PARTE PRIMA
1 - IL MERCATO DEGLI SCHIAVI
La calura intorno a lui era pesante ed oppressiva, molto diversa dal
clima freddo e umido a cui si era abituato in Germania. L’aria era
spessa, calda e polverosa e questo gli causava problemi a respirare. Non
che gliene importasse più di tanto: era così debole e febbricitante che
anche tenere la testa alta costituiva per lui uno sforzo sovrumano.
Il mercato degli schiavi che lo circondava brulicava di attività, come
un esercito prima di una battaglia decisiva, ma gli odori e i rumori a
stento penetravano la sua mente intontita dal dolore.
Gli occhi di Massimo erano fissi su di un punto molto lontano dal posto
dove si trovava, e la mancanza di luce nelle sue pupille verdazzurro
rifletteva il vuoto che provava nell’anima e nel cuore. La sua famiglia
non c’era più, il suo imperatore non c’era più, la sua vita non c’era
più…Adesso era uno schiavo senza diritti e senza alcun controllo sul
proprio destino, ma non gliene importava niente. Se avesse avuto fortuna,
la sua vita avrebbe avuto termine entro breve, permettendogli di
ricongiungersi a sua moglie e a suo figlio nell’altra vita. Quella era
la sua sola speranza.
Due uomini si avvicinarono ai pali a cui gli schiavi erano incatenati e
Massimo riconobbe in uno di loro colui che l’aveva catturato. Il
trafficante di schiavi stava decantando le doti del suo lotto,
specialmente quelle del giovane numida che aveva salvato la vita di
Massimo, prendendosi cura della sua ferita durante la lunga traversata nel
deserto. L’altro uomo era alto e grosso, con la barba grigia e indossava
abiti neri. Stava ascoltando il suo interlocutore con un orecchio solo,
intento com’era a trarre le proprie conclusioni in merito agli schiavi
che andava esaminando.
Alla fine i due giunsero vicino a Massimo e l’acquirente premette la
ferita coperta di larve di mosche con la punta di un bastone. Il dolore
gli saettò al cervello, ma Massimo non reagì: non aveva abbastanza
energie per farlo.
“Il marchio delle legioni,” commentò l’uomo vestito in nero
vedendo il suo tatuaggio con la scritta SPQR. “Un disertore?”
Massimo non rispose.
“Può essere,” rispose il trafficante beduino, “Ma che importa? E’
un ispanico.”
“Uhm…Ne prendo sei per mille sesterzi.”
“Mille sesterzi?!? Il numida, da solo, ne vale almeno duemila!”
protestò il mercante di schiavi.
L’altro si allontanò da lui e, passando, spinse avanti la testa di
Massimo, “I tuoi schiavi sono ridotti male.”
“Questo aggiunge sapore alla lotta.”
L’acquirente se ne stava andando e il beduino aggiunse, velocemente,
“Aspetta! Aspetta! Aspetta! Possiamo trattare.”
“Te ne darò duemila e quattromila per le bestie. Fanno cinquemila
per un vecchio amico.”
Massimo ascoltò la conversazione come se si stesse svolgendo lontano
da lui e non lo riguardasse affatto. Infine, i due uomini tornarono
indietro e quello con la barba grigia cominciò a urlare ordini ai
servitori che lo seguivano.
“Prendete questo, questo e quest’altro.” disse indicando gli
schiavi e i suoi servi si affrettarono ad aprire i lucchetti delle catene
che tenevano i nuovi acquisti legati ai pali. Uno di loro armeggiò con le
catene di Massimo, ma la voce del padrone lo bloccò.
“Lascialo stare. Quella ferita può ancora ucciderlo prima che io
possa mandarlo nell’arena e non ho denaro da sprecare. Prendi l’altro.”
Massimo osservò con gli occhi semichiusi gli altri schiavi che
venivano condotti via, incluso il giovane numida che lo aveva aiutato, e
trovò dentro di sé la forza di domandarsi cosa il destino avesse in
serbo per lui.
2 - OTTAVIA
Ottavia stava camminando nel mercato degli schiavi, cercando di non
rammentare le sue passate esperienze in posti come quello. Non aveva
importanza il fatto che lei fosse ora una donna libera, il ricordo
orribile dello smembramento della sua famiglia e delle ispezioni
degradanti a cui era stata sottoposta la tormentava ancora.
La giovane ventiduenne stava visitando il mercato alla ricerca di un
uomo che potesse aiutarla nel disbrigo dei lavori più pesanti, nel podere
che possedeva poco fuori città. Sin dalla morte di suo marito, aveva
potuto contare sull’aiuto di un bracciante di condizione libera, che
però l’aveva lasciata di recente, avendo ricevuto l’offerta di un
lavoro migliore, e gli altri suoi lavoratori erano troppo anziani per
assumersi anche quell’impegno.
Era il tardo pomeriggio e Ottavia comprese che gli schiavi migliori
erano già stati venduti, tant’è vero che poteva vedere solo dei
ragazzini denutriti e qualche vecchio coperto di piaghe, troppo deboli per
i compiti che intendeva assegnargli.
All’improvviso i suoi occhi furono attirati dalla sagoma robusta di
un uomo più giovane, incatenato nel bel mezzo di un’area completamente
vuota. Mosse nella sua direzione e gli si fermò di fronte.
Notò subito che aveva la febbre ed un’orribile ferita, ma vide anche
quanto fossero muscolose le sue braccia, spalle e schiena. Poteva essere
lui l’uomo che andava cercando, se il suo prezzo non fosse stato troppo
alto.
“Posso aiutarti, signora?” le domandò il mercante,
che aveva notato l’interesse della bella ragazza.
“Quanto vuoi per lui?”
“Quattrocento sesterzi.”
Ottavia strizzò gli occhi e controbatté, “Trecento.”
Il beduino incrociò le braccia sul petto, lanciò un altro sguardo al
suo schiavo e disse, “Trecentocinquanta. Non uno di meno.”
La donna ci pensò per alcuni istanti, quindi annuì, “D’accordo.”
E tirò fuori una piccola borsa di cuoio piena di monete.
Il trafficante sorrise soddisfatto: era riuscito a liberarsi d’uno
schiavo malato guadagnando più di quel che avesse sperato! Certo, se
quell’uomo fosse perfettamente guarito dalla ferita, avrebbe finito con
il valere molto di più di trecentocinquanta sesterzi, ma era un grosso
“SE”…Preferiva avere un uovo oggi che una gallina domani.
Ottavia porse il denaro al mercante, che lo contò. Quando ebbe
terminato, egli annuì e chiese, “Debbo aiutarti a portarlo a casa, mia
signora? Non ho altri schiavi da vendere, potrei accompagnarti.”
Ottavia guardò il suo nuovo acquisto e disse, “Grazie,
ma non è necessario.”
“Come desideri.” Il beduino aprì il lucchetto e tolse la catena
dal palo, offrendone un’estremità a Ottavia. “Alzati, Ispanico, e va’
con la signora. Sii un buon lavoratore, non voglio sentire lamentele a
proposito della mia mercanzia!” L’uomo sghignazzò e mollò una pacca
sulla schiena dello schiavo, abbastanza forte da sbatterlo quasi a terra.
Ottavia guardò preoccupata l’Ispanico barcollare, quindi, tirando
leggermente la catena, lo guidò fuori dalla piazza del mercato, fino al
luogo dove il suo carretto li stava aspettando
3 - UN NUOVO DOVERE
Massimo si svegliò sentendo un gallo cantare molto vicino a sé. Aprì
gli occhi e si guardò intorno. Grazie alla luce che entrava da una
piccola feritoia, vide che si trovava in una stanzetta arredata con
semplicità ma pulita. Udì un tintinnio di chiavi e il suo sguardo si
spostò in direzione dell’uscio che si trovava di fronte al pagliericcio
dov’era sdraiato. La porta si aprì e una snella figura entrò nella
stanza, avvicinandosi a lui.
“Ispanico,” disse una voce femminile, “Che piacere vederti
sveglio! Spero che tu stia meglio.”
Massimo annuì con rispetto, riconoscendo la giovane che lo aveva
acquistato al mercato degli schiavi diversi, e si domandò distrattamente
quanti fossero, giorni prima. Lei si chinò su di lui, gli esaminò la
piaga, che adesso era pulita e sorrise soddisfatta, “Sei tornato come
nuovo.”
Massimo si mise a sedere con qualche difficoltà, ma senza la nausea e
i capogiri dei giorni precedenti e mormorò piano, chinando la testa, “Domina,
ti ringrazio della tua gentilezza.”
Lei gesticolò, “Ho bisogno che tu sia presto in piedi…Hai qualche
esperienza di lavoro nei campi?”
Massimo impallidì mentre gli tornarono alla mente le immagini del suo
podere a Trujillo, quindi annuì, “Sì, signora.”
“Bene, sembra proprio che tu sia proprio ciò di cui avevo bisogno.”
Si alzò e soggiunse, “Oggi ti lascio riposare: comincerai a lavorare da
domani.”
Massimo chinò la testa ancora una volta, poi la guardò allontanarsi e
lasciare la stanza. Quando si ritrovò nuovamente solo, cominciò a
riflettere sulla sua situazione. Era chiaro che la giovane dai lunghi
capelli neri e gli occhi castani l’aveva comprato per aiutarla nella sua
fattoria, forse una delle piccole proprietà che lui aveva visto arrivando
a Zucchabar. Massimo sospirò rassegnato, non perché il prospetto di
dover lavorare fosse così terribile, ma perché il suo senso del dovere,
che aveva creduto morto e sepolto con il resto della sua vita, stava
tornando in lui. Sapeva che la donna aveva speso una discreta somma per
acquistarlo e, nonostante il suo cuore spezzato non desiderasse altro che
raggiungere la sua famiglia nei Campi Elisi, la sua testa e la sua
coscienza gli ingiungevano di vivere, per ripagare la donna che l’aveva
curato e che contava sul suo aiuto. Non gli piaceva, ma non aveva scelta.
*****
Ottavia chiuse la porta, ma non a chiave. In cuor suo sapeva che l’Ispanico
non avrebbe tentato di scappare e non solo a causa della sua debolezza:
era qualcosa che lei gli aveva letto negli occhi… Ottavia scosse la
testa: doveva essere prudente, perché la sua natura fiduciosa aveva
spesso fatto sì che gli altri ne approfittassero, ma sapeva che non
avrebbe mai potuto dimostrarsi una cattiva padrona. Aveva sofferto molto a
causa di proprietari crudeli, finché suo marito non l’aveva comprata e
riscattata, e non si sarebbe comportata come loro. L’Ispanico le era
piaciuto fin dal principio, ed ancora più mentre si era occupata di lui
durante il suo delirio. Era un uomo forte e, malgrado non sapesse come
fosse finito schiavo, era certa che quell’ex soldato non fosse un
disertore. I suoi occhi erano troppo onesti.
Un grido di gioia la stappò alle sue riflessioni. “Mamma!”
Ottavia voltò la testa e sorrise, vedendo sua figlia Marzia correrle
incontro. La piccola le si avvicinò e, tirandola per la tunica, esclamò,
“Ho fame, mamma! Voglio la mia merenda!”
Ottavia carezzò con la mano la capigliatura bruna della bambina e
disse, “Quante volte ti ho detto che non devi usare continuamente la
parla “voglio”. Devi dire: “posso avere la mia merenda, per favore?””
Marzia abbassò gli occhi e brontolò, “Posso avere la mia merenda,
per favore?”
Ottavia sorrise e disse, “Certamente cara. Vieni con me.”
E madre e figlia scomparvero lungo il corridoio.
4 - MARZIA
Massimo si asciugò il sudore dalla fronte con l’avambraccio e
guardò il recinto che aveva appena finito di riparare. Si fermò un
attimo a riposare ed un sorriso soddisfatto gli comparve sulle labbra,
illuminandogli brevemente lo sguardo. Udì un rumore provenire da dietro
di lui e, girandosi, si accorse che si trattava della padrona. “Domina,”
la salutò con rispetto.
Ottavia trattenne a stento uno sbuffo: gli aveva detto centinaia di
volte che non voleva essere chiamata in quel modo, ma sembrava che l’Ispanico
da quell’orecchio rifiutasse di sentirci.
“Hai fatto un ottimo lavoro, come al solito.” Si complimentò,
ammirando il suo operato.
Massimo non le rispose, limitandosi ad inchinare la testa.
Ottavia gli andò vicino, ammirando con lo sguardo il petto nudo e le
braccia muscolose. Lo spietato sole africano gli aveva abbronzato la pelle
e schiarito la capigliatura e la barba ben curata, e lei si disse da sé
sola, “Dei, quanto è bello…”
Già da mesi si era resa conto che i sentimenti che provava per quell’uomo
forte e taciturno erano ben diversi da quelli che avrebbe dovuto avere per
uno schiavo, ma era sola da così tanto tempo…Ottavia gli osservò il
viso e, per l’ennesima volta, sentì il desiderio di accarezzarglielo, e
far svanire la malinconia che sembrava aleggiare in fondo ai suoi occhi
verdazzurro. Scacciò via quei pensieri e gli disse, “Vieni con me, ho
bisogno di sentire il tuo parere a proposito di una certa faccenda.”
Massimo annuì e la seguì a qualche passo di distanza, come il suo
status di schiavo richiedeva. Ottavia roteò gli occhi, poiché quella era
un’altra pratica che detestava, ma non commentò.
Mentre stavano percorrendo il sentiero polveroso che conduceva dai
campi alla casa, Massimo si trovò a ripensare alla sua vita nell’ultimo
anno ed al cambiamento che era avvenuto dentro di sé. Agli inizi, quando
aveva cominciato a lavorare presso il podere, l’aveva fatto solo per un
senso di dovere e responsabilità, svolgendo il suo compito meglio che
poteva, ma senza metterci il cuore. Tuttavia lentamente, senza che se ne
rendesse conto, aveva abbandonato la sua prigione di pena e di dolore, e
aveva ripreso un’altra volta a vivere. Aveva fatto amicizia con gli
altri lavoranti, un uomo e due donne molto più vecchi di lui, e ad
eseguire il suo lavoro con passione, proponendo e realizzando migliorie
alle colture. La padrona gli aveva assegnato incarichi di sempre maggiore
responsabilità e lui li aveva accettati con piacere, soddisfatto di
potersi rendere utile.
Una voce che lo chiamava attrasse l’attenzione di Massimo ed egli
sorrise vedendo Marzia, la figlioletta di Ottavia, il piccolo terremoto di
quattro anni che gli aveva preso il cuore dal primo istante in cui l’aveva
conosciuta.
“Ispanico!” gridò la bambina correndogli incontro e Massimo si
chinò, pronto a ricevere il suo abbraccio.
Ottavia osservò il suo gigante buono, come lo aveva soprannominato
lei, prendere la piccola tra le braccia e farla piroettare in aria,
provocando la sua allegra risata. Marzia non conservava ricordo del padre,
morto quando lei non aveva ancora imparato a camminare, e Ottavia era
felice del suo legame con quell’uomo, il suo grande amico, come lei lo
chiamava. Di fatto, la bambina era stata la prima a rompere il muro di
silenzio e solitudine nel quale l’Ispanico era vissuto dal momento del
suo acquisto, avvicinandosi a lui una sera, mentre stava cercando di
nutrire un vitellino la cui mamma era morta. Con la sua innocente
curiosità, Marzia era stata in grado di provocare una reazione nel
coriaceo ex soldato e da quel momento, l’affetto tra la bimbetta e l’adulto
era cresciuto ed era diventato sempre più profondo. A volte, Ottavia
provava un irrazionale sentimento di gelosia per le attenzioni che sua
figlia riceveva da quell’uomo tanto attraente…Avrebbe voluto che
guardasse anche lei con gli stessi occhi dolci, come stava facendo in quel
momento, mentre ascoltava Marzia.
“Dove vai?” domandò la bambina, le braccia strette intorno al
collo dell’uomo.
“Non lo so, padroncina. Sto seguendo tua madre.”
Marzia si voltò verso la madre e le chiese, “Posso venire con voi?”
“Certo.”
“Bene,” sussurrò la piccola, sistemandosi confortevolmente in
braccio al suo grande amico.
I due adulti si scambiarono un sorriso, poi continuarono a camminare.
Dopo pochi minuti raggiunsero dopo pochi minuti la stalla, dove un uomo
che Massimo non aveva mai visto prima li stava aspettando vicino a un bel
cavallo dal mantello sauro. Massimo si voltò verso la padrona, inarcando
un sopracciglio con aria interrogativa e lei disse, “I nostri vicini
hanno bisogno di soldi per fare la dote alla figlia così hanno deciso di
metterlo in vendita. Poiché hanno bisogno del denaro subito, non possono
aspettare e portarlo alla fiera, perciò mi hanno chiesto se mi
interesserebbe comprarlo. Vorrei che tu lo esaminassi e mi dessi la tua
opinione.”
Massimo annuì, posò a terra Marzia e si avvicinò al cavallo, facendo
leggeri rumori con la lingua. Gli accarezzò il collo muscoloso, quindi si
chinò ed controllò con cura i tendini e gli zoccoli, toccando e
palpando, flettendo le giunture per essere certo che non fossero
doloranti. Quindi gli osservò gli occhi, la bocca, e ne ascoltò il
respiro e il battito cardiaco. Quando ebbe terminato, ritornò da Ottavia
che lo guardava ammirata.
“Signora, il cavallo è sano e potrà diventare, in un prossimo
futuro, un ottimo stallone da monta. Ti consiglio di acquistarlo.”
“Mi hanno detto che non è ancora stato domato e so che ci vuole
parecchio denaro per farlo…Non sono certa di potermi sobbarcare le spese
dell’acquisto e quindi di poter pagare anche un addestratore.”
Massimo sorrise, “Lo domerò io, signora.”
Il cuore balzò in petto ad Ottavia, quando lo vide sorridere. Non
appena ebbe riacquistato il controllo disse, con un po’ di meraviglia,
“C’è qualcosa che tu non sappia fare, mio Ispanico?” E prima ancora
che lui potesse aprir bocca, si avvicinò al venditore e gli lo pregò di
portare il puledro nella stalla, visto che intendeva acquistarlo.
Marzia afferrò la mano di Massimo e, quando lo vide guardare giù,
chiese di essere sollevata. Lui ubbidì e quando lei fu tra le sue
braccia, disse, “E’ così bello, quel cavallo…”
Lui le sorrise è replicò, “Certo che lo è.”
“Quando sarò un po’ più grande, mi insegnerai a cavalcare?”
Il sorriso di Massimo si spense a quelle parole, le stesse che gli
aveva detto suo figlio e che gli ritornarono alla mente…Anche Marco gli
aveva chiesto d’insegnargli a cavalcare, ma lui non aveva mai avuto l’occasione
di poterlo fare. L’ex generale ricacciò indietro le lacrime e cercò di
mantenersi calmo, inghiottendo il groppo che gli serrava la gola, “Certo
che ti insegnerò, padroncina.”
Marzia sorrise e, schioccandogli un bacio sulla ruvida guancia, disse
“Grazie, Ispanico…Ti voglio tanto bene.”
“Anch’io te ne voglio, padroncina,” replicò lui mentre le
lacrime minacciavano ancora di sgorgargli dagli occhi. Ma questa volta
erano lacrime di gioia, perché sapeva che quelle parole erano
assolutamente sincere. Aveva creduto che non avrebbe mai più provato
amore per qualcuno dopo aver scoperto i suoi cari assassinati, ma quella
bimbetta aveva operato un miracolo, e le era davvero grato di questo,
perché grazie a lei aveva davvero ripreso a vivere invece di vegetare in
attesa della morte.
5 - L’INCIDENTE
Era una bellissima mattina di primavera e Massimo, Ottavia e Marzia
approfittarono della temperatura piacevole per visitare la fiera di
Zucchabar. Ottavia voleva dare un’occhiata alle stoffe per confezionarsi
alcuni vestiti e Massimo aveva bisogno di certi attrezzi per i suoi lavori
nei campi. Marzia invece voleva solo stare un po’ con sua madre e con il
suo adorato grande amico. Mentre passeggiavano per la fiera, molte persone
si voltarono a guardarli, credendoli una qualsiasi famigliola felice.
Massimo sembrava cieco alle occhiate che ricevevano dalle altre persone,
intento com’era ad ascoltare gli entusiastici commenti di Marzia, ma
Ottavia notò il modo in cui parecchie matrone osservavano il suo Ispanico
che, vestito d’una semplice tunica marrone chiaro, si muoveva con grazia
con la bimba in braccio. Ottavia gli andò più vicino e, possessiva, gli
posò una mano sull’avambraccio. Massimo lanciò un’occhiata di
straforo in sua direzione. Già da tempo l’ex soldato aveva scoperto
come i suoi sentimenti nei riguardi della padrona fossero cambiati, e non
sapeva cosa fare. Una parte di lui si sentiva colpevole perché credeva di
tradire la memoria di sua moglie, ma l’altra parte non poteva fare a
meno di notare il modo in cui Ottavia camminava e sorrideva, o quanto
scintillassero i suoi occhi o, ancora, quanto fosse armoniosa la curva suo
del seno. Inoltre era una madre meravigliosa e una competente, scrupolosa
amministratrice del suo piccolo podere… Massimo sospirò in silenzio,
scacciando via quei pensieri ed assaporando la carezza della mano di lei
sul proprio braccio nudo
Appena raggiunta una bancarella di vestiti, Ottavia si mise a frugare
in mezzo a tessuti di cotone, lino e seta esaminandoli con occhio
competente, mentre Marzia si dava da fare per “aiutarla”.
Per una ventina di minuti, Massimo rimase al loro fianco in silenzio,
finché Ottavia non notò la sua aria rassegnata e con un caloroso sorriso
lo invitò a recarsi all’osteria in fondo alla strada dove si sarebbero
fermati a mangiare. Massimo annuì con gratitudine e lasciò il mercato.
La taverna era piccola e fresca. Massimo si accomodò ad un tavolo e si
perse nei suoi pensieri, aspettando Ottavia e Marzia. L’oste gli si
avvicinò, poiché che non c’erano altri avventori, e i due cominciarono
a chiacchierare.
Pochi minuti dopo, Ottavia entrò nel locale gridando, “Ispanico!”
Massimo si voltò subito, si alzò in piedi quindi, notando la sua
espressione ansiosa, “Domina?”
“Ispanico, Marzia è scomparsa!” disse lei, terrorizzata.
“Cosa?!”
“Era con me al mercato, ma dopo che ho pagato mi sono accorta che non
era lì…Che cosa facciamo?”
Massimo si sforzò di rimanere calmo e replicò, “Non dovrebbe essere
andata lontano. Dividiamoci, e cerchiamola.”
Ottavia annuì e si tranquillizzò un poco, tanta era la fiducia che
nutriva nei riguardi di quell’uomo. Pochi istanti dopo, schiavo e
padrona lasciarono la taverna e si incamminarono, prendendo direzioni
diverse.
Massimo si fece largo tra la folla che si ammassava nelle strade,
movendo gli occhi a destra e a sinistra, scrutando ogni luogo, fermandosi
ad osservare ogni faccia infantile che vedeva.
Dopo circa un quarto d’ora di metodica ricerca, scorse Marzia
passeggiare sola e spaventata nell’area della fiera prospiciente il
mercato del bestiame. Sospirò di sollievo e si diresse rapido verso di
lei, sperando che la bambina non si dileguasse di nuovo. L’aveva quasi
raggiunta, quando percepì un movimento alla sua destra. Si voltò e vide
una biga correre veloce in direzione di Marzia. Era evidente che l’auriga
aveva perso il controllo dei suoi animali e non era in grado di fermarli.
Massimo cominciò a correre, spingendo via la gente che gli bloccava la
strada, gridando agitato all’indirizzo della bambina, “Marzia,
spostati!” Ma con tutto il rumore che li circondava, la bambina non lo
sentì e continuò ad osservare un agnellino legato lì vicino.
Massimo raggiunse Marzia e l’afferrò, togliendola dalla traiettoria
della biga, ma non fece in tempo a scansarsi. Sentì gli zoccoli di uno
dei cavalli abbattersi sulla sua gamba destra, provocandogli una
lancinante fitta di dolore, ma continuò a rotolare via, tenendo con sé
la bambina. Con il fiato mozzo, si sedette e controllò se Marzia fosse
ferita. Stava bene, grazie al cielo era solamente spaventata. Massimo
provò ad alzarsi, ma la gamba destra non resse il peso del suo corpo, ed
egli cadde a terra. Si guardò l’arto e vide che formava, con il
ginocchio, un’angolazione anormale. Imprecò sotto voce mentre Marzia
gli gettava le braccia al collo, il corpo premuto contro il suo per
cercare in lui conforto alla paura. Massimo abbracciò forte la bambina
per calmarla, sperando che Ottavia arrivasse presto.
Attratta dalle urla della folla, Ottavia raggiunse l’area dove aveva
luogo il mercato del bestiame. Vide che molte persone si erano riunite
assieme ad osservare qualcosa e decise di chiedere informazioni.
“Che cosa è accaduto?” chiese a un’altra donna.
“Oh, c’è stato un incidente. Una bambina stava per essere travolta
da una biga, ma un uomo l’ ha salvata. Però è rimasto ferito…Qualcuno
ha chiamato un medico… Sarà qui al più presto.”
Un orribile presentimento attraversò la mente di Ottavia mentre
ascoltava e, rapida, si fece largo tra la folla, vedendo finalmente con i
suoi occhi quello che già sapeva avrebbe visto.
L’Ispanico e Marzia erano seduti fianco a fianco sulla strada
polverosa, la faccia di lui contorta in una smorfia di dolore, le manine
di lei che gli accarezzavano le braccia per confortarlo.
Ottavia si precipitò verso di loro e li raggiunse. “Come ti senti?”
domandò, l’espressione preoccupata, mentre prendeva Marzia tra le
braccia.
“Sono stato meglio,” rispose Massimo cercando di volgerla in
battuta.
Fu allora che un uomo ben vestito ed una borsa di cuoio si avvicinò
loro.
“Sono un medico, ”si presentò, “ Sono venuto ad aiutarti.”
“Sì,” annuì Ottavia sollevata, “Per favore, signore, aiutalo.
Il prezzo del tuo servizio non ha importanza.”
L’uomo fece un cenno d’assenso con la testa e, con mani gentili ed
esperti, esaminò la gamba di Massimo. “Uhm…,” commentò stringendo
le labbra.
“Allora?” domandarono a una sola voce Massimo e Ottavia.
“La gamba è fratturata appena sotto il ginocchio. Sfortunatamente, i
due tronconi dell’osso non sono allineati.”
“Che puoi fare? Puoi aiutarlo?” Chiese ansiosa Ottavia.
“Certo, posso ricomporre l’osso ma il lavoro va fatto subito. Vi
invito ad aspettarmi qui, mentre torno al mio studio a prendere bende e
assicelle di legno. Al mio ritorno, metterò a posto l’osso e steccherò
la gamba.” Il medico smise di parlare, guardò un attimo il suo paziente
e la donna e, al loro cenno di assenso se ne andò via veloce.
Marzia si avvicinò a Massimo e, con la sua vocina, gli chiese, “Va
tutto bene?”
“Certamente!” rispose lui per rassicurarla, anche se in cuor suo
non era così sicuro… Aveva visto parecchie gambe rotte, durante il suo
servizio lungo la frontiera del nord, e sapeva che le ginocchia erano
molto delicate. Massimo sentì piccole labbra posarsi sulla sua pelle e
vide Marzia china sul suo ginocchio ferito. “Mamma dice che un bacino
manda via il dolore e io volevo vedere se funziona anche con te.”
Massimo avrebbe voluto aprir bocca per risponderle, profondamente
toccato da quel gesto innocente, ma il ritorno del medico glielo impedì.
L’uomo si avvicinò, porse bende e stecche a Ottavia, quindi si
concentrò su Massimo.
“Ti farò molto male,” gli disse, “forse dovresti avere qualcosa
da mordere.”
Massimo annuì e il medico gli diede un bel pezzo di stoffa che aveva
tirato fuori dalla sua borsa. Massimo se lo mise in bocca, si posizionò,
ed assentì: era pronto.
Il medico mise entrambe le mani a lato del ginocchio del suo paziente e
spinse.
Una terribile fitta di dolore percorse l’intero corpo di Massimo che
si irrigidì, prima di perdere i sensi e crollare tra le braccia di
Ottavia.
6 - LIBERTA’
Dieci giorni dopo, Massimo sedeva nel piccolo cortile della villa con
la gamba fasciata poggiata su una pila di cuscini. In mano, aveva una
pietra che stava usando per affilare le lame di alcuni tra coltelli e
falci. Se ne stava tranquillo a rimuginare tra sé, felice che il pulsare
all’arto fratturato fosse scomparso. Un’ombra oscurò il sole e
Massimo alzò la testa, incrociando con il suo sguardo quello di Ottavia.
Sorrise e inchinò la testa nel salutarla, “Domina.”
Ottavia gli restituì il sorriso, si sedette su una panca accanto a lui
e disse, “Smetti di lavorare per un attimo, ho qualcosa d’importante
per te.” Lui posò i suoi arnesi e la guardò con curiosità. La voce di
lei era risuonata un po’ strana alle sue orecchie.
Ottavia si schiarì la gola, quindi disse, “Dammi le mani.”
Lui ubbidì e lei posò un rotolo e una piccola borsa di cuoio sui
palmi aperti. Quindi lo stupì schiaffeggiandolo sulla guancia. Lui alzò
su di lei uno sguardo sorpreso e vide che c’erano lacrime negli suoi
occhi della donna…Che stava succedendo?
Ottavia sorrise gentilmente alla sua espressione sconcertata e disse,
“Dopo che avrai letto il papiro, tutto ti sarà chiaro.” Si interruppe
un po’, quindi riprese, “Ho detto allo scriba di intestarlo all’Ispanico,
perché non mi hai mai detto qual è il tuo vero nome.”
Più curioso che mai, Massimo fece come lei gli aveva detto, aprì il
rotolo e lo lesse in fretta. Il respiro gli si fermò in gola quando
finalmente comprese… Il documento, il tradizionale schiaffo sulla
guancia, le monete nella borsa…Ottavia lo aveva di nuovo reso libero!
Alzò la testa e mormorò, “Grazie, domina… Non ho parole per
esprimerti ciò che significa per me.”
“Era il minimo che potessi fare per te… Hai salvato mia figlia e
sono io che non ho parole per ringraziarti per quello che hai fatto.”
Massimo guardò la borsa che aveva sul palmo della mano e Ottavia
seguì il suo sguardo.
“Questi soldi dovrebbero essere sufficienti a pagare il tuo viaggio
in Spagna.”
Massimo alzò la testa, “Vuoi che me ne vada?”
“Certo che no, ma pensavo avresti voluto tornare alla tua terra d’origine…
e
alla tua famiglia.” Aggiunse lei esitante, ricordando i nomi che gli
aveva sentito urlare nel delirio della febbre.
Massimo scosse la testa, “Non ho ragione di tornare in Spagna. La mia
famiglia è morta… la mia casa distrutta.”
“Mi dispiace,” disse lei, adirata con se stessa per avergli causato
tutta quella tristezza. Quello avrebbe dovuto essere un giorno pieno di
gioia per lui, e lei non voleva rovinarglielo.
“Se non ti dispiace, vorrei rimanere qui e lavorare per te. So che
con tutta probabilità rimarrò zoppo per tutta la vita, ma potrei ancora
esserti utile.”
Oh no, pensò lei, lui aveva interpretato il riferimento al viaggio
come un modo per dirgli che non lo voleva più nella fattoria! Era
arrivato il momento, decise, di manifestargli i propri sentimenti. Ottavia
scivolò giù dalla panca e si inginocchiò vicino alla sedia dove se ne
stava seduto. “Ispanico,” gli disse, “ti terrei qui anche se tu
avessi solo una gamba… un braccio o un occhio. Non capisco come sia
successo e so che forse non è il momento giusto per dirtelo ma… ma ti
amo. Ti amo da tanto tempo e non voglio perderti.” E chinò il capo in
attesa di una risposta.
Il cuore balzò in petto a Massimo, quando udì quella confessione… Lei
lo amava! E lui amava lei… C’era voluto molto tempo per ammetterlo con
se stesso, ma adesso ne era certo. Non avrebbe mai dimenticato la sua
defunta moglie e suo figlio, ma ora amava Ottavia. Ruotò su se stesso e
le prese il mento con la mano, costringendola a sollevare la testa e a
guardarlo negli occhi.
“Anch’io ti amo, già da qualche tempo, ma fino ad oggi non ho
potuto esprimerti i miei sentimenti.” disse lui, quindi sorrise, notando
l’espressione raggiante che le si era dipinta sul viso.
“Davvero? Mi ami veramente?”
“Sì, certo, ti amo. Dopo la morte di mia moglie e di mio figlio,
credevo che mai più mi sarei innamorato… Infatti, desideravo solo morire
e raggiungerli nell’aldilà. Ma poi ho incontrato te e Marzia; voi avete
dato un nuovo scopo alla mia vita, e adesso voglio solo restare qui,
occuparmi di voi, rendervi felici.” Si fermò per alcuni istanti poi
aggiunse,con la massima serietà, “Vuoi sposarmi, Ottavia?”
Gli occhi di Ottavia si spalancarono per la sorpresa, quindi gridò,
“Sì! Centomila volte sì!”
Massimo le sorrise gentilmente. “Una è più che sufficiente.”
scherzò, quindi batté la mano sulla coscia e le disse, “Vieni qui.”
Ottavia si alzò da terra e gli si sedette con delicatezza in grembo, ben
attenta a non poggiare il peso del corpo sulla sua gamba ferita.
Lui mise le braccia intorno alla schiena e l’attirò contro il suo
petto, stringendola forte. Rimasero così qualche istante, quindi lui
allentò la stretta, le sollevò il mento e chinò la testa a baciarla. Il
bacio fu dolce, esitante in un primo momento, ma subito dopo divenne
passionale e selvaggio, come se l’amore a lungo nascosto avesse assunto
il controllo dei loro corpi. Infine si separarono, respirando
affannosamente, un largo sorriso dipinto sui visi. Ottavia sospirò,
felice, e mormorò, “Ma come baci bene, Ispanico…”
Lui sorrise e disse, “Massimo”
“Cosa?”
“Il mio nome è Massimo. Massimo Decimo Meridio per la precisione.”
“Massimo…” ripeté lei quasi assaporando il suono di quella
parola, “Mi piace: un grande nome per un grande uomo.” Lui le sorrise
ancora, prima di baciarla un’altra volta.
PARTE SECONDA
7 - NOTIZIE SPIACEVOLI
Massimo posò le braccia sulla staccionata e ci mise sopra il mento,
mentre ammirava in silenzio il puledro nero che trotterellava dentro lo
spazio recintato. Al suo fianco, un elegante ciccione continuava a
saettare lo sguardo da Massimo al cavallo.
Infine l’uomo domandò con ansia, “Allora, Ispanico, che te ne pare
del mio Bucefalo?”
Lo sguardo dell’Ispanico lasciò il cavallo per soffermarsi sul suo
interlocutore. “E’ una vera bellezza, Proconsole: ha una splendida
testa, gambe eleganti e groppa robusta,” replicò, astenendosi dal fare
commenti a proposito della scarsa fantasia del grassone nello scegliere i
nomi.
Il politicante s’illuminò compiaciuto, udendo le lodi che il miglior
esperto di cavalli di tutta la provincia stava riservando all’animale.
“Pensi di riuscire a domarlo per la fine del mese prossimo?”
Massimo rifletté per qualche istante, quindi annuì, anche se non era
affatto sicuro che quel puledro spiritato fosse il destriero adatto per un
cavaliere così fuori forma.
Il Proconsole sospirò soddisfatto e commentò, “Sono intenzionato di
farne omaggio al nostro Cesare…”
Intendendo la parola “Cesare” Massimo sentì tutto il sangue
defluirgli dalla faccia, ma grazie alla sua abbronzatura, il Proconsole
non lo notò e continuò tranquillamente a parlare, “…si è imbarcato
per un lungo viaggio nelle province africane e giusto ieri ho avuto l’annuncio
che egli sarà qui verso la fine di ottobre. Non è una bellissima
notizia? Io spero che la sua presenza porterà dei vantaggi a Zucchabar e
conto di poter ottenere dei finanziamenti per la costruzione del nuovo
acquedotto cittadino…”
Massimo riuscì solamente ad accennare con la testa un paio di volte,
finché la mente gli si snebbiò e comprese la gravità della situazione.
Commodo stava per giungere a Zucchabar…
*****
Ottavia diede un’ultima occhiata al figlioletto addormentato, quindi
soffiò sulla candela e scivolò tra le lenzuola, stringendosi al corpo
caldo di suo marito. Con un breve sospiro, gli posò la testa sul petto,
ascoltando i battiti del suo cuore. Dopo pochi istanti durante i quali
nessuno dei due si mosse, Ottavia cominciò lentamente a coprirgli il
torace e il collo di baci, ma, con sua grande sorpresa, Massimo la fermò
dicendole, “Per favore, non questa notte.”
Gli occhi della donna si dilatarono per lo stupore, quindi lei
domandò, “C’è qualcosa che non va, Massimo? Da quando sei tornato
dalla villa del Proconsole, mi sembri un po’ strano.”
Massimo restò per qualche attimo in silenzio, pensando a quel che
avrebbe detto, quindi sussurrò, “Oggi sono stato informato che Commodo
verrà in visita a Zucchabar; sarà qui in ottobre.”
Ottavia riuscì a malapena a trattenere un suono inorridito. Prima che
si sposassero, Massimo le aveva raccontato della propria vita passata e
così lei era al corrente di come l’Imperatore fosse responsabile dell’assassinio
brutale della prima moglie e del figlio di suo marito, della perdita delle
sue proprietà e della sua riduzione in stato di schiavitù. Quando
Massimo le aveva narrato il suo passato, non era rimasta sorpresa nell’apprendere
che era stato un valoroso generale, comandante in capo delle legioni del
nord (già da tempo aveva capito che suo marito era un uomo speciale) ma
era rimasta stupita nell’apprendere che Marco Aurelio lo aveva designato
suo erede al posto del figlio.
Ottavia ricordò l’espressione addolorata e lo sguardo gelido che
Massimo aveva mentre le raccontava di come Commodo avesse ucciso il padre
e ordinato la sua esecuzione e il massacro della sua famiglia e s’irrigidì
all’improvviso, temendo che il suo amato potesse approfittare di quella
visita inattesa per mettere in atto la sua vendetta contro l’imperatore.
Massimo percepì la tensione del corpo della moglie e, intuiti i suoi
pensieri, cercò di calmarla dicendole, “Non preoccuparti Ottavia, non
ho intenzione di fare pazzie. Se fossi solo, forse potrei provare a
mettere in atto la mia vendetta, ma non sono solo… Ho te, Marzia e il
piccolo Massimo a cui badare, quindi, per favore, tranquillizzati e stai
calma.”
“Sono felice di sentirtelo dire.” Mormorò Ottavia, prima di
baciarlo con tenerezza.
Massimo ricambiò il gesto con passione, negando la sua stessa
affermazione. Ottavia sorrise e gli mormorò, con fare seduttivo, “Hai
cambiato idea, mio Ispanico?” Quelle parole erano ora il suo nomignolo
più intimo per lui.
Suo marito le carezzò il corpo voglioso e replicò con gentilezza, “Ogni
tuo desiderio è un ordine, domina.”
Le loro labbra si incontrarono nuovamente ed entrambi si persero nel
reciproco abbraccio, dimenticando all’istante tutte le loro
preoccupazioni.
8 - GIUNGE L’IMPERATORE
Agosto e settembre trascorsero in fretta e con l’approssimarsi del
mese di ottobre la città di Zucchabar si immerse in una miriade di
attività per prepararsi ad accogliere degnamente l’Imperatore.
Per Massimo Decimo Meridio, quelli furono probabilmente i mesi più
difficili della sua vita. Come aveva detto alla moglie, l’idea di avere
Commodo così vicino lo rendeva nervoso e ansioso. Temeva quello che
avrebbe potuto fare se si fosse trovato faccia a faccia con l’imperatore.
Il soldato che era in lui non era morto, era ma semplicemente addormentato
dentro il tranquillo fattore e addestratore di cavalli, e l’odio che
provava per il modo in cui Commodo aveva trattato la sua famiglia, era
cresciuto quando era venuto a conoscenza di come costui mal governasse l’impero.
Tuttavia Massimo si era ripromesso di non interferire nella situazione
onde evitare di mettere la sua attuale famiglia in una situazione di
pericolo.
*****
“Ispanico, sei davvero grande!” esclamò il proconsole Licinio
ammirando come Bucefalo rispondesse prontamente ai comandi che l’addestratore
gli dava.
Massimo sorrise e balzò di sella, incamminandosi verso il limitare del
recinto, seguito dal puledro. Aveva sempre amato cavalcare ed era grato
agli dei che la sua zoppia non gli impedisse di trascorrere molto tempo in
sella. Gli piaceva domare i cavalli e i suoi metodi di addestramento,
basati sulla pazienza e la gentilezza, piuttosto che sulla coercizione e
le bastonature com’era consuetudine, erano molto apprezzati in tutta la
provincia, garantendogli molto lavoro e cospicui guadagni per il benessere
della sua famiglia.
Zoppicando, Massimo si avvicinò ai cancelli e diede le redini di
Bucefalo a uno schiavo del Proconsole, che portò via l’animale.
Licinio, entusiasta di ciò che aveva appena visto, non esitò a
mettere in mano a Massimo una borsa piena di monete e a battergli sulla
spalla dicendo, “Hai fatto un lavoro meraviglioso: adesso il mio cavallo
è un dono degno di un Imperatore!”
Il sorriso scomparve dal viso di Massimo, che domandò, “Quando
arriverà?”
“Dovrebbe essere qui per le Idi… Di certo verrai in città ad
ammirare il corteo, vero?”
Massimo mosse la testa e al Proconsole sembrò che avesse accennato a
un sì… In realtà l’ex generale non aveva alcuna intenzione di recarsi
in città fintantoché Commodo fosse rimasto lì.
*****
Tuttavia, come spesso accade nella vita, il fato decise diversamente e
il giorno successivo alle Idi di ottobre, Massimo lasciò il suo podere
per recarsi in città. Uno dei morsi speciali da lui usati per la doma si
era rotto ed era necessario farlo riparare da un fabbro. Così saltò in
groppa a Tago, lo stallone sauro che Ottavia aveva comprato due anni prima
dietro suo consiglio, e si preparò ad andarsene. Aveva appena iniziando a
guidare l’animale fuori dal cortile quando sentì la voce di Marzia
chiamarlo. Si voltò e vide la bambina corrergli incontro, prima di
rallentare e mettersi a camminare, quando lei si ricordo che le era stato
insegnato a non correre appresso ai cavalli.
Marzia gli si fermò vicino e gli chiese, “Posso venire con te?”
Massimo avrebbe voluto rifiutarsi, ma lo sguardo supplichevole della
bambina glielo impedì… C’era qualcosa in quegli occhi che gli rendeva
impossibile dirle di no e sospettava che Marzia questo lo sapesse bene!
Sorridendo tra sé e sé, si chinò sulla sella, tese le braccia alla
bambina e la prese su, facendola sedere tra le proprie gambe.
“Pronta?” domandò Massimo e Marzia assentì, afferrando la
criniera del cavallo. Egli toccò leggermente con i talloni i fianchi dell’animale
e partì al trotto in direzione della città, senza immaginare la sorpresa
che gli dei avevano in serbo per lui.
9 - LUCILLA
L’Augusta Lucilla stava passeggiando per le viuzze polverose di
Zucchabar, osservando come viveva la gente del posto. Ciò era dettato
dalla curiosità di conoscere le costumanze locali, ma anche dalla
necessità di constatare i danni provocati da quasi quattro anni di
malgoverno di suo fratello. Al loro arrivo, due giorni prima, la città
aveva allestito una grande celebrazione, ma era chiaro come la maggioranza
dei cittadini fosse stata costretta ad assistervi. Il malcontento dilagava
per tutta la provincia, alla stessa maniera di quanto avevano visto nelle
altre città da loro visitate di recente. C’erano state anche delle
ribellioni, in alcune regioni dell’impero, ma tutte erano fallite e
soffocate nel sangue, per la mancanza di organizzazione con cui erano
state condotte.
L’attenzione di Lucilla fu attratta da un confuso rumore e, vedendo
come alcuni Pretoriani stessero trattenendo una folla di mendicanti di
fronte a lei, decise di abbandonare la strada principale e di voltare in
una delle vie secondarie, seguita dai suoi cortigiani. Il vicus, su
cui si affacciavano numerose botteghe era deserto, eccettuata la presenza
di due persone che camminavano davanti a lei: un uomo dalle spalle larghe,
che zoppicava leggermente dalla gamba destra, e una bambina di sei, sette
anni. L’uomo teneva nella propria grande mano quella della piccola e
aveva la testa piegata sul lato, come se stesse ascoltando con attenzione
i discorsi della sua giovane interlocutrice.
Ad un tratto, la bambina si fermò e disse a voce alta, indicando l’ingresso
di una bottega che avevano appena superato, “Possiamo guardare lì
dentro?”
Lucilla sorrise quando udì quel tono concitato, notando che la bambina
aveva “puntato” la bottega di un copista, ma il suo sorriso si spense
non appena udì il resto della frase.
“Dai, Massimo, entriamo dentro!”
L’uomo e la bambina si fermarono e si voltarono, ma Lucilla non li
vide, persa com’era nei ricordi.
Massimo. Quel nome causava ancora dolore e rimpianto nel suo cuore,
perfino dopo quattro anni. Un’immagine apparve davanti ai suoi occhi: un
bellissimo viso fiero…due occhi color acquamarina…un corpo così forte
eppure capace di gesti tanto teneri…
Lucilla sentì una gran rabbia montarle dentro: a cosa serviva
lasciarsi andare ai rimpianti? Perché continuava a torturarsi con i ‘se’
, i ‘ma’ e i ‘forse’? Chiuse gli occhi per scacciare i ricordi, ma
quando li riaprì, quella faccia emersa dal passato era ancora lì. Anche
se sembrava un po’ diversa da come lei la ricordava.
Molto più abbronzata.
Leggermente invecchiata.
Viva.
Lucilla si portò una mano alla bocca per soffocare un grido di
stupore, quindi sussurrò, “Massimo…”
Allungò una mano esitante per toccargli il braccio, prima di ritrarla
di scatto. Cercò un’altra volta di parlargli, ma lo sguardo di lui
glielo impedì e allora capì: c’erano troppi testimoni.
L’azione si svolse in pochi secondi, e Massimo la concluse facendosi
da parte con un profondo inchino e lasciandola passare. “Augusta Lucilla…”
disse rispettosamente, senza tradire un briciolo del proprio
sconvolgimento.
Lucilla accettò il suo omaggio con la stessa graziosa indifferenza con
cui aveva accettato quello degli altri cittadini e se ne andò, seguita
dai servitori e dalle guardie, riuscendo a stento a trattenersi dal
voltarsi a cercarlo, mentre la sua mente si abbandonava a frenetiche
congetture. Come aveva fatto Massimo a sfuggire ai pretoriani incaricati
di ucciderlo? Perché si trovava a Zucchabar? E, più importante di tutto,
che cosa poteva significare, per Roma, la sua presenza?
10 - UNA VISITA
Massimo era seduto nel portico della sua villa, intento a compilare il
libro mastro sulle attività del podere, ma quel pomeriggio gli era
pressoché impossibile concentrarsi sulle cifre. Il suo incontro con
Lucilla risaliva a poche ore prima e, non solo doveva ancora riaversi del
tutto riavuto dallo sconvolgimento, ma l’istinto gli diceva che presto
si sarebbero incontrati un’altra volta.
Massimo alzò gli occhi dalla tavoletta incerata e per l’ennesima
volta maledisse la propria stupidità, per essersi recato in città quando
sapeva che l’imperatore e il suo seguito erano lì. Ma, d’altra parte,
il nuovo morso gli era necessario per il lavoro: aveva parecchi cavalli da
domare e non poteva lasciarli fermi per più di due giorni.
Contro la propria volontà, la sua mente formò l’immagine di Lucilla
ed egli vide ancora il viso pallido e stanco di lei, così diverso da
quello della giovane donna che aveva conosciuto anni prima. Così diverso
dal viso di una donna serena.
Un leggero rumore lo distrasse e Massimo si voltò verso la culla dove
suo figlio stava giocando con un sonaglio di terracotta, agitando in aria
le gambe. Con un tenero sorriso egli si alzò, si avvicinò alla culla e,
chinatovisi sopra, cominciò a solleticare con delicatezza il pancino del
piccolo Massimo che reagì afferrando le dita del padre e gorgogliando
ancora più forte. L’Ispanico continuò a muovere piano l’indice e ad
emettere piccoli versi con le labbra.
Poco dopo, un servo entrò nel portico mettendo fine a quel breve
momento di gioco.
“Mi dispiace disturbarti, domine, ma hai ospiti.” disse l’uomo
e Massimo inarcò un sopracciglio, mentre un brivido freddo gli percorreva
la schiena.
“Sta qui e tieni d’occhio mio figlio finché non sarò tornato.”
Ordinò, prima di andare ad accogliere gli ospiti.
Massimo entrò a passo svelto nell’atrio, ma si bloccò quando vide
chi erano i suoi visitatori. Come aveva immaginato uno dei due era
Lucilla, ma non era in compagnia di una delle sue ancelle, bensì di un
pretoriano. Un’altra figura emersa dal suo passato.
L’uomo che lo aveva fatto arrestare.
Il suo migliore amico.
Quinto.
Cadde il silenzio nella stanza, l’aria satura di tensione. Massimo si
irrigidì vedendo Quinto lasciare il proprio posto accanto a Lucilla e
avvicinarsi a lui e la mano gli si strinse sull’elsa del pugnale che
aveva infilato alla cintura prima di entrare nell’atrio.
Quando si trovò di fronte all’ex comandante, Quinto si fermò e,
guardando l’altro uomo dritto negli occhi, lasciò cadere a terra il
gladio e il pugnale, allontanandoli poi con un calcio. Quindi, lentamente
e con determinazione, si inginocchiò, chinò la testa, lasciando esposto
e vulnerabile il collo e mise la propria vita nelle mani di Massimo.
Per qualche istante, l’Ispanico rimase immobile, quindi aprì la mano
e lasciò cadere il pugnale.
“Alzati, Quinto,” disse con voce carica di emozione e il pretoriano
ubbidì. I due uomini si fissarono mentre Lucilla si avvicinò loro,
posando lo sguardo ora sull’uno, ora sull’altro.
Massimo accenno con il capo, “Venite con me.” E li guidò nel
peristilio.
“Mettetevi comodi,”disse, indicando due sedie. Si accomodò quindi
alla scrivania e, messi via i libri contabili, licenziò il servitore che
stava badando al suo bambino addormentato.
Lucilla e Quinto si sedettero e seguì un imbarazzato silenzio,
interrotto da una domanda di Massimo, “Che cosa volete?” Il suo tono
perentorio lasciava capire che non aveva tempo e pazienza da perdere in
convenevoli.
I suoi ospiti erano della stessa opinione. “Siamo venuti a chiedere
il tuo aiuto per eliminare Commodo,” disse Lucilla con voce decisa.
Massimo fu a malapena in grado di mascherare il proprio stupore e,
socchiudendo gli occhi, chiese, “Perché dovrei farlo?”
“Per il bene di Roma,” replicò la donna e Quinto assentì.
“Perché avete scelto me?”
“Perché sappiamo che mio padre voleva te come erede.”
Questa volta, Massimo non riuscì a nascondere la sorpresa e Quinto,
notandolo, gli spiegò, “La mattina successiva alla morte di Cesare,
mentre sorvegliavo i servi che preparavano il suo cadavere per il ritorno
a Roma, trovai sotto i cuscini del letto un rotolo contenente l’atto
ufficiale con cui ti designava a Protettore di Roma dopo il suo decesso.
Evidentemente, Commodo non era riuscito a scovarlo…” Quinto abbassò
gli occhi e proseguì, “Non appena lo lessi, compresi perché tu avessi
rifiutato di stringergli la mano e intuii che avevo appena commesso il
più grande errore della mia vita. Io…Io provai a rimediare inviando un
messaggero per fermare i pretoriani diretti a casa tua, ma non ce la fece
ad arrivare in tempo.” Quinto si fermò, indirizzò una breve occhiata
al volto dell’Ispanico, quindi aggiunse, “Mi dispiace, Massimo. Avrei
dovuto sapere che tu non avresti mai tradito Roma e che dovevi avere un
motivo per rifiutare di obbedire a Commodo. Mi dispiace di non averlo
capito subito e di non averti protetto, com’era mio preciso dovere.”
Massimo mosse la mano per arginare quel fiume di parole. “Basta
così, Quinto. Quel che è fatto è fatto: non possiamo tornare indietro,
e piangere sul latte versato è inutile. Concentriamoci sul presente e
spiegatemi cosa volete da me.”
“Vogliamo che tu torni a Roma e reclami davanti al Senato la tua
carica di Protettore.” Lucilla diede inizio alle spiegazioni, “Noi,
ossia io, Quinto e un senatore chiamato Gracco, abbiamo creato una legione
di truppe scelte che odiano Commodo e sono pronte a combattere sotto il
nostro comando. Molti ex membri della Legione Felix si sono uniti a noi,
dopo aver saputo ciò che mio fratello ti aveva fatto. Tuttavia fino a
questo momento non abbiamo potuto agire perché mancavamo di un’effettiva
alternativa a Commodo, un uomo forte e carismatico in grado di tenere
sotto controllo il popolo e le altre legioni…Tu sei quell’uomo,
Massimo: il ricordo delle tue numerose vittorie è ancora fresco nella
mente dei soldati, e persino il popolo conosce il tuo nome e, ancor più
importante, io conservo ancora le ultime volontà di mio padre…”
Massimo la fronteggiò in silenzio, quindi disse, “No.”
Gli occhi di Lucilla si spalancarono, “No?! Hai sentito bene? Tu sei
l’unico che possa salvare l’impero prima che mio fratello lo trascini
alla rovina!”
“No.” ripeté Massimo con freddezza.
“Vorresti lasciare il trono a quel pazzo?” sbottò Quinto, “Lo
sai che sta distruggendo tutto ciò che suo padre aveva faticosamente
costruito con anni di sacrifici? E’ così che ricambi la fiducia di
Marco Aurelio? Dov’è finito il tuo senso del dovere?”
Massimo non riuscì più a contenersi, “Non venirmi a parlare di
dovere! Ho fatto il mio dovere per Roma e lo sai che cosa mi è costato?
Mi è costato la famiglia, la casa e la libertà…Sì, perché ho
trascorso più di un anno della mia vita da schiavo! Non conta che la mia
padrona fosse la donna che adesso è mia moglie, trovarsi privi di
qualsiasi diritto è una maledizione per un uomo nato libero. Ma sono
stato capace di costruirmi una nuova vita, una nuova casa e una nuova
famiglia e non voglio fare nulla che possa metterle in pericolo.”
