UNA COME TANTE (terza parte)
6 - Casa
Attendendo il mio trasferimento a Parigi, le giornate scorrevano lente e tutte uguali. Da quando ero tornata, la malinconia non mi aveva abbandonata un istante. Preferivo la solitudine della scogliera spazzata dal vento all'allegra confusione dei miei amici. Nessuno riusciva a capire cosa mi stava succedendo, non avevo raccontato niente di ciò che era accaduto a Los Angeles nemmeno ai miei genitori. Non volevo che si diffondesse la notizia perché non volevo essere guardata come un fenomeno da baraccone. Il nulla che era successo in America doveva essere un nulla solo mio e di
Russ, anche se per lui non era significato niente.
Qualche amica azzardava l'idea che mi fossi perdutamente innamorata di un mio compagno di corso, ma io non confermavo né smentivo. Volevo solo che mi lasciassero in pace, che niente mi distogliesse dai miei ricordi e dai sogni ad occhi aperti.
Passavo molto tempo sulla scogliera a dipingere. L'odore pungente dei colori ad olio e della trementina si mescolava al profumo del mare e la sensazione familiare che ne derivava mi rinfrancava un po'. Il bianco e nero della grafite e del carboncino non mi bastava più: avevo bisogno di colori per riprodurre l'intensa tonalità del mare, così simile al colore degli occhi di
Russell.
Un giorno trovai su una rivista il recapito del suo agente. Corsi a fare delle copie degli ultimi disegni che avevo fatto sul set e preparai un bel pacco aggiungendo una delle tele raffiguranti il paesaggio di Cap
Fréhel. Spedii il tutto sperando che non andasse smarrito in mezzo a tutta la posta che probabilmente Russell era solito ricevere.
Erano passate due settimane da quando avevo rimesso piede a casa mia. Quante ne dovevano passare ancora, prima di ritornare alla normalità?
Sedevo sul dondolo in giardino accarezzando il mio gatto che faceva le fusa. Quando alzavo gli occhi
vedevo mia madre che mi osservava preoccupata dalla finestra della cucina, come sempre, ma quella volta aveva il ricevitore del telefono in mano.
- Claire, c'è una telefonata per te. Deve essere uno dei tuoi amici americani. - Rientrai in casa incuriosita.
- Pronto? -
- Ciao Claire. Ti disturbo? - La voce, calda e profonda, inconfondibile, mi scese giù fino allo stomaco. Mi appoggiai con una mano al tavolino per evitare di cadere. La voce dall'altra parte continuava a chiamarmi.
- Ciao. - riuscii a dire dopo un po', con un filo di voce.
- Come stai? Com'è andato il viaggio di ritorno? -
- B... bene. - non riuscivo a credere che fosse proprio lui. Deglutii. La sua voce era forte e chiara, come se mi telefonasse dalla casa di fronte. Quanto volevo che fosse vicino!
- Dove sei? - gli chiesi.
- A casa. Senti, ho chiesto il tuo numero di telefono a Sam. Spero che non ti
dispiaccia. -
- No... no! Mi fa piacere. - Cercai di dissimulare un po' la mia emozione ma mi pareva di esplodere per la felicità.
- Volevo dirti che tutti qua sono impazziti per i tuoi disegni. Li hanno appesi ovunque. Non ne posso più di vedermi dappertutto appena giro gli occhi! - rideva, e io cominciavo lentamente a riprendermi dallo shock.
- Te ne ho spediti altri, li hai ricevuti? -
- No. Dove li hai spediti? -
- Alla tua agenzia. -
- Non mi è ancora arrivato niente. La prossima volta non li spedire lì. Segnati questo indirizzo, ma mi raccomando, non lo dare a nessuno. Mi fido di te. -
Era l'indirizzo di casa sua a cui aggiunse il numero di telefono e quello del cellulare. Non mi sarei mai aspettata una simile prova di fiducia e di amicizia. Pensai che l'ultima sera a Los Angeles non era stata una fine ma un inizio…
Rimanemmo a parlare qualche minuto, poi Russell disse che doveva andare.
- Posso telefonarti ogni tanto? - mi chiese.
- Oh... certo! Certo, mi farebbe molto piacere! - Ero fuori di me dalla gioia, rossa in viso e sudata per l'emozione. Mia madre se ne accorse così le raccontai tutto. Fu la buona idea che mi impedì di impazzire.
7 - Una nuova vita
I primi tempi a Parigi furono duri. Ero completamente sola in una città sconosciuta.
Avevo preso in affitto un appartamento in periferia e quando alla mattina mi affacciavo alla finestra soffrivo nel vedere solo un soffocante mare di cemento. Niente oceano all'orizzonte e niente scogliera su cui ritirarmi a sognare.
I miei nuovi colleghi, fin dai primi giorni, mi avevano riservato una gelida accoglienza. Ero solo una piccola provinciale, una specie di Cenerentola che avrebbe faticato non poco prima di partecipare al ballo del principe.
L'unica che mi dimostrava un po' di solidarietà era la ragazza che stava alla
reception. Si chiamava Carla, un nome che tradiva le sue origini e forse proprio per questo mi si era avvicinata. Anche lei aveva subito la freddezza dei parigini snob e, nonostante gli anni passati in quell'ufficio, non si era ancora integrata completamente.
