo molto bello, con quegli occhi azzurri, i lunghi capelli
sfumati d’oro e di rame, i tratti morbidi e il corpo muscoloso.
Indossava stivali alti, calzoni di pelle scamosciata, una camicia di
percalle sotto un panciotto di cuoio. Niente giacca né cappello, e le sue
guance non erano rasate di fresco com’era consuetudine fra i
gentiluomini, ma non potevano esserci dubbi che tale fosse, non per
nascita, probabilmente, ma di certo per nobiltà d’animo, rettitudine e
sincerità di sentimenti. Si portava appresso un’aria risoluta,
rassicurante e protettiva e, come qualche settimana prima, l’istinto
suggerì a Charlotte che avrebbe fatto bene a fidarsi di lui.
Chissà chi era, che faceva nella
vita, pensava Charlotte mentre lui le stringeva la mano tra le sue.
Recitava bene, e sicuramente nessuno degli altri passeggeri avrebbe potuto
essere sfiorato dal sospetto che quei due fossero qualcosa di diverso da
una giovane coppia di freschi sposi. Maxim Merides…Una goccia di sudore
gli scendeva lungo la vena del collo, ma il caldo della giornata era
davvero infernale. Chissà se i grandi occhi chiari dell’uomo erano
stati capaci di leggere i suoi segreti, di scoprire che la giovane, bella
donna che gli stava accanto sullo scomodo sedile della diligenza non
intendeva andare a trovare una vecchia zia, come gli aveva detto, ma si
stava recando ad un appuntamento col destino.
Charlotte lo guardava in silenzio,
cercando d’immedesimarsi nel ruolo della sposina adorante. Non era arduo
farlo, con la mano nella mano di un uomo simile, anche se fingere le era
sempre riuscito difficile. I loro sguardi si incrociarono, e lui le
sorrise.Le guance della giovane si soffusero di rossore, quando i suoi
occhi si abbassarono timidamente scorgendo la pelle abbronzata del petto
tra i lacci allentati delle camicia, le gambe muscolose accavallate…Non
aveva una grande esperienza delle cose di mondo, ma in collegio, tra
ragazze, certi discorsi sussurrati a mezza voce quando le suore credevano
che le educande dormissero erano consuetudine. E poi c’era stata quella
storia con suo cugino, a sedici anni, durante una delle poche vacanze che
aveva trascorso a casa. Si era lasciata baciare e sfiorare il seno, ma era
stata capace di tirarsi indietro prima che il gioco le sfuggisse di mano.
E quel gioco non le era affatto dispiaciuto.
Il sole stava tramontando, presto la
diligenza avrebbe raggiunto la stazione di posta dove avrebbero cenato e
passato la notte. Nella stessa stanza, pensò Charlotte, se il gioco di
fingersi marito e moglie era opportuno che continuasse. Nella stessa
stanza…
SENZA DOMANI
Avrebbe dormito poco, si era detta
da sé sola. Faceva caldo, e i pensieri che le frullavano in testa le
avrebbero impedito di chiudere gli occhi anche soltanto per pochi minuti.
Lui le aveva ceduto senza esitazione il letto, dicendole che, se il sonno
fosse venuto, non avrebbe avuto problemi a sdraiarsi per terra, tanto c’era
abituato.
Non sapeva quasi niente dell’uomo
con il quale le circostanze l’avevano costretta a dividere quella
stanza: conosceva il suo nome, che poteva peraltro anche essere fittizio,
e quel che i suoi occhi vedevano, un magnifico giovane di una trentina d’anni,
pulito ma abbigliato in maniera quasi trasandata, con un’ombra di barba
che spuntava sulle guance pallide e i capelli ramati che gli ruscellarono
giù per le spalle possenti, quando sciolse il laccio di cuoio che glieli
raccoglieva sulla nuca. Le venne da pensare a un principe barbaro, a
qualcuno degli eroi di cui l’ avo Pierre Corneille aveva raccontato le
gesta e i tormenti nelle sue tragedie. Al Cid, forse,il suo preferito,
giovane, bello, romantico, con il cuore spaccato a metà tra il bisogno d’amore
e la sete di vendetta.
-Che fate, per vivere?
-Allevo, domo e vendo cavalli.
-Ma non siete di Caen.
-No. Ho comprato soltanto una
masseria e un terreno poco fuori città, anni orsono, e mi ci sono
trasferito.
Quando i tempi non erano quelli che
erano e lei trascorreva in collegio la fanciullezza pregando, studiando e
preparandosi a diventare una brava moglie per l’uomo che suo padre le
avrebbe destinato. Quando pensava che, forse, avrebbe avuto una vita
lunga, serena e un po’ noiosa, dei figli, dei nipoti…Quando non aveva
preso coscienza del mondo e delle sue ingiustizie, e non sapeva ancora che
avrebbe desiderato cambiarlo. Quando aveva respirato l’odore della
salsedine e quello della terra smossa, il profumo dei fiori, l’aroma
penetrante dell’incenso durante le funzioni religiose ma non conosceva
ancora il lezzo del sangue rappreso.
-E voi, chi siete?
Uno degli ultimi residui di un mondo
che deve cambiare, Maxim. Posso chiamarvi per nome, vero?
Aveva un viso triangolare,
incorniciato da una massa disordinata di riccioli color miele e grandi
occhi chiari dove tutto avrebbe letto fuorché sgomento. La mia famiglia
è antica, signore. Antica e mezza rovinata…Ho uno zio prete
refrattario* che non può uscire da casa, un padre quasi completamente
svanito, due fratelli in esilio …Io sono rimasta perché credo ancora
che il mondo possa essere cambiato. Nonostante i morti ammazzati.
Nonostante Marat. Nonostante tutto.
-Conoscete le opere di Pierre Corneille?
-Qualcuna.
-Era un mio antenato.
-I protagonisti delle sue tragedie
avevano l’anima lacerata dal conflitto tra il dovere e i sentimenti.
-Come il Cid. Ho amato questo
personaggio.
Perché non l’avete conosciuto. Lo
pensò, ma non lo disse, sicuro che, diversamente, lei lo avrebbe preso
per pazzo. Rodrigo Diaz De Bivar era molto diverso da come ce l’hanno
sempre dipinto. In realtà, era soltanto un feroce assassino, e l’onore
nemmeno sapeva dove stesse di casa. Chissà, tra qualche secolo, uno
scrittore potrebbe comporre un’opera immortale sulle pretese gesta
eroiche di un mostro come Marat.
-Anche voi avete il cuore lacerato
tra il dovere e i sentimenti?
I sorrisi di Maxim erano tanto rari
e fugaci quanto incantevoli. L’ho avuto, avrebbe potuto dirle. E onorare
i miei impegni mi è costato un prezzo che forse voi nemmeno immaginate…Charlotte.
-Sono un allevatore di cavalli, non
un principe o un condottiero. Ma adesso coricatevi e cercate di dormire.
Domani ci aspetta una giornata molto faticosa.
Ma Charlotte non riusciva a chiudere
gli occhi, pensando all’uomo che il buio le nascondeva e che giaceva ai
piedi del suo letto sul piancito di legno. Accese la candela infilata
nella bugia, lo guardò cercare o fingere di dormire…Si era tolto il
panciotto e la camicia, e la giovane faticò a ricacciare indietro il
sospiro che le era sfuggito dalle labbra, accarezzando con lo sguardo la
perfezione delle sue ampie spalle e del suo torso statuario.
-Maxim…-gli sussurrò piano-Non è
giusto che dormiate per terra, quando questo letto è così grande…
Lui si era alzato in piedi,
scrollato la polvere di dosso e le aveva sorriso. Sono certa che non mi
farete niente, se non lo vorrò.
Lo guardò sdraiarsi al suo fianco e
voltarle l’ampia schiena abbronzata. Era pieno di cicatrici, e una di
queste rassomigliava a quei marchi a fuoco con cui si segnavano
indelebilmente i ladri. Eppure, avrebbe scommesso quanto di più caro
aveva al mondo che Maxim non poteva essere quello: era troppo cristallino,
troppo retto, troppo onesto. O, forse, si trattava semplicemente d’ un
magnifico attore, capace di calarsi con perfetta naturalezza nei panni di
qualcuno che non era lui, di mentire spudoratamente con lo sguardo, oltre
che con le labbra.