Udendo il padre gridare, il piccolo Massimo si svegliò e si mise a
piangere. L’Ispanico corse da lui, lo prese in braccio e provò a
calmarlo. Tenendo il bambino, tornò da Lucilla e Quinto e aggiunse, con
calma, “Vedete quant’è piccolo? Non ho mai avuto la possibilità di
stare vicino al mio primo figlio, Marco, come sto facendo con lui. Quando
ho abbracciato Marco per la prima volta, aveva già due anni. La seconda
volta che sono andato a trovarlo ne aveva quasi cinque…E l’ultima
volta che l’ ho visto era morto, bruciato e crocifisso mentre era ancora
vivo, come sua madre…Mi dispiace di non potervi aiutarvi: fossi stato
solo, lo avrei fatto senza esitazione, ma adesso ho Massimo Iunior,
sua madre e sua sorella da proteggere e da mantenere come avrei voluto
fare con Marco e Selene.” Massimo continuò a stringere il bambino, il
cui faccino era la copia del suo volto, pregando con gli occhi Lucilla e
Quinto di comprendere le sue ragioni.
Infine Lucilla annuì tristemente e sussurrò, “Ti capisco, Massimo…Farei
qualunque cosa mio figlio Lucio.” Si alzò e Quinto la seguì. “Ti
auguro buona fortuna e una vita felice per te e per i tuoi cari. Addio.”
Quinto lo salutò portandosi il pugno al cuore e se ne andarono,
lasciando Massimo solo con suo figlio, e la tempesta delle sue emozioni
che gli sconvolgeva il cuore.
11 - COMMODO
Sbadigliando annoiato, Commodo diede le spalle al Proconsole Licinio e
se ne andò, lasciando che l’uomo continuasse a parlare di Zucchabar e
dei suoi problemi ad una stanza vuota.
Movendosi veloce lungo i corridoi marmorei, l’Imperatore raggiunse un’ampia
terrazza e uscì fuori ad assaporare la piacevole frescura della giornata
autunnale.
Dei, quanto detestava quel continuo supplicare e richiedere e
piagnucolare dei governatori locali! Avevano sempre qualcosa da
recriminare o richieste di sovvenzioni e finanziamenti da fare…Commodo
si appoggiò alla balaustra e guardò giù in strada. Al contrario dei
modelli romani, la villa del proconsole era alta tre piani e, dalla
terrazza al secondo, si poteva ammirare la splendida veduta della città e
del paesaggio circostante. Le montagne che poteva vedere all’orizzonte
erano magnifiche ed egli giudicò un’ottima idea farsi costruire una
residenza da quelle parti per il suo uso personale.
L’Imperatore mosse lo sguardo per osservare le attività della gente
che si muoveva in strada e fu allora che notò una della più belle donne
che avesse mai visto. Aveva lunghi, lucidi capelli neri e indossava una
tunica rosa pallido e una stola bianca. Non era giovanissima,
infatti Commodo pensò che dovesse avere qualche anno in più di lui, ma
era snella, con tutte le curve al posto giusto. C’era qualcosa in lei
che la distingueva dalle altre donne del mercato, povere creature
consumate dal lavoro, dagli anni e dalle troppe gravidanze.
Commodo la fissò per qualche istante, quindi prese la sua decisione.
“Guardia!” chiamò.
Un giovane Pretoriano si fermò dinanzi a lui chinando il capo. “Cesare?”
“La vedi la donna con i capelli neri, vestita di rosa?” domandò l’Imperatore
indicando la folla.
“Sì, Cesare.”
“Bene, scendi giù e dille che il suo imperatore desidera parlarle.”
“Come desideri, Cesare.” E l’uomo se ne andò.
Commodo tornò a guardare in strada e vide la guardia avvicinarsi alla
giovane donna e rivolgerle la parola. Dalla propria posizione elevata,
egli non udiva le voci, tuttavia poté vedere il Pretoriano puntare nella
sua direzione lo sguardo e la donna fare lo stesso. Commodo sorrise e
gesticolò con la mano. La donna lo fissò a bocca spalancata, quindi
seguì il Pretoriano dentro il palazzo. L’imperatore rientrò,
percorrendo veloce la grande sala coperta di marmo per ricevere la sua
ospite.
Quando gli fu finalmente di fronte, egli trasalì: era molto più bella
di quanto avesse immaginato, con lucenti occhi castani e pelle di seta. Le
tese entrambe le mani, invitandola ad alzarsi dalla sua posizione
inginocchiata.
“Signora, quando ti ho vista dal mio terrazzo, sono rimasto incantato
dalla tua bellezza e ho desiderato incontrarti.”
“Sei troppo buono, Cesare” rispose lei, imbarazzata.
Commodo sorrise al suo impaccio e le indicò un triclinio. “Siediti.”
L’ospite ubbidì ed egli poté notare quanto fosse nervosa. Beh,
forse un po’ di vino l’avrebbe aiutata a sciogliersi. Batté le mani e
subito apparve un servo che recava un vassoio d’oro con un’anfora e
due coppe. La donna prese una coppa e se la portò alle labbra, imitando
Commodo.
“Desidero conoscere il tuo nome,” le disse.
“Mi chiamo Ottavia, Cesare.”
“Un bellissimo nome per una bellissima donna.
“Tu mi aduli, Cesare.”
“Ti prego, non chiamarmi così: il mio nome è Commodo.” Egli
sorseggiò ancora il suo vino e aggiunse, “Ti voglio mia ospite stasera
a cena.” E non solo per mangiare, pensò.
Ottavia posò la coppa sul tavolo e, scegliendo con cura le parole,
disse, “Mi dispiace, Cesare, ma non posso accettare il tuo gentile
invito: mio marito mi sta aspettando a casa.”
“Manderemo un messaggero per dirgli che stasera farai tardi,”
commentò lui senza esitare, ma lei scosse la testa.
“Ho anche due bambini a cui badare…”
Commodo era un po’ seccato da quel rifiuto, anche se, in un certo
qual modo, non gli dispiaceva affatto: non c’era nessuna soddisfazione
ad avere una donna facile…Già, gli sarebbe piaciuto conquistarla. Così
disse, “Capisco. Spero comunque che potremo incontrarci ancora, nobile
Ottavia.” Entrambi si alzarono e si salutarono. Quindi Cesare ordinò ad
una delle guardie d’accompagnare l’ospite alla porta. Non appena
Ottavia se ne fu andata, Commodo chiamò con un gesto Quinto, che aveva
osservato tutta la scena nascosto nell’ombra, e disse, “Seguila e
fammi sapere dove vive, chi è suo marito, di che cosa si occupa; insomma,
tutto. Potrei avere bisogno di informazioni onde “persuaderla”.
Quinto annuì e lasciò la stanza imprecando sotto voce: conosceva bene
il comportamento di Commodo con le donne e temeva che la giovane signora
sarebbe andata incontro a un sacco di guai.
12 - QUINTO
“Te ne rendi conto, Ispanico? Non solo ha rifiutato di elargirmi i
fondi per la costruzione di un nuovo acquedotto, ma adesso pretende che
aumenti le tasse perché vuole costruirsi una nuova villa QUI! Che cosa se
ne fa di una villa? Quando se ne andrà, dimenticherà questo posto e non
ci metterà più piede! Inoltre vuole combattere nella nostra arena, per
cui sarò costretto ad acquistare dei gladiatori dai lanistae,
così lui potrà mostrare a tutti quanti com’è bravo con la spada!
Quell’uomo è una catastrofe!” Gli occhi del proconsole Licinio
sembravano prossimi a schizzargli via dalle orbite mentre elencava le
prodezze di Commodo e Massimo sorrise amaro, pensando a quanto nefaste
fossero le conseguenze dell’avvento al potere del nuovo Cesare, se era
riuscito a far uscire fuori dai gangheri perfino un bonaccione accomodante
come Licinio. Essi stavano parlando in prossimità delle scuderie
pubbliche di Zucchabar, dove il Proconsole, dopo aver lasciato furibondo
il proprio ufficio, aveva incontrato Massimo che aspettava, vicino al suo
carro, il ritorno della moglie. Erano scesi in città perché la donna
aveva bisogno di acquistare nuove fasce per il loro bambino, ma lui era
impaziente di lasciare la città e tornare in campagna. Massimo si guardò
intorno mentre il compagno riprendeva fiato dopo la sua filippica, e
sorrise vedendo Ottavia avvicinarsi verso di loro. Salutò il Proconsole e
le andò incontro, prendendole le borse dalle mani, “Hai trovato tutto
quel che ti serviva?”
“Sì,” replicò lei piano, “possiamo tornare a casa.”
“Bene.”
Raggiunsero il carretto e lui l’aiutò a salire, prima di sedere a
cassetta e di incitare il cavallo a muoversi.
Quinto li vide allontanarsi lungo la strada che collegava la città
alle colline circostanti, quindi si recò alle stalle e prese per sé un
cavallo.
Mentre galoppava lungo il sentiero polveroso, pensò che gli dei
avevano davvero il senso dell’umorismo… Un crudele senso dell’umorismo,
e non si poteva definirlo diversamente, visto che con tutte le donne che c’erano
in Africa, Commodo aveva posato gli occhi proprio sulla moglie di Massimo…
Una volta giunti a casa, Ottavia entrò dentro, mentre Massimo portò
il cavallo nella scuderia. Lei aveva bisogno di stare un po’ da sola per
decidere che cosa avrebbe dovuto fare. Avrebbe dovuto raccontare a Massimo
del suo incontro con l’Imperatore? O stare zitta? E che fare se Commodo
si fosse messo in testa di rivederla?
Massimo guardò la moglie entrare nella villa e aggrottò la fronte:
era stata stranamente silenziosa durante il viaggio di ritorno, e lui
cominciava a sospettare che ci fosse qualcosa che andava. Tolse i
finimenti al cavallo, quindi lasciò la stalla e si diresse verso casa.
Mentre attraversava il cortile, vide un cavaliere galoppare lungo la
strada che portava alla fattoria e, una volta che fu abbastanza vicino,
riconobbe in lui le fattezze di Quinto. I sospetti di Massimo divennero
certezza: era accaduto qualcosa in città, e Ottavia vi era coinvolta.
Sentì un brivido corrergli lungo la schiena ma lo ignorò e si preparò
ad accogliere il Pretoriano.
“Quinto…” disse, afferrando le redini del cavallo.
“Massimo…”replicò Quinto smontando di sella.
L’Ispanico indicò ad un servo di occuparsi dell’animale e gli
chiese. “Che cosa sei venuto a fare?”
“Sono venuto ad avvertirti che Commodo ha messo gli occhi su tua
moglie.” Disse Quinto senza troppi preamboli.
“CHE COSA?!”
Il Pretoriano raccontò a Massimo tutto quello che era accaduto, usando
un tono più gentile rispetto a prima, “…e così mi ha ordinato di
seguirla per scoprire dove viveva, chi era suo marito e quant’altro.
Vuole queste informazioni nel caso sia necessario “persuaderla” ad
accettare le sue attenzioni. Non è la prima volta che capita qualcosa del
genere, e posso garantirti che nessuna donna lo ha mai rifiutato dopo
essere stata “persuasa”…”
Massimo ascoltò in silenzio, mentre sulla sua faccia la rabbia
prendeva il posto della sorpresa. Quel bastardo stava minacciando la sua
famiglia, la sua ragione di vita e lui non poteva permetterlo. Guardò
Quinto e disse, “Vieni con me, voglio sapere tutto del piano tuo e di
Lucilla per eliminare Commodo.”
Ottavia stava percorrendo le scale per recarsi in cucina quando fu
distratta da alcune voci provenienti dal peristilio. Una era quella di
Massimo, ma non riconobbe l’altra. Uscì e vide suo marito parlare con
un Pretoriano. Aggrottò la fronte domandandosi che cosa ci facesse quell’uomo
a casa loro, ma i suoi pensieri furono interrotti dalla voce irosa di
Massimo, “Giuro che l’ammazzo! Passerò quel serpente a fil di spada,
fosse l’ultima cosa che faccio!”
“NOO!”Urlò Ottavia lasciando il suo nascondiglio, “Non devi
farlo.”
Massimo e Quinto scattarono in piedi e lei si precipitò tra le braccia
del marito, “Avevi promesso che avresti lasciato perdere l’Imperatore!
Che non avresti cercato di vendicarti!”
Lui l’abbracciò e disse, “Questo prima che lui cercasse di
sedurti! Quinto mi ha raccontato quel che è successo oggi e non posso
permettere che Commodo faccia del male a te o ai bambini. Ho giurato a me
stesso che vi avrei sempre protetto e farò di tutto qualsiasi cosa pur di
garantire la vostra sicurezza!”
Ottavia lo guardò con occhi imploranti, il viso rigato di lacrime, ma
Massimo aveva preso la sua decisione e nessuno avrebbe potuto fargli
cambiare idea.
13 - PROXIMO
Il giorno seguente, Massimo lasciò presto la fattoria per recarsi a
visitare la più famosa scuola di gladiatori di Zucchabar, che apparteneva
ed un ex combattente, Elio Proximo. Sapeva che costui era il lanista
dal quale Licinio intendeva acquistare lo schiavo che si sarebbe scontrato
con Commodo e l’Ispanico aveva un’interessante proposta da fargli.
Massimo raggiunse i cancelli di ferro e disse all’uomo che stava di
guardia, “Vorrei parlare con il tuo padrone.”
La guardia osservò l’abbigliamento del forestiero, notò che era di
buona qualità e, contento del fatto che non si trattasse di un accattone,
lo fece passare, “Seguimi.”
L’ex generale si guardò intorno con un misto di disgusto e di
curiosità. Su di un lato del cortile che stava attraversando si apriva
una serie di gabbie, dentro le quali erano rinchiusi, in certe bestie
feroci, in altre uomini. Nella parte più lontana, poté vedere alcuni
combattenti che si allenavano usando spade di legno sotto gli occhi
attenti di un omaccione dalla barba grigia. Massimo socchiuse gli occhi e
un ricordo lontano gli fece capolino nella mente: aveva già visto quell’uomo,
era lo stesso che lo aveva esaminato quando era stato messo in vendita al
mercato degli schiavi. Quasi quattro anni erano trascorsi da quel giorno
fatale, ma Massimo ricordava ancora le ultime parole di quell’uomo:
“Lascialo stare. Quella ferita può ancora ucciderlo prima che io possa
mandarlo nell’arena e non ho denaro da sprecare. Prendi l’altro.” Per
un attimo pensò che quella avrebbe potuto essere la sua vita, se Proximo
l’avesse scelto, e si guardò attorno con occhi differenti…Quel posto
sarebbe potuto essere la sua casa sua…la sua prigione…il suo luogo di
sepoltura…Scosse la testa e si concentrò su quel che aveva da dire.
Proximo stava seduto sotto un baldacchino, osservando il primo
allenamento di alcuni schiavi reclutati di fresco quando vide uno dei suoi
sorveglianti avvicinarsi a lui seguito da un uomo alto e robusto che
camminava con una leggera zoppia.
“Padrone, quest’uomo vorrebbe parlarti,” gli disse la guardia.
Proximo inarcò un sopracciglio, un po’ sorpreso, quindi annuì.
La guardia fece cenno al visitatore di avvicinarsi al suo padrone,
quindi si allontanò di qualche passo, per discrezione.
L’uomo bruno si avvicinò a Proximo, che non si era alzato per
salutarlo, e gli domandò, “Elio Proximo?”
Questi annuì.
“Ho per te una proposta molto vantaggiosa.”
“Davvero? E sarebbe?”
“Voglio diventare gladiatore.”
Proximo esplose in una grassa risata che gli fece addirittura lacrimare
gli occhi, credendo di aver a che fare con un matto. Infine si asciugò le
guance e squadrò il forestiero preparandosi a un caustico commento. Ma le
parole gli morirono sulle labbra, osservando lo sguardo fiero del suo
ospite. Quell’uomo non era un pazzo e l’espressione decisa del viso
lasciava intendere che non gli piaceva affatto essere preso in giro. L’atteggiamento
di Proximo cambiò e, indicando una sedia vicina, gli disse bruscamente,
“Siediti e dimmi tutto quello che devi dirmi.”
Massimo trascinò più vicino la sedia, si accomodò ed esordì, “So
che fra due giorni ci sarà uno scontro nell’arena e che l’imperatore
stesso combatterà contro uno dei tuoi gladiatori.”
La faccia di Proximo si rabbuiò pensando a quell’atleta che avrebbe
dovuto lottare contro Cesare e che andava a tutti gli effetti considerato
un cadavere ambulante, visto che Commodo si garantiva le vittorie facendo
ferire gli avversari prima dei combattimenti. Tuttavia, non capendo quel
che il forestiero aveva da dire, lo lasciò continuare.
“Voglio prendere il posto del tuo schiavo nel duello contro l’imperatore.”
“Allora sei matto sul serio, come avevo pensato appena hai iniziato a
parlare…Vuoi davvero combattere, con quella gamba zoppa? Non capisci che
quello lì ti farà a pezzi? Sei così stufo di vivere?”
Massimo sorrise crudelmente, “Questo non è affar tuo. L’unica cosa
di cui dovrebbe importarti è che potrai risparmiare il tuo gladiatore e
guadagnare lo stesso la somma che il Proconsole Licinio pagherà per la
sua prestazione. In quanto a me, ho qualche conto da regolare con il
nostro caro imperatore…Beh, che ne dici? Ti piace la mia idea?”
Proximo rimase per diversi minuti in silenzio. Egli sapeva che Cesare
era odiato in ogni angolo dell’Impero , ed egli stesso lo detestava,
perché correva voce che avesse ucciso perfino il padre, l’uomo che gli
aveva dato la libertà quando era un gladiatore, per avere il trono. Era
vero che aveva riaperto i Giochi al Colosseo e quindi dato lavoro a molti lanistae,
ma il soggiorno romano di Proximo si era risolto in un mezzo disastro
finanziario, allorché tutti i suoi gladiatori erano stati massacrati
durante la messa in scena della Battaglia di Cartagine. Quando l’aveva
saputo, Proximo era stato tentato di ritirare i suoi uomini, ma l’Imperatore
lo aveva costretto ad onorare i termini dell’accordo.
Infine Proximo annuì e gli disse, “Sta bene. Presentati nei
sotterranei dell’arena un’ora prima del combattimento ed effettueremo
lo scambio di persona.”
Massimo assentì e strinse la mano al lanista che la scosse e,
fissandolo in faccia, gli domandò, “Chi sei?”
“Qui a Zucchabar mi conoscono come l’Ispanico. Ma il mio vero nome
è Massimo Decimo Meridio.”
“Come il generale che era il braccio destro Marco Aurelio in materie
militari?” chiese Proximo guardandolo con occhi nuovi.
Massimo chinò, ringraziandolo per il complimento, “Precisamente.”
“Credevo fossi morto, ucciso per ordine di Commodo, o almeno così ho
sentito dire da qualche soldato, quando stavo a Roma.”
“E’ vero…Così adesso sai di che cosa vorrei discutere nell’arena
con il nostro Imperatore…”
Proximo sghignazzò, studiando da vicino il viso dell’ex generale,
“Ci siamo visti altre volte, non è vero? La tua faccia non mi è nuova.”
“Acquisti sempre le tue reclute al mercato degli schiavi?”
“Sì.”
“Allora, forse è lì che ci siamo incontrati,” e dicendo questo,
Massimo si scoprì il braccio sinistro e lo mostrò a Proximo. Il lanista
notò la profonda cicatrice proprio sotto il tatuaggio SPQR, e ricordò
uno schiavo febbricitante che aveva visto qualche anno prima e che aveva
una ferita proprio in quel punto.
“Non dirmi che quello eri tu?!”
Massimo annuì.
“Mi stai dicendo che mi sono lasciato scappare le possibilità di
trasformare in gladiatore uno dei più grandi generali dell’impero?”
La voce di Proximo suonò quasi offesa.
Massimo sorrise, “Così sembra. Tuttavia, se ciò può esserti di
conforto, avrai l’opportunità di farlo in un paio di giorni!”E detto
questo si alzò e se ne andò. Proximo osservò la sua forte schiena
allontanarsi ed esplose in una risata. La vita in quel villaggio infestato
dalle pulci cominciava a farsi molto più interessante!
14 - NELL’ARENA
Due giorni dopo, Zucchabar si animò con centinaia di persone giunte
dai villaggi vicini per assistere al grande scontro nell’arena locale.
Le dicerie secondo cui l’Imperatore si sarebbe battuto contro un
gladiatore si erano propagate in fretta, e molte persone volevano
assistere allo spettacolo. L’arena era situata in una depressione del
terreno circondata da colline, in modo che anche il pubblico non ricco
potesse assistere ai giochi senza pagare.
Massimo e Quinto erano fermi all’interno di uno degli stretti, bui e
polverosi sotterranei dell’arena, nelle cui celle i gladiatori venivano
tenuti prima del combattimento. Il posto puzzava di sangue, sudore e
urina. Era l’odore della paura, della morte, e Massimo aveva imparato a
conoscerlo nei giorni in cui militava nell’esercito. Quante volte l’aveva
annusato, prima della battaglia, passando vicino alle linee nemiche, o
fermandosi di fronte a qualche legionario giovane e inesperto? Tuttavia
sapeva che, in un modo o nell’altro, quella sarebbe stata l’ultima
volta. Proximo si avvicinò e gli porse una tunica di ruvida lana azzurra
e una semplice armatura di cuoio, l’uniforme dei suoi gladiatori. Con l’aiuto
di Quinto, Massimo si cambiò i vestiti, quindi tese le braccia in modo
che l’amico gli bendasse i polsi con morbide fasce di cuoio nero.
“Sei sicuro di voler procedere con questo piano?”gli domandò il
pretoriano, “Siamo ancora in tempo per cambiare idea e cercare un’altra
soluzione.”
“Sono sicuro. Finirà qui e finirà oggi,” replicò Massimo,
tranquillo, “E’ tutto pronto?”
Quinto annuì, facendo un ultimo nodo, “La gente sa della tassa che
Commodo vorrebbe imporre per costruirsi la villa e non mi stupirei se oggi
stesso ricevesse una salva di fischi. Il Proconsole è stato informato che
potrebbe succedere qualcosa e penso di non aver mai visto un cospiratore
più soddisfatto. Per quanto riguarda Lucilla, come hai domandato, non sa
niente della cospirazione, mentre tua moglie e i tuoi bambini sono già
sotto la protezione dei miei uomini di fiducia…Ti giuro sulla mia vita
che, qualsiasi cosa accada, loro saranno tutelati.”
Massimo annuì, “Ti ringrazio, amico.”
“Non devi ringraziarmi. Sto solo compiendo il mio dovere nei tuoi
riguardi, come avrei dovuto fare in Germania.” La voce di Quinto era
amara, piena di disgusto contro se stesso.
“Per favore, Quinto, non un’altra volta. Il passato è passato e
nessuno può cambiarlo. Ma possiamo influenzare il futuro, se ci
concentriamo su di esso, non ti pare?”
Quinto annuì e proseguì a descrivere il modo in cui aveva collocato
uomini fidati nei punti strategici dell’arena, poiché era chiaro ad
entrambi che, in un modo o nell’altro, Commodo non sarebbe uscito vivo
dall’edificio. Come il grande Giulio Cesare aveva detto, ‘il dado era
stato tratto’, e il destino dell’Imperatore deciso: era giunto per lui
il tempo di pagare il prezzo dei suoi misfatti.
*****
Commodo e il suo seguito entrarono nell’arena al suono di molte
buccine, ma l’accoglienza della folla fu tutt’altro che entusiasta.
Egli scambiò un’occhiata con la sorella, quindi sedette nella tribuna
delle autorità e si apprestò ad assistere ai primi combattimenti della
giornata. Fu presto raggiunto da Quinto, il capo delle sue guardie, e
senza staccare gli occhi dal centro dell’arena, gli chiese, “Fatto?”
“Sì, Cesare, il gladiatore è pronto.”
Lucilla sbuffò udendo quelle parole, perché sapeva bene cosa
significassero. Commodo era troppo vigliacco per combattere contro un
lottatore forte e integro, così tutti i suoi avversari venivano
opportunamente “preparati” per i combattimenti con una coltellata in
mezzo alle reni o a qualche altro organo, in modo da fiaccarli e
indebolirli, assicurando così a suo fratello una facile vittoria. Lucilla
piegò la testa e mormorò una preghiera silenziosa per il poveretto che
attendeva la morte nei sotterranei dell’arena.
Commodo non vedi l’espressione disgustata sul viso della sorella e,
soddisfatto perché tutto andava per il meglio, si guardò intorno,
osservando l’attenzione con cui la folla seguiva i giochi.
Fu allora che la vide.
Ottavia. Stava seduta sulle tribune, tra le persone più ricche della
città, e questo rese Commodo orgoglioso. Il suo ego era talmente
smisurato da renderlo sicuro che la giovane fosse venuta per vederlo
combattere e si immaginò quanto impressionata sarebbe rimasta dalla sua
vittoria.
*****
In realtà Ottavia era andata nell’arena per veder combattere suo
marito. Massimo non avrebbe voluto che lei assistesse ai giochi ma lei non
aveva dato ascolto alle sue parole. Sebbene sperasse fervidamente che
così non fosse, quello avrebbe anche potuto essere, per il suo amato, l’ultimo
giorno di vita, e lei voleva essergli vicina. Massimo Iunior e
Marzia erano rimasti a casa sotto la sorveglianza di venti soldati ben
armati pronti a scortarli via da Zucchabar e dall’Imperatore se fosse
accaduto qualcosa a suo marito, e lei era altresì protetta da otto
soldati mischiati alla folla nei paraggi. Sapeva che Quinto aveva ordinato
loro di trascinarla via a forza se il piano fosse fallito.
Ottavia e fissò le porte di legno oltre le quali Massimo probabilmente
aspettava il proprio turno. L’attesa era deleteria per i suoi nervi e
dentro di sé era tormentata dal desiderio che tutto cominciasse, così la
tortura avrebbe avuto termine, e il desiderio che i cancelli non si
aprissero mai per rilevare davanti la figura del marito.
Ad un tratto la folla urlò forte e, voltandosi verso sinistra, Ottavia
vide Commodo rivestito da una bianca armatura, lasciare il palco delle
autorità circondato da dei pretoriani, tra cui Quinto. Un brivido freddo
lungo la schiena e lei capì che il momento della verità era arrivato.
Ottavia chiuse gli occhi e mormorò una preghiera agli dei perché
aiutassero Massimo. E allo stesso modo pregò Marco e Selene affinché,
dall’aldilà, proteggessero il loro amato.
15 - ATTESE
Massimo stava aspettando, dietro una massiccia doppia
porta. La parte superiore del suo viso era coperta da un elmo, che Quinto
aveva insistito che indossasse, per evitare che Commodo, riconoscendolo,
potesse fare ricorso a mosse illegali o si rifiutasse di combattere. Il
copricapo era confortevole e il suo peso gli ricordava quello dell’elmo
che aveva indossato innumerevoli volte guidando all’assalto la
cavalleria della Legione Felix.
Massimo provò un paio di fendenti, tagliando l’aria con la lama, e
sorrise soddisfatto della condizione del suo tono muscolare. Fin dal suo
ritorno alla condizione di uomo libero, si era allenato ogni giorno con la
spada per essere pronto a difendere la propria famiglia, nel caso fosse
stato necessario farlo. A dire il vero, pensò, quello non era esattamente
il modo in cui aveva creduto di doverli proteggere, combattendo in un’arena,
ma il risultato era lo stesso.
Massimo udì il suono delle buccine, seguito dai passi
di Proximo.
“E’ il momento. Cesare è sceso nell’anello di sabbia. Sii pronto
ad uscire, perché i cancelli stanno per essere aperti.”
Massimo annuì e s’incamminò verso l’uscita, seguito dalle parole
che Proximo era solito dire ai suoi gladiatori, “Va’ e muori con
onore.” L’ex generale era calmo, la sua mente concentrata. Non c’era
paura in lui, solo determinazione. Udì il ruggito della folla mentre i
cancelli si aprivano e la luce invadeva il buio passaggio. Massimo strinse
l’elsa della spada ed uscì, andando incontro al proprio destino.
*****
Commodo stava aspettando l’avversario al centro dell’arena,
passeggiando avanti e indietro con le braccia tese. Faceva una notevole
impressione con la corazza bianca che rifletteva i raggi del sole e
splendeva come marmo e madreperla. Quando fu certo che la folla fosse
stata sufficientemente colpita dal suo aspetto regale, indicò alle
guardie di aprire i cancelli e lasciar uscire il gladiatore che il
presentatore aveva chiamato l’Ispanico: doveva trattarsi di un
combattente molto popolare, dato che il pubblico, dopo un momento di
silenzio stupefatto, era esploso in un boato. Commodo sorrise: era felice
che il suo avversario fosse famoso, perché battendo elementi come quello,
egli accresceva la propria fama di eroe invincibile.Tuttavia il sorriso
scomparve dal suo volto quando vide l’Ispanico avvicinarsi al centro
dell’arena.
“Maledizione,” pensò l’Imperatore, “Quegli imbecilli di
Pretoriani lo hanno picchiato troppo e adesso zoppica!” Era vero che lui
non volesse rischiare combattendo contro gladiatori integri, ma non voleva
nemmeno passare per codardo battendosi contro un uomo così palesemente
infortunato. Commodo era sul punto di richiedere un altro combattente
quando vide che l’Ispanico, lungi da far atto di sottomissione da
schiavo qual era di fronte all’imperatore, se ne stava immobile a testa
alta di fronte a lui e lo fissava con sguardo arrogante. Commodo divenne
furioso e decise di dare allo schiavo impudente una sonora lezione, l’ultima
della sua vita.
*****
Lucilla stava aspettando che il combattimento avesse inizio perché
più presto fosse cominciato, più presto sarebbe finito e lei avrebbe
così potuto lasciare quel luogo di morte e di dolore. Guardò con scarso
interesse il gladiatore che si stava dirigendo verso suo fratello, ma dopo
alcuni secondi aggrottò la fronte. C’era qualcosa di familiare nel modo
in cui l’uomo camminava, ma… All’improvviso vide l’Ispanico, così
lo aveva chiamato il presentatore, piantare la spada nel terreno e
chinarsi a raccogliere un pugno di sabbia, strofinandola lentamente tra le
mani. Lucilla sentì il sangue defluirle dalla faccia, mentre osservava
quel gesto così familiare ai suoi occhi…Quante volte lo aveva preso in
giro, perché lui non era in grado di spiegarle perché lo facesse!
Lucilla afferrò la balaustra con entrambe le mani e si preparò ad
assistere ad una delle più importanti battaglie che mai si fossero
combattute per il bene di Roma: quella tra il generale Massimo Decimo
Meridio e l’imperatore Commodo.
*****
L’attesa di Ottavia terminò mentre guardava il marito camminare
verso il centro dell’arena a passi lunghi e decisi, la testa alta, l’atteggiamento
fiero e orgoglioso. Lo vide fermarsi di fronte all’imperatore, di fronte
all’uomo che tanto dolore gli aveva causato e, malgrado l’elmo le
impedisse di vederlo in faccia, era sicura che i suoi occhi verdazzurro
stessero fissando il nemico con tutto l’odio che provava. Quindi Massimo
si chinò a raccogliere un po’ di sabbia, in quello che lei sapeva
essere il suo rituale propiziatorio prima delle battaglie. Dopo di che si
alzò, prese la spada e si mise in posizione di difesa, mentre Commodo
faceva altrettanto.
Vi fu un momento d’innaturale silenzio, come se tutto il pubblico
stesse trattenendo il respiro, quindi la folla esplose in un ruggito,
appena le due spade s’incrociarono tagliando l’aria e sprizzando
scintille quando ferro colpì ferro.
Finalmente l’attesa era finita.
16 - IL CONFRONTO FINALE
Non appena il duello ebbe inizio, Commodo si rese conto che c’era
qualcosa che non andava: il suo avversario poteva anche essere zoppo, ma
di certo conservava intatto tutto il proprio vigore, come poteva sentire
dalla forza dei suoi colpi. L’Imperatore sentì un torrente di
adrenalina scorrergli nelle vene all’idea di dover combattere un vero
duello. Infatti, anche se l’Ispanico non era stato indebolito secondo il
solito, il fatto che zoppicasse costituiva uno svantaggio e Commodo era
certo che la sua maggiore agilità gli avrebbe consentito di vincere.
Massimo stava attaccando con determinazione, cercando di non muoversi
troppo. Il suo ginocchio destro era in grado di resistere a un certo
sforzo, ma i suoi movimenti non erano veloci come un tempo.
Commodo era un provetto spadaccino, ma non aveva l’esperienza di un
soldato e Massimo sperava che questo fattore avrebbe compensato la propria
lentezza.
Si mossero avanti e indietro nell’arena, attaccando e ritraendosi,
difendendosi e caricando, senza che nessuno dei due contendenti mostrasse
un’evidente superiorità rispetto all’altro. Improvvisamente, Commodo
vide l’Ispanico fare un passo falso con la gamba destra e gli si lanciò
contro con tutto il suo peso, facendolo cadere e quindi tentò di
decapitarlo con un colpo ben assestato. Massimo rotolò via appena in
tempo, sentendo la punta della spada che gli lacerava la tunica sopra la
spalla ma non le carni. In pochi istanti fu di nuovo in piedi,
riguadagnando l’equilibrio, e attaccò un’altra volta. La folla ruggì
in approvazione, perché quello era senza dubbio uno dei più bei
combattimenti a cui avesse mai assistito.
Massimo portò un colpo particolarmente violento e Commodo barcollò
sotto la sua forza, ma si riprese in tempo per parare un altro fendente
che lo gettò in ginocchio. L’imperatore riuscì a stento ad alzare la
spada per deflettere la botta successiva, e poi balzò di nuovo in piedi.
Iniziava a sentirsi meno sicuro di se stesso, perché stava già
respirando affannosamente, mentre l’Ispanico non sembrava affatto
affaticato.