M'impegnavo a fondo nel lavoro, sperando che prima o poi qualcuno mi riconoscesse dei meriti, ma non accadeva mai. Non era proprio il tipo di vita che avevo immaginato e ogni sera rincasavo sempre più frustrata. Se fossi rimasta a Fréhel almeno avrei avuto il calore della mia famiglia e dei miei amici.
Ironia della sorte, l'unico che sentivo veramente vicino era un amico attore che si trovava in Australia o chissà in quale parte del mondo. Probabilmente gli facevo così pena da farlo sentire obbligato a telefonarmi quasi tutte le sere.
Quanto mi facevano piacere le sue telefonate! Andavo a letto presto con un romanzo da leggere e aspettavo... Il telefono squillava e una voce meravigliosa mi augurava la buonanotte. Era buffo pensare che mi dicesse "buonanotte" quando per lui era giorno.
Parlavamo di tutto e di niente, di cose accadute, di pensieri e di sogni. Riuscivo a confidargli cose che non avrei mai detto a nessuno. All'inizio pensavo che fosse perché non potevo vederlo, perché era solo una voce, perché era come se in realtà stessi parlando a me stessa, ma poco per volta finii per ammettere che se gli aprivo il mio cuore era per i sentimenti che provavo per lui e per la comprensione ed il calore che sapeva trasmettermi. Mi esortava a tener duro e mi dava la forza di affrontare un giorno dopo l'altro, infischiandomene delle critiche e delle cattiverie che mi venivano rivolte. Ogni volta che mi trovavo in difficoltà pensavo a quello che lui avrebbe fatto o detto e, con mia sorpresa, scoprivo che potevo ribellarmi. Ormai non subivo più passivamente.
Il tempo passava e i miei problemi lavorativi diminuivano. Grazie al mio impegno finalmente ero riuscita a rendermi "visibile" agli occhi del mio capo, il quale mi coinvolgeva sempre più spesso nei progetti dello studio.
Con gli insegnamenti di Russ e la carica che mi aveva trasmesso ero diventata abbastanza forte da riuscire ad impormi anche se ero l'ultima arrivata. In pratica stavo facendo carriera.
In poco più di tre anni Paul Lémoire era diventato quasi un padre per me. Era severo ma sapeva ricompensarmi quando lavoravo bene. Intelligente, colto, ironico, onesto e coerente, mi ricordava l'unico altro uomo, a parte mio padre, che era stato importante per me e che ormai credevo di avere perduto. Le telefonate di
Russell, infatti, erano sempre più rare. Girava un film dietro l'altro e non aveva più tempo per me. Era giusto che si impegnasse così nel lavoro, il suo talento non doveva andare sprecato, poco importava che io ne facessi le spese. Vivevo di riflesso il suo successo e ne ero felice.
Andavo a vedere i suoi film, in lingua originale, insieme a Carla che nel frattempo era diventata la mia migliore amica. Mi immergevo nell'azione senza quasi respirare, per non perdere nessuna sfumatura della voce o delle espressioni di
Russ. Mi lasciavo ipnotizzare dai suoi occhi e quasi non riuscivo a credere che quell'uomo meraviglioso mi fosse stato vicino per anni.
Bud White, John Biebe, Jeff Wigand,... sfumature diverse per personaggi diversi. Riusciva ad immedesimarsi talmente nei suoi personaggi da cambiare quasi fisionomia.
Ogni volta che uscivo dal cinema mi precipitavo a scrivergli una e-mail. Avevo così tante emozioni da esprimergli che non mi bastavano le parole che conoscevo, quindi mi limitavo a scrivere:
"Sono stata a vedere lnsider... GRAZIE!". La sua risposta arrivava immancabilmente.
8 - Maurice
La vita di città non mi dispiaceva, ora che mi ero abituata ai suoi ritmi. I successi lavorativi mi avevano fatta diventare più sicura di me stessa e ormai non sentivo più la necessità di ritirarmi in disparte e di nascondermi dietro i miei disegni. Vivevo senza perdere nessuna delle occasioni che quel periodo meraviglioso mi offriva: feste, viaggi e qualche avventura che mi ero concessa giusto per verificare il mio nuovo successo con gli uomini. Ogni tanto il ricordo di Russell mi sfiorava riportandomi alla mente delle sensazioni che erano come l'eco di un passato ormai lontano. Non ne ero più innamorata, o almeno non avevo più bisogno di pensare a lui per sentirmi viva.
Le notizie che lo riguardavano le trovavo solo su Internet, dal momento che non ci sentivamo più da mesi. Sapevo che aveva finito di girare un film ambientato nell'antica Roma, ma non conoscevo nessun dettaglio in merito. In compenso i racconti dei suoi numerosi flirt erano decisamente particolareggiati ma non mi facevano più soffrire.
Fu in quel periodo che conobbi Maurice.
Ero alla festa per il sessantatreesimo compleanno di Paul e stavo chiacchierando allegramente con Carla. Da qualche minuto avevo notato un uomo sulla quarantina che continuava ad osservarmi senza avvicinarsi. Lo trovavo molto attraente con quei capelli scuri, lievemente brizzolati, che gli incