La recensione di lucylucy - russelluccio@hotmail.com
- 23 Feb 2002
Andare a vedere un film o leggere un libro hanno un denominatore in
comune: lo stato d'animo di chi si appresta a farlo: ci sono stati tempi
in cui ho visto o letto delle terribili cavolate trovandole appetibili e
altri dove ho sconfessato dei capolavori per poi, alla distanza, fare un
doveroso autodafè.
Oggi sono andata a veder ABM con un unico, bieco proposito: godermi
Russellone, e con uno stato d'animo che, più che goliardico, era da
marines in libera uscita. Mi avrebbero potuto rifilare qualunque ciofega
tanto io ero lì per lui; certo se il film fosse stato discreto la cosa mi
avrebbe aiutato a salvarmi la faccia nei confronti di chi, gentilmente, mi
faceva da chaperon.
Dopo i primi dieci minuti di film avevo dimenticato chi era
l'interprete, completamente assorbita dalla bellissima e misurata
narrazione dalla storia, alla fine della prima ora io, che ho sempre
detestato chi piagnucola al cinema, davo libero sfogo alle lacrime,
totalmente coinvolta nel dolore dei protagonisti, nella sofferenza
tangibile che le immagini rimandavano.
Mai sopra le righe ma con intensità e quasi con una sorta di pudore.
La storia si sviluppa in maniera intensa, asciutta. Il film ti rivela la
realtà vista da Nash in modo tale da farti credere che sia vera fino alla
catarsi del momento in cui la rivelazione dell'ossessione ti lascia senza
fiato.
E' un film di dolore, di volontà e di amore e sono sentimenti questi,
al di là della storia in sè, così comuni a tutti noi che ci permettono
una chiave di lettura a molti livelli.
E Russell? Russell è semplicemente splendido: pari a tutti e superiore
a molti per dirla con Tomasi di Lampedusa. Riesce a rinchiudere e a
mortificare la sua prorompente mascolinità nei panni anonimi di Nash,
rendendo credibile ogni suo gesto, ogni suo tic, ogni risvolto del suo
carattere nel crescendo della malattia, fino all'accettazione finale della
convivenza con essa.
Dolce, tenero, indifeso, doloroso Russell: lunga vita ad un mito che,
prima di tutto, è un uomo.
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La recensione di Paola - fogliet@libero.it
- 20/03/2002
RECENSIONI A BEAUTIFUL MIND
In genere le recensioni si basano su elementi che
spesso sono fuorvianti per una lettura il più possibile obbiettiva e
lineare di un film. Mi capita spesso di vedere un film e di sottovalutarne
alcuni aspetti in favore di altri, e questo rende la percezione dell’insieme
erronea e disomogenea.
Con A Beautiful Mind ho voluto compiere un esperimento
che ho trovato interessante per capire le modalità che siano il più
possibile congeniali a una estrapolazione il più possibile oggettiva.
Trattandosi di un film su un matematico,e non su un
matematico qualunque, ma di un genio che ha basato tutta la sua vita nella
ricerca di idee nuove e innovative, ho voluto applicare il suo concetto di
equilibrio inserito in un contesto non propriamente numerico ma piuttosto
visivo come è quello di un film, dove le parti interagiscono tra di loro
e allo stesso tempo sono indipendenti l’una dall’altra, creando
appunto un equilibrio. In poche parole, il gioco consiste nella
valutazione dei vari elementi quali la sceneggiatura, la recitazione, la
regia, la colonna sonora, la fotografia, i costumi, il trucco, la
scenografia, come se fossero dei numeri che alla fine devono dare come
risultato una somma la quale non si possa in nessuna maniera contestare o
rielaborare perché inattaccabile da qualsiasi punto di vista.
Basandomi su questo modello di speculazione, abbastanza
singolare lo so, ma comunque empirico non so bene dove andrò a parare,
perché come ripeto è un esperimento, “an original idea” insomma.
I Recensione
Nella prima visione del film avevo pochi elementi in
mano, il trailer, qualche clips, e la lettura di varie recensioni. Avevo
un’idea piuttosto vaga anche della trama e quindi l’idea che mi ero
fatto era solo basata su sensazioni e congetture. E’ come se dovendo
fare una somma algebrica, mi mancassero alcuni elementi per proseguire.
Il film parla della biografia di John Forbes Nash Jr.
della sua straordinaria mente di matematico sempre alla ricerca di un’idea
originale, della sua stravaganza ed eccentricità, ma soprattutto del suo
crollo psico-fisico che lo ha precipitato negli abissi della schizofrenia
e della sua guarigione ottenuta grazie ad una straordinaria forza di
volontà. Il film si apre nei primi anni a Princeton dove Nash ha
proseguito gli studi di matematica grazie a una borsa di studio. Nella
prima immagine di Russell Crowe possiamo già evidenziare il tipo di
approccio che lui fa verso il personaggio tutto
proteso a dare risalto attraverso una serie di tic, di
ammiccamenti, di sguardi spesso fissi e vacui, della personalità di Nash.
La recitazione in genere si avvale a seconda del tipo di sceneggiatura, di
una ricerca della natura interiore e psicologica della persona a cui si fa
riferimento. Salta subito agli occhi quindi che il film è centrato
soprattutto sulla natura intrinseca di Nash, e non tanto su come egli
abbia elaborato attraverso studi complessi e a volte frustanti, teorie
matematiche.
Trovandosi quindi di fronte a queste premesse, il film
si evolve attraverso una componente primaria che è quella di raccontare
la vita del genio matematico non come una vera e propria biografia, dove
si scandaglia attimo per attimo tutto un percorso esistenziale , ma
piuttosto una analisi che tende a centrare e a focalizzare quello che la
mente di Nash percepiva del suo mondo circostante, fosse solo la cravatta
del suo compagno, per elaborarlo di conseguenza in teorie matematiche.
La prima percezione che si ha è quindi di una specie
di viaggio nel nulla, dove lo spettatore non riuscendo a cogliere( è
questo perché spesso si tende a sottovalutare alcuni aspetti di un film,
vedi per esempio la musica, dove nel caso contemplato gioca un ruolo
importantissimo) il confine tra finzione e realtà, si trova in una
situazione di smarrimento e di perplessità, e il risultato appare alla
fine banale e superficiale. In poche parole la regia appare molto fumosa e
poco credibile, concedendosi troppo a certi giochetti funzionali solo a
creare una certa suspence tipica di un thriller, piuttosto che di un film
con esiti drammatici.
La sceneggiatura da un buon risalto alla natura
complessa come quella di Nash, inserendo in modo magistrale concetti
elaborati per esprimere cose del tutto futili e semplici, emblematica è
la scena quando Nash chiede la mano ad Alicia. Questo per evidenziare
appunto come la mente di un matematico non si limita a strutturare le
frasi dando per scontata la soluzione, ma inserisce nelle stesse un
percorso complesso simile a un’equazione algebrica.
Tutto il film quindi gioca bene le sue cartucce più
importanti che sono la recitazione di Russell Crowe della Jennifer
Connelly e la sceneggiatura di Akiva Goldsman, ma nel complesso ne esce
fuori un prodotto manchevole e a tratti troppo semplicistico. La colonna
sonora però si insinua nella mente dello spettatore in modo quasi
inconscio, rilasciando nello stesso un senso di abbandono e di oniricità
che sarà il fulcro dominante per quasi tutto il film.
Notevole il trucco di Russell Crowe invecchiato, che lo
rende irriconoscibile sia come Crowe attore sia come Crowe-Nash da
giovane. Le parti quindi in gioco sono più funzionali per se stesse, ma
tendono ad annullarsi dando quindi come risultato “somma zero”.
Ovviamente questo è uno scherzo, ma nell’equilibrio di Nash, tutti i
contendenti operano per sé stessi e per il gruppo. Quindi A Beautiful
Mind, non ha raggiunto l’equilibrio che dovrebbe esserci perché la
regia tende a minimizzare il tutto creando una disarmonia che appiattisce
il contesto.
II RECENSIONE
Dopo aver visto quindi il film, ed averlo elaborato
nella mia mente, gli elementi che avevo in mano per una seconda visione
erano quindi aumentati, aggiungendo altre recensioni oltre a quelle già
lette e cosa più importante, la lettura della biografia della Nasar,
potevo tranquillamente rivedere il film concedendomi riflessioni che a una
prima visione possono inevitabilmente sfuggire.
Dall’inizio del film si può notare come il colore
giallo, che sarà il leit-motiv cromatico della prima parte, rende la
scenografia in perfetta simbiosi con il contesto generale che vanno dal
luogo dove si svolge l’introduzione del film, e cioè l’università di
Princeton, alla sceneggiatura che ricalca un certo modo di essere tipico
di quei tempi.
Siamo nella sala professori, tutti gli studenti sono
concentrati nella lezione , ma non Nash, lui il grande genio
matematico,interpretato da Russell Crowe, non si concede alla gente ,
rimane in disparte a pensare a qualche idea originale a una teoria dei
giochi che in seguito gli conferirà il premio Nobel nel 1994. Il Crowe
Nash ora brillante, ora ironico, ora arrogante, nasconde dentro di sé una
forte determinazione ma nel contempo una fragilità e vulnerabiltà che
non gli permette di relazionarsi in modo coerente con gli altri, creando
dentro di sé delle forme difensive e consolatorie, sfociando quindi nella
totale dissociazione dalla realtà, e infatti quello che inizialmente si
credeva una figura reale, e cioè il suo amico di stanza Charles
interpretato da Paul Bettany, in realtà era una delle sue allucinazioni.
La recitazione brillante e acuta di Russell Crowe, la
sceneggiatura di Goldsman scarna ma incisiva per la natura del personaggio
dove tutto è opinabile e suscettibile di variazioni e di approfondimento,
si fondono in un unico elemento che trae linfa vitale anche da una musica
che scandisce ogni attimo del film alternando sentimenti di commozione, di
paura, di forte empatia verso il personaggio. Gli altri interpreti
perfettamente inseriti nel contesto generale del film, dal suo amico
immaginario Charles, dall’agente governativo William Parcher
interpretato da Ed Harris, dal dott. Rosen interpretato da Chistopher
Plummer, vertono soprattutto a cercare di delineare una dimensione in
bilico tra l’immaginario e il reale,facendoci penetrare appieno nella
mente del protagonista. Vorrei far notare come le magistrali
interpretazioni degli attori sopra citati non sconfinano mai nel
protagonismo, ma sono legati da un unico filo conduttore per darci appunto
l’illusione di essere protagonisti noi stessi di un sogno.
Notevole l’interpretazione di Ed Harris che dietro ad
una impercettibile ironia, si insinua come uno spiritello maligno, come se
la mente del protagonista nella disperata ricerca di allontanarlo, fosse
nel contempo conscia di una inevitabile sconfitta.
La Jennifer Connelly nella parte della moglie Alicia,
ci mostra un bellissimo ritratto di donna che
si distaccava in modo sostanziale dai modelli standard
di quei tempi, una donna non solo intelligente ma anche trasgressiva e
certamente anticonformista. Per una donna la scelta di studiare matematica
a quei tempi non doveva certo essere stata una strada semplice, ma piena
di incertezze e di frustrazioni, non fosse altro per il tipo di lavoro che
avrebbe dovuto intraprendere in un universo prettamente di stampo
maschile. Le sue scelte, subordinate sempre e comunque da un bisogno di
spaziare in un contesto che non fosse retorico e scontato, la spingono
prima ad innamorarsi di un tipo non certo facile come John Nash, poi a
sposarlo e infine a condividere con lui gran parte della sua vita.
Il suo interesse per Nash, la sua strana natura
interiore, per lei era un’altra percezione della realtà, come se
attraverso di lui potesse emergere quella parte di lei nascosta che
trovava risposte solo nella condivisione intellettuale, oltre che
spirituale. Ed in effetti Alicia ha sempre cercato di aiutare Nash, non
solo materialmente, ma anche e soprattutto nel cercare di comprendere e di
contrastare allo stesso tempo la sua malattia. Molto bella la scena dove
lei gli fa capire di sentire non solo con la mente ma anche con il cuore,
di trovare insomma le sue risposte anche al di fuori di sé, risposte che
purtroppo sconfinavano in una realtà immaginaria e da qui appunto le sue
allucinazioni che lo portarono alla schizofrenia.
In una realtà che diventa sempre più soggettiva per
il protagonista, il ritmo si fa più accelerato, i colori si modificano
sfumando dall’ocra iniziale a un grigio e poi nero, la musica diventa
più tesa ma lenta, in evidente contrasto con le scene che si fanno via
via sempre più drammatiche e piene di tensione.
La capacità della regia, che a una prima visione del
film non risulta evidente perché, come in un gioco di puzzle risulta
difficoltosa la ricomposizione, è proprio quella di fondere i vari
elementi, creando quel clima di tensione e di disagio. E infatti possiamo
notare come i leit-motiv cromatici, si alternano a seconda delle
situazioni, per dare anche all’occhio la possibilità di compenetrare
nelle varie fasi del film rimandando al cervello quelle sensazioni che il
film trasmette. Nel periodo in cui Nash viene ricoverato all’ospedale,
il colore muta di nuovo, e passa dal nero, che stava ad indicare appunto l’oscurità
in cui era precipitato, al bianco collegato spesso alla malattia e a
quello che ad essa è correlato.
Quello che apparentemente e in modo ingannevole fa
presagire scene più adatte a un thriller, in realtà vogliono
sottolineare quella paura e quella sensazione di pericolo che può destare
la convivenza con una persona malata di schizofrenia, che spesso non
conscia delle sue azioni, può essere lesiva per sé e per gli altri.
Direi quindi che la scena quando Nash involontariamente sta per far
annegare il bambino, esemplifica e non banalizza, sia ben chiaro, quello
stato di angoscia in cui inevitabilmente ci si ritrova.
Il film si inerpica quindi verso il finale, cercando di
condensare nella brevità tirannica di un film, anni di vita vissuta nella
ricerca di ritrovare una dimensione reale, dove campeggia sempre e
comunque quell’ innato e imprescindibile desiderio di trovare delle
risposte, vedi per esempio la scena dove Nash disegna un otto con la
bicicletta, sono lampi filmici che raccolgono ed evidenziano lo stato
mentale del protagonista, che ritrova finalmente, grazie anche al premio
Nobel che gli viene conferito nel 1994 per l’Economia, quella pace
interiore forse dovuta anche a una remissione della malattia quasi
miracolosa, ma probabilmente vinta anche grazie a una straordinaria forza
di volontà.
Il film quindi creando questo equilibrio tra le varie
parti e nel contempo rendendole funzionali per il contesto generale, si
può tranquillamente dichiarare ben congegnato e strutturato, se si
dovesse applicare la teoria dei giochi si potrebbe dire che il risultato
è perfettamente riuscito.
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