A Beautiful Mind (2001)

Recensioni - le opinioni degli spettatori

La recensione di Fulvia - paola_ruggieri@infinito.it -  8 Feb 2002 

Ciao Lampedusa, come promesso ti scrivo dopo aver assistito alla anteprima di A Beautiful Mind. Tutto ciò che mi aspettavo di vedere in quel film, l'ho visto, e anche di più; tutto ciò che mi aspettavo di provare vedendo il film, l'ho provato e anche di più. E' una produzione perfetta, non ci sono parole più adatte per descrivere ciò che io ho visto sullo schermo, io e tutte le persone che erano presenti l'altra sera. Nella sala c'era un silenzio innaturale, nessuno ha tossito, nessuno ha fatto rumori di alcun genere. Tutti, assolutamente tutti, erano paralizzati a fissare lo schermo. La storia la conosci ovviamente, ma ciò che non ci si aspetta è lo splendido lavoro di adattamento dal libro che ha compiuto lo sceneggiatore; ti senti veramente catapultata in una esplosione di sensazioni, di paure, di angosce, quasi le vivessi tu, personalmente. Tutti gli attori sono eccezionali; non parliamo poi del protagonista, che, credimi Lampedusa, non recita la parte di uno schizofrenico... è uno schizofrenico...!!!!!! I suoi atteggiamenti, il modo di camminare, le espressioni del viso, gli sguardi, il modo di muovere le mani, è qualche cosa di veramente unico. La mia modestissima opinione è che l'Oscar ce l'ha già in tasca. E, paradossalmente, è ancora più credibile quando recita truccato da vecchio. Non è affatto ridicolo come succede talvolta a degli attori giovani che vengono invecchiati per esigenze di copione e sembrano dei clown, lui è lui, cioè ti sembra di vederlo già a 70 anni. E' veramente splendido!!!. Sono ancora parecchio emozionata dalla visione del film e non so se sono riuscita, come si dice, a ....rendere l'idea. Ti assicuro che è veramente un magnifico film. Ciao, a presto Fulvia

La recensione di lucylucy - russelluccio@hotmail.com - 23 Feb 2002 

Andare a vedere un film o leggere un libro hanno un denominatore in comune: lo stato d'animo di chi si appresta a farlo: ci sono stati tempi in cui ho visto o letto delle terribili cavolate trovandole appetibili e altri dove ho sconfessato dei capolavori per poi, alla distanza, fare un doveroso autodafè.

Oggi sono andata a veder ABM con un unico, bieco proposito: godermi Russellone, e con uno stato d'animo che, più che goliardico, era da marines in libera uscita. Mi avrebbero potuto rifilare qualunque ciofega tanto io ero lì per lui; certo se il film fosse stato discreto la cosa mi avrebbe aiutato a salvarmi la faccia nei confronti di chi, gentilmente, mi faceva da chaperon.

Dopo i primi dieci minuti di film avevo dimenticato chi era l'interprete, completamente assorbita dalla bellissima e misurata narrazione dalla storia, alla fine della prima ora io, che ho sempre detestato chi piagnucola al cinema, davo libero sfogo alle lacrime, totalmente coinvolta nel dolore dei protagonisti, nella sofferenza tangibile che le immagini rimandavano.

Mai sopra le righe ma con intensità e quasi con una sorta di pudore. La storia si sviluppa in maniera intensa, asciutta. Il film ti rivela la realtà vista da Nash in modo tale da farti credere che sia vera fino alla catarsi del momento in cui la rivelazione dell'ossessione ti lascia senza fiato.

E' un film di dolore, di volontà e di amore e sono sentimenti questi, al di là della storia in sè, così comuni a tutti noi che ci permettono una chiave di lettura a molti livelli.

E Russell? Russell è semplicemente splendido: pari a tutti e superiore a molti per dirla con Tomasi di Lampedusa. Riesce a rinchiudere e a mortificare la sua prorompente mascolinità nei panni anonimi di Nash, rendendo credibile ogni suo gesto, ogni suo tic, ogni risvolto del suo carattere nel crescendo della malattia, fino all'accettazione finale della convivenza con essa.

Dolce, tenero, indifeso, doloroso Russell: lunga vita ad un mito che, prima di tutto, è un uomo.

La recensione di Gioia - gioiacicci@libero.it - 25/02/2002

Sabato, in un cinema praticamente vuoto, ho visto A Beautiful Mind. L'ho trovato molto coinvolgente tanto che non mi sono neanche accorta che mia sorella stava piangendo sul mio braccio. Un mio giudizio (a parte: è un bellissimo film, Russell è straordinario, è realizzato bene, merita tutti i premi che sta vincendo) concordo con quanto Russell dice in varie interviste, che la storia d'amore tra i protagonisti è il filo conduttore di tutto il film, il fatto di tralasciare alcuni aspetti della vita del Matematico non toglie niente alla percezione della Realtà da parte di un Genio, la rappresentazione della malattia è magistrale tanto che fino all'ultimo non ho capito che alcuni personaggio erano 'inventati' dalla mente malata di Nash. Forse il mio parere è un po' scontato, ma leggendo le varie recensioni e dopo aver visto il film do ragione alle parole di Russell.

La recensione di Paola - fogliet@libero.it - 20/03/2002

RECENSIONI A BEAUTIFUL MIND

In genere le recensioni si basano su elementi che spesso sono fuorvianti per una lettura il più possibile obbiettiva e lineare di un film. Mi capita spesso di vedere un film e di sottovalutarne alcuni aspetti in favore di altri, e questo rende la percezione dell’insieme erronea e disomogenea.

Con A Beautiful Mind ho voluto compiere un esperimento che ho trovato interessante per capire le modalità che siano il più possibile congeniali a una estrapolazione il più possibile oggettiva.

Trattandosi di un film su un matematico,e non su un matematico qualunque, ma di un genio che ha basato tutta la sua vita nella ricerca di idee nuove e innovative, ho voluto applicare il suo concetto di equilibrio inserito in un contesto non propriamente numerico ma piuttosto visivo come è quello di un film, dove le parti interagiscono tra di loro e allo stesso tempo sono indipendenti l’una dall’altra, creando appunto un equilibrio. In poche parole, il gioco consiste nella valutazione dei vari elementi quali la sceneggiatura, la recitazione, la regia, la colonna sonora, la fotografia, i costumi, il trucco, la scenografia, come se fossero dei numeri che alla fine devono dare come risultato una somma la quale non si possa in nessuna maniera contestare o rielaborare perché inattaccabile da qualsiasi punto di vista.

 

Basandomi su questo modello di speculazione, abbastanza singolare lo so, ma comunque empirico non so bene dove andrò a parare, perché come ripeto è un esperimento, “an original idea” insomma.

 

I Recensione

 

Nella prima visione del film avevo pochi elementi in mano, il trailer, qualche clips, e la lettura di varie recensioni. Avevo un’idea piuttosto vaga anche della trama e quindi l’idea che mi ero fatto era solo basata su sensazioni e congetture. E’ come se dovendo fare una somma algebrica, mi mancassero alcuni elementi per proseguire.

 

Il film parla della biografia di John Forbes Nash Jr. della sua straordinaria mente di matematico sempre alla ricerca di un’idea originale, della sua stravaganza ed eccentricità, ma soprattutto del suo crollo psico-fisico che lo ha precipitato negli abissi della schizofrenia e della sua guarigione ottenuta grazie ad una straordinaria forza di volontà. Il film si apre nei primi anni a Princeton dove Nash ha proseguito gli studi di matematica grazie a una borsa di studio. Nella prima immagine di Russell Crowe possiamo già evidenziare il tipo di approccio che lui fa verso il personaggio tutto

proteso a dare risalto attraverso una serie di tic, di ammiccamenti, di sguardi spesso fissi e vacui, della personalità di Nash. La recitazione in genere si avvale a seconda del tipo di sceneggiatura, di una ricerca della natura interiore e psicologica della persona a cui si fa riferimento. Salta subito agli occhi quindi che il film è centrato soprattutto sulla natura intrinseca di Nash, e non tanto su come egli abbia elaborato attraverso studi complessi e a volte frustanti, teorie matematiche.

Trovandosi quindi di fronte a queste premesse, il film si evolve attraverso una componente primaria che è quella di raccontare la vita del genio matematico non come una vera e propria biografia, dove si scandaglia attimo per attimo tutto un percorso esistenziale , ma piuttosto una analisi che tende a centrare e a focalizzare quello che la mente di Nash percepiva del suo mondo circostante, fosse solo la cravatta del suo compagno, per elaborarlo di conseguenza in teorie matematiche.

La prima percezione che si ha è quindi di una specie di viaggio nel nulla, dove lo spettatore non riuscendo a cogliere( è questo perché spesso si tende a sottovalutare alcuni aspetti di un film, vedi per esempio la musica, dove nel caso contemplato gioca un ruolo importantissimo) il confine tra finzione e realtà, si trova in una situazione di smarrimento e di perplessità, e il risultato appare alla fine banale e superficiale. In poche parole la regia appare molto fumosa e poco credibile, concedendosi troppo a certi giochetti funzionali solo a creare una certa suspence tipica di un thriller, piuttosto che di un film con esiti drammatici.

La sceneggiatura da un buon risalto alla natura complessa come quella di Nash, inserendo in modo magistrale concetti elaborati per esprimere cose del tutto futili e semplici, emblematica è la scena quando Nash chiede la mano ad Alicia. Questo per evidenziare appunto come la mente di un matematico non si limita a strutturare le frasi dando per scontata la soluzione, ma inserisce nelle stesse un percorso complesso simile a un’equazione algebrica.

Tutto il film quindi gioca bene le sue cartucce più importanti che sono la recitazione di Russell Crowe della Jennifer Connelly e la sceneggiatura di Akiva Goldsman, ma nel complesso ne esce fuori un prodotto manchevole e a tratti troppo semplicistico. La colonna sonora però si insinua nella mente dello spettatore in modo quasi inconscio, rilasciando nello stesso un senso di abbandono e di oniricità che sarà il fulcro dominante per quasi tutto il film.

Notevole il trucco di Russell Crowe invecchiato, che lo rende irriconoscibile sia come Crowe attore sia come Crowe-Nash da giovane. Le parti quindi in gioco sono più funzionali per se stesse, ma tendono ad annullarsi dando quindi come risultato “somma zero”. Ovviamente questo è uno scherzo, ma nell’equilibrio di Nash, tutti i contendenti operano per sé stessi e per il gruppo. Quindi A Beautiful Mind, non ha raggiunto l’equilibrio che dovrebbe esserci perché la regia tende a minimizzare il tutto creando una disarmonia che appiattisce il contesto.

 

II RECENSIONE

 

Dopo aver visto quindi il film, ed averlo elaborato nella mia mente, gli elementi che avevo in mano per una seconda visione erano quindi aumentati, aggiungendo altre recensioni oltre a quelle già lette e cosa più importante, la lettura della biografia della Nasar, potevo tranquillamente rivedere il film concedendomi riflessioni che a una prima visione possono inevitabilmente sfuggire.

Dall’inizio del film si può notare come il colore giallo, che sarà il leit-motiv cromatico della prima parte, rende la scenografia in perfetta simbiosi con il contesto generale che vanno dal luogo dove si svolge l’introduzione del film, e cioè l’università di Princeton, alla sceneggiatura che ricalca un certo modo di essere tipico di quei tempi.

Siamo nella sala professori, tutti gli studenti sono concentrati nella lezione , ma non Nash, lui il grande genio matematico,interpretato da Russell Crowe, non si concede alla gente , rimane in disparte a pensare a qualche idea originale a una teoria dei giochi che in seguito gli conferirà il premio Nobel nel 1994. Il Crowe Nash ora brillante, ora ironico, ora arrogante, nasconde dentro di sé una forte determinazione ma nel contempo una fragilità e vulnerabiltà che non gli permette di relazionarsi in modo coerente con gli altri, creando dentro di sé delle forme difensive e consolatorie, sfociando quindi nella totale dissociazione dalla realtà, e infatti quello che inizialmente si credeva una figura reale, e cioè il suo amico di stanza Charles interpretato da Paul Bettany, in realtà era una delle sue allucinazioni.

La recitazione brillante e acuta di Russell Crowe, la sceneggiatura di Goldsman scarna ma incisiva per la natura del personaggio dove tutto è opinabile e suscettibile di variazioni e di approfondimento, si fondono in un unico elemento che trae linfa vitale anche da una musica che scandisce ogni attimo del film alternando sentimenti di commozione, di paura, di forte empatia verso il personaggio. Gli altri interpreti perfettamente inseriti nel contesto generale del film, dal suo amico immaginario Charles, dall’agente governativo William Parcher interpretato da Ed Harris, dal dott. Rosen interpretato da Chistopher Plummer, vertono soprattutto a cercare di delineare una dimensione in bilico tra l’immaginario e il reale,facendoci penetrare appieno nella mente del protagonista. Vorrei far notare come le magistrali interpretazioni degli attori sopra citati non sconfinano mai nel protagonismo, ma sono legati da un unico filo conduttore per darci appunto l’illusione di essere protagonisti noi stessi di un sogno.