-Come mai avete tutti questi segni?
-E’ successo in Africa, un bel po’
di tempo fa.
La luce debole della candela gli
aveva illuminato gli occhi azzurri spalancati nel buio.Occhi che avevano
visto tanto e non avevano mai imparato a mentire. Occhi dolci e feroci,
occhi d’angelo e di tigre. Era possibile che, in chissà quali
circostanze, quell’uomo fosse caduto nelle mani dei pirati barbareschi
che infestavano il Mediterraneo e lo strazio delle sue carni fosse opera
di quei criminali.
-E’ tardi. Cerchiamo di dormire, o
domani…Domani saremo degli stracci.
Si era nuovamente voltato dandole la
schiena e appena chiusi gli occhi, aveva sentito la carezza leggera di due
mani delicate scorrergli sopra la pelle. I sogni non giungono prima che
arrivi il sonno . Non giungono prima che le candele vengano spente. Quello
non era un sogno, pensò mentre de dita di lei gli percorrevano i muscoli
delle spalle, il solco della spina dorsale,le profonde fossette alla base
della sua schiena: un tocco gentile ed eccitante, che era per lei scoperta
e meraviglia, qualcosa di mai provato. Maxim si voltò, sentì le mani
calde della giovane accarezzargli il viso, toccargli la fronte, le guance
ruvide di barba, la punta del naso delicato, la piccola fessura che gli
fendeva il mento proprio nel mezzo.
-Se non sono troppo indiscreto,
potreste dirmi quanti anni avete, Charlotte?
-Venticinque.
Che strano, gliene avrebbe dati a
malapena diciotto. Sembrava un folletto, una ninfa dei boschi, con quei
lineamenti minuti, gli occhi grandi di un verde trasparente, i riccioli
vaporosi quasi biondi. Ma forse gli stava mentendo, per chissà quale
misteriosa ragione. Se davvero aveva venticinque anni, perché non era
sposata? Perché aveva affrontato quel viaggio da sola, con i tempi che
correvano? Non ce l’avete un marito, Charlotte? Un marito vero intendo.
No, gli aveva risposto lei sfiorandogli con l’indice le labbra, che
aveva piccole e piene. E’ obbligatorio averlo? No,solo è strano che voi
non lo abbiate…Charlotte, bella come siete.
-Non vi direi delle bugie, perché
non avrebbe senso. Ho venticinque anni davvero, anche se sembro una
bambina. E non ho un marito perché mio padre non si è mai preoccupato di
procurarmene uno e perché le circostanze della vita hanno fatto il resto.
Ma se sono, o vi sembro infelice, non è certo questa la causa. Eppoi…Potrei
anch’io chiedervi come mai un uomo con tutte le vostre belle qualità
non ha una moglie, Maxim.
-Sono vedovo. E’ passato tanto
tempo dacchè mia moglie è morta.
Maxim non disse altro, e lei scelse
di rispettare il suo silenzio. Credeva che rivangare un passato di certo
recente,perché quell’uomo non doveva avere più di una trentina d’anni,
potesse essere terribilmente doloroso. Non avrebbe mai immaginato che se
lui taceva era perché non poteva raccontarle una storia che era
impossibile credere fosse la verità. Sono stato sposato, Charlotte. Due
volte. La mia prima moglie è stata ammazzata dagli scherani dell’imperatore
Commodo, la seconda è morta martire nell’arena di Emerita Augusta
regnante il Cesare Diocleziano. Colui che vi sta vicino calca la polvere
del mondo da mille e seicento anni, dopo essere stato riportato indietro
dall’aldilà…Per sempre. Non le disse nulla. Nemmeno che, tra i pochi
effetti personali che si era portato appresso, teneva nascosta una pistola
con il colpo in canna. Una pistola con la quale avrebbe mandato all’inferno
Jean Paul Marat, il Cannibale.
Charlotte si rannicchiò tra le sue
braccia, come se quello sconosciuto fosse il suo sposo per davvero. Con la
mano sottile, gli sfiorò il collo, quindi scese ad accarezzargli i
muscoli rilevati e tesi del petto. Non aveva mai pensato che il corpo di
un uomo potesse essere così bello. E così eccitante, si disse da sé
sola, baciandogli e lambendogli delicatamente il capezzolo sinistro,
proprio sopra il cuore. E sentì che il respiro gli diventava un rantolo,
la voce un sospiro rauco, mentre le afferrava i polsi e le chiedeva
perché mi metti in condizioni di disonorarti, Charlotte?
-Perché sento che non avrò un
domani.
Lui non le domandò spiegazioni,
mentre la spogliava e la stringeva a sé facendole sentire quanto la
desiderasse, mentre la baciava con tenerezza e con passione e poi le
stuzzicava i seni con le dita e con le labbra. Piccoli, deliziosi seni dai
capezzoli eretti,minuti e sensibili…
-Posso ancora fermarmi, se lo
desideri.
Non farlo. E gli artigliò la
schiena, mentre lui la penetrava con decisione e le versava dentro il suo
seme, dopo averla eccitata toccandola e baciandola dappertutto. Non
fermarti, Maxim. Non adesso. Se non avrò un domani, voglio oggi la
felicità che solo tu puoi darmi. Perché…
Perché, giunta a Parigi, avrebbe
acquistato un coltello appuntito e tagliente quindi, in un modo o nell’altro,
lo avrebbe cacciato in corpo fino al manico a Jean Paul Marat, il
Cannibale Assassino. Dopodiché, inevitabilmente, avrebbe perduto ogni
controllo sul suo destino.
* Erano definiti così quei
sacerdoti che, in ottemperanza ai dettami della Santa Sede, avevano
rifiutato di prestare il giuramento di fedeltà alla Costituzione Civile
del Clero e venivano pertanto considerati dalle autorità dei veri e
propri traditori.
L’ANGELO CON IL COLTELLO
Quando la diligenza raggiunse
Parigi, Charlotte sapeva bene che non si sarebbero più rivisti. Si
sforzò di ricacciare indietro le lacrime e si meravigliò, quando lui le
prese la mano fra le sue e, guardandola dritta negli occhi le sussurrò
con la sua voce dolce e grave, Domina mea, vale*. In latino. Nella
lingua in cui i preti dicevano messa. Avrebbe voluto domandargli
spiegazioni, ma quella mano grande e forte non stringeva più la sua ed
era come se il niente avesse inghiottito i suoi occhi limpidi, i suoi
lunghi capelli, la sua figura dritta di soldato. Quello stesso niente che,
di lì a poco, avrebbe inghiottito anche lei.
Aveva preso alloggio in un modesto
alberghetto della Rue des Vieux Augustins, l’Hotel de la Providence.
Un posto sufficientemente economico e sufficientemente discreto. La sua
prima notte in città l’aveva trascorsa rigirandosi nel letto e, la
mattina successiva, alle sette era già in strada. Si recò al vicino Palais
Royal** alla ricerca della bottega di un coltellinaio, e dovette
attendere un’ora, prima che i negozi aprissero.
Bodin, arcata 177. L’uomo la
guardò, domandandosi cosa se ne facesse, una come lei, di un coltello per
trinciare il pollame. Era giovane, esile, ben vestita, con piccole mani
curate. Sembrava che il caldo afoso della giornata estiva, che aveva
trasformato Parigi in una bara di piombo, non scalfisse minimamente la sua
freschezza. Lo sguardo chiaro gli parve malinconico, sotto l’ala del
cappellino elegante. Un coltello per trinciare il pollame. Che cosa se ne
faceva, una signora come quella?Non c’era, in casa sua, una serva che si
occupasse di certe incombenze? Per venti soldi, le vendette un comune
coltello da cucina con il manico nero, la ghiera argentata e una guaina di
cuoio per proteggere il filo della lama.
In Place de la Victoire, Charlotte
prese una carrozza a nolo. Doveva recarsi al numero 30 di Rue des
Cordeliers. Da Marat. Prima possibile.
Sarebbe voluta salire da lui, ma la
portinaia glielo impedì. E’ malato, le disse spingendola sgarbatamente.
Non riceve nessuno. Non insistere, cittadina.
Charlotte non lasciò che lo
scoramento la facesse desistere dai suoi propositi. Tornata al suo
albergo, buttò giù una frettolosa colazione, scrisse due righe di
commiato al suo mondo. Ai suoi cari. A Maxim. Chissà dov’era. Chissà
se mai avrebbe potuto leggerle. Quindi si cambiò d’abito, fece chiamare
un parrucchiere perché le acconciasse e le incipriasse i capelli, come se
si stesse preparando per partecipare ad un ballo. A un ballo, già. Un
ballo al quale il suo cavaliere sarebbe stato la morte, pensò stringendo
il labbro tra i piccoli denti candidi e nascondendo sotto il fichù***
di seta rosa una lettera che parlava di complotti inesistenti e un
coltello con la ghiera argentata e il manico nero.
Questa volta non sarebbero riusciti
a fermarla. Ho le prove di un complotto, disse alla vecchia portiera.
Simone, la compagna di Marat, una popolana bionda, dai tratti grossolani,
cercò in tutti i modi di non farla entrare in casa. Come se avesse
intuito tutto quanto.
-Che c’è?
Domandò una voce stridula ma
inequivocabilmente maschile da dentro.
-La solita pazza, Paul. Sta
blaterando di un complotto…Dice di venire da Caen.
Caen. Il luogo dove si erano
rifugiati i proscritti!
-Falla passare.
L’uomo e la donna si scambiarono
un’occhiata soltanto, dentro la stanza arroventata in mezzo alla quale
troneggiava un grande semicupio da cui si esalavano i vapori mefitici
dello zolfo e il puzzo delle piaghe purulente. Marat stava seduto lì
dentro, con il busto nudo e scheletrito che emergeva dall’acqua, la
pelle chiazzata, i capelli raccolti in un sudicio asciugamano drappeggiato
a mo di turbante intorno alla faccia dai tratti scimmieschi. Davanti a
lui, su una tavoletta di legno, erano appoggiati diversi fogli, alcune
penne e il calamaio. Ridotto in condizioni precarie dal caldo torrido di
quell’estate e da un grave eczema, il tribuno trovava sollievo solamente
standosene immerso nell’acqua.
-Parlavate di un complotto,
cittadina…Ma prendete una sedia, avvicinatevi: e raccontatemi tutto ciò
che sapete, fin nei minimi dettagli.
Adesso era un po’ sopra di lui, e
sentiva l’odore fetido che saliva dalla vasca, vedeva i tendini sporgere
sul collo dell’uomo, le croste sulla pelle giallastra e chiazzata…La
ripugnanza che provava l’avrebbe aiutata ad uccidere, ne era sicura.
-Voi venite da Caen, cittadina?
-Ero lì, fino a tre giorni fa.
-Com’è la situazione, laggiù?
-Stanno cercando di organizzarsi. E
i Girondini…
-Farò arrestare e ghigliottinare
tutti i deputati della Convenzione esiliati. Ditemi i loro nomi.
Solo nel momento in cui Marat vide
quell’angelo brandire il coltello e calare su di lui la lama acuminata
comprese che la sua ora era giunta. Chinò la testa e l’ultima cosa che
scorse prima che il grande freddo lo cogliesse fu l’acqua putrida e
scura della vasca che si tingeva di rosso.
Era ormai il tramonto e, una volta
scesa la notte, sarebbe stato più facile per lui passare inosservato, non
essere notato dalla folla che, da mane a sera, si accalcava sotto l’abitazione
del Tribuno per cogliere qualche notizia sulla sua salute, per sperare di
poter sentire due parole dalla sua viva voce. Tra poco, gli unici incontri
che avrebbe potuto fare erano quelli con i gatti randagi e un paio di
vecchie puttane scalcagnate, in cerca di clienti di bocca buona e scarse
finanze. La giacca gli teneva caldo, ma non c’era altro sistema per
nascondere la pistola. Una volta arrivato al numero 30 della Rue des
Cordeliers, sarebbe stato un gioco da ragazzi vincere la resistenza delle
megere che montavano la guardia dinanzi all’appartamento di Marat:
forse, i suoi begli occhi azzurri avrebbero reso inutile dover ricorrere
alle cattive maniere, è risaputo, quale che sia l’età che si portano
dietro, le donne sono sempre delle gran sentimentali…Le donne.
Charlotte. Era vergine, quando gli si era data, con la determinazione e la
disperazione di chi sa che quella è l’ultima cosa che gli sarà
consentito fare nel corso della sua vita…Maxim ripensò ai suoi tratti
infantili e ai suoi modi decisi e sentì il gelo d’un presentimento di
tragedia stringergli il cuore in una morsa. Corneille…Il dovere…I
sentimenti…La donna inginocchiata accanto al cadavere mutilato del
sindaco Bayeux…Marat, il Cannibale Assassino…
Strano che alle otto e mezza di sera
ci fosse ancora tutta quella gente, davanti al 30 di Rue des Cordeliers.
Gente stranamente silenziosa. Hanno ammazzato l’Amico del Popolo,
rispose qualcuno ad una domanda da lui formulata solamente con uno sguardo
interrogativo. A coltellate. E’ stata una donna. Una maledetta puttana…
*Addio,
mia signora.
**Contrariamente a quanto si
potrebbe credere, si designava così l’ampio parco che circondava la
residenza parigina del duca Louis Philippe d’Orleans. Sotto i suoi
portici vi erano le sedi di numerose attività commerciali ed era per
eccellenza il luogo deputato agli incontri galanti.
***Piccolo scialle di seta usato per
nascondere la scollatura degli abiti femminili.
OMBRE E POLVERE
Charlotte Corday d’Armont era
salita sul patibolo il 17 Luglio 1793, a quattro giorni dal il suo
arresto, concludendo tra i tuoni e le saette di un violento temporale
estivo, la sua breve esistenza.
Non sono riuscito a salvare neanche
lei…Pensò Maxim tracannando l’ennesimo bicchiere di cognac. Non ho
potuto fare niente, neanche vederla, parlarle, raccogliere i suoi ultimi
istanti…Perché non me ne hai parlato, maledizione? Perché non mi hai
detto il vero scopo del tuo viaggio a Parigi e ti sei inventata quella
storia della zia vecchia e malata, e io me la sono bevuta come un
imbecille…Come ho fatto a non accorgermi di niente, a non interpretare i
tuoi gesti, i tuoi sguardi e i tuoi silenzi, io che pure, in mille e
seicento anni di vita, ho imparato a leggere nei pensieri degli altri, a
fiutare l’odore del pericolo come un animale selvatico?
Adesso quel che restava di Charlotte
giaceva in una fossa comune che sarebbe stata riempita di calce viva,
magari dopo essere stata saccheggiata dagli studenti di medicina sempre a
caccia di cadaveri per i loro maledetti esperimenti…Charlotte aveva
sacrificato la sua vita preziosa solo perché lui non era riuscito ad
arrivare prima di lei al 30 di Rue des Cordeliers, a farsi largo a
spintoni in mezzo alle cagne che montavano la guardia davanti alla tana di
Marat e a scaricare la palla della sua pistola in corpo a quell’immondo
assassino…
Perché non mi hai detto niente,
maledizione? Era ubriaco fin dentro le ossa, ma se l’alcol gli bruciava
le budella e gli ottundeva la coscienza, tuttavia non era riuscito ad
uccidere il dolore. Avresti dovuto parlare, e allora ti avrei detto tutto
di me, ti avrei detto piantalo qui, nel mio petto, il coltello che hai
comprato per uccidere Marat, e vedrai se quello che dico è il farneticare
di un povero pazzo o una verità che rassomiglia alla follia…Corneille,
il tuo avo, avrebbe potuto scrivere sul mio conto l’ennesima storia che
parla del conflitto tra dovere e sentimenti…Quel dovere che mi aveva
spinto a trascurare la mia famiglia per onorare un giuramento di fedeltà.
Che aveva fatto sì che io non fossi con loro a difenderli, quando gli
scherani dell’usurpatore Lucio Aurelio Antonino Commodo massacrarono mia
moglie e il mio bambino…Che fossi riuscito, con una stilettata che mi
aveva perforato il polmone e la morte che incombeva su di me come un
avvoltoio, a rubare i pochi istanti di vita che mi servivano per portare a
termine un’opera di giustizia e liberare il mondo da un mostro…Avresti
dovuto parlare, Charlotte. Una volta visto con i tuoi occhi quello che l’amore
di una donna aveva fatto di me, non avresti intralciato i miei piani.
Perché non appena la lama della ghigliottina si fosse abbattuta sul mio
collo, sarebbe andata in mille pezzi, come un calice di cristallo caduto
giù dal vassoio. La gente avrebbe visto un segno del Cielo in tutto
questo, e i massacri sarebbero finiti…
Ma non era andata così. Charlotte
adesso era ombra. Presto sarebbe stata polvere. E i massacri sarebbero
continuati, chissà ancora per quanto.
Maxim allungò un braccio e lasciò
andare l’altro lungo il corpo, posò sul sudicio tavolino la testa che
gli doleva da spaccarsi, per trovare un po’ di sollievo. Il calore di un
piccolo corpo morbido e peloso catturò la sua attenzione. Un grosso gatto
nero lo fissava con i suoi occhi sfacciati, che lucevano come due monete
nuove. Aveva un lungo corpo magro, un orecchio sbrindellato, il muso
martoriato dalle cicatrici ed emetteva un miagolio curiosamente flebile in
rapporto alla sua mole.
-Gigot vi deve la vita,
signore.
Poteva essere un ricordo scaturito
all’improvviso dai recessi del suo passato, un fantasma. La Fouine.
La donna selvatica e solitaria del bocage, che aveva incontrato in
quei tempi recenti e lontani in cui il mondo non era ancora scoppiato.
-Andiamo, vi accompagno a casa.
Doveva essere stata lei a togliergli
gli stivali, ad aiutarlo a sdraiarsi sul letto. Doveva essere stata lei a
scostargli i capelli dalla fronte sudata. Le ricordava bene,lui, quelle
sue mani ruvide, forti e calde, da guaritrice.
-Maxim…
Si mordeva le labbra come una
bambina timida, mentre lo guardava e allungava verso di lui la piccola
mano sottile.
-Prendila, Maxim.
Era fredda come se fosse stato
inverno, fredda e pallida dentro le sue. La fronte e le guance avevano la
trasparenza azzurrastra dell’aria e i capelli erano corti come quelli di
un piccolo mendicante pidocchioso*. Sei tornata, Charlotte? Sei qui
perdavvero, o sei solo un sogno scaturito dai fumi dell’alcol? Aveva un
segno rosso che le circondava il collo come un nastro, e lo sguardo
distante di chi non è più di questo mondo.
-Sei tornata, Charlotte? Per
restare? Perché adesso sei quello che sono io?
Lo stomaco gli bruciava come se l’avessero
costretto a inghiottire carboni ardenti,il sangue gli batteva in tutto il
corpo all’impazzata, il respiro veniva fuori così affannoso che, non
fosse stato quello che era, l’uomo avrebbe pensato che il suo cuore
stesse per tradirlo. E lei era lì, in piedi accanto al letto, e lo
guardava con i suoi grandi occhi tristi, ed era vera, se avesse vomitato e
smaltito la sbornia lei ci sarebbe stata ancora, minuta, pallida,
tremante, con quella piccola testa sconciata dalle guardie della prigione
e il segno rosso della lama affilata sul collo esile…Qualcuno l’aveva
riportata indietro dall’aldilà, riservandole il suo stesso
destino.Qualcuno…
Adesso dormi, gli aveva sussurrato.
Dormi, Maxim. Ripetè sfiorandogli con l’indice la palpebra abbassata.
Lui si addormentò, cullato dal suono della sua voce. Era venuta per
restare o soltanto per chiedergli perdono? Era vera, era come lui, o
soltanto un’ombra? Il risveglio avrebbe dato risposta alle sue domande,
perciò era inutile lottare contro il sonno. Avrebbe dovuto attendere l’indomani
per scoprire se solo la gloria avrebbe reso immortale il suo ricordo o se
Charlotte era tornata davvero.Per sempre.
*Per impedire che la lama
trovasse intoppi, ai condannati venivano tagliati i capelli.