Notevole l’interpretazione di Ed Harris che dietro ad una impercettibile ironia, si insinua come uno spiritello maligno, come se la mente del protagonista nella disperata ricerca di allontanarlo, fosse nel contempo conscia di una inevitabile sconfitta.

La Jennifer Connelly nella parte della moglie Alicia, ci mostra un bellissimo ritratto di donna che

si distaccava in modo sostanziale dai modelli standard di quei tempi, una donna non solo intelligente ma anche trasgressiva e certamente anticonformista. Per una donna la scelta di studiare matematica a quei tempi non doveva certo essere stata una strada semplice, ma piena di incertezze e di frustrazioni, non fosse altro per il tipo di lavoro che avrebbe dovuto intraprendere in un universo prettamente di stampo maschile. Le sue scelte, subordinate sempre e comunque da un bisogno di spaziare in un contesto che non fosse retorico e scontato, la spingono prima ad innamorarsi di un tipo non certo facile come John Nash, poi a sposarlo e infine a condividere con lui gran parte della sua vita.

Il suo interesse per Nash, la sua strana natura interiore, per lei era un’altra percezione della realtà, come se attraverso di lui potesse emergere quella parte di lei nascosta che trovava risposte solo nella condivisione intellettuale, oltre che spirituale. Ed in effetti Alicia ha sempre cercato di aiutare Nash, non solo materialmente, ma anche e soprattutto nel cercare di comprendere e di contrastare allo stesso tempo la sua malattia. Molto bella la scena dove lei gli fa capire di sentire non solo con la mente ma anche con il cuore, di trovare insomma le sue risposte anche al di fuori di sé, risposte che purtroppo sconfinavano in una realtà immaginaria e da qui appunto le sue allucinazioni che lo portarono alla schizofrenia.

In una realtà che diventa sempre più soggettiva per il protagonista, il ritmo si fa più accelerato, i colori si modificano sfumando dall’ocra iniziale a un grigio e poi nero, la musica diventa più tesa ma lenta, in evidente contrasto con le scene che si fanno via via sempre più drammatiche e piene di tensione.

La capacità della regia, che a una prima visione del film non risulta evidente perché, come in un gioco di puzzle risulta difficoltosa la ricomposizione, è proprio quella di fondere i vari elementi, creando quel clima di tensione e di disagio. E infatti possiamo notare come i leit-motiv cromatici, si alternano a seconda delle situazioni, per dare anche all’occhio la possibilità di compenetrare nelle varie fasi del film rimandando al cervello quelle sensazioni che il film trasmette. Nel periodo in cui Nash viene ricoverato all’ospedale, il colore muta di nuovo, e passa dal nero, che stava ad indicare appunto l’oscurità in cui era precipitato, al bianco collegato spesso alla malattia e a quello che ad essa è correlato.

Quello che apparentemente e in modo ingannevole fa presagire scene più adatte a un thriller, in realtà vogliono sottolineare quella paura e quella sensazione di pericolo che può destare la convivenza con una persona malata di schizofrenia, che spesso non conscia delle sue azioni, può essere lesiva per sé e per gli altri. Direi quindi che la scena quando Nash involontariamente sta per far annegare il bambino, esemplifica e non banalizza, sia ben chiaro, quello stato di angoscia in cui inevitabilmente ci si ritrova.

Il film si inerpica quindi verso il finale, cercando di condensare nella brevità tirannica di un film, anni di vita vissuta nella ricerca di ritrovare una dimensione reale, dove campeggia sempre e comunque quell’ innato e imprescindibile desiderio di trovare delle risposte, vedi per esempio la scena dove Nash disegna un otto con la bicicletta, sono lampi filmici che raccolgono ed evidenziano lo stato mentale del protagonista, che ritrova finalmente, grazie anche al premio Nobel che gli viene conferito nel 1994 per l’Economia, quella pace interiore forse dovuta anche a una remissione della malattia quasi miracolosa, ma probabilmente vinta anche grazie a una straordinaria forza di volontà.

Il film quindi creando questo equilibrio tra le varie parti e nel contempo rendendole funzionali per il contesto generale, si può tranquillamente dichiarare ben congegnato e strutturato, se si dovesse applicare la teoria dei giochi si potrebbe dire che il risultato è perfettamente riuscito.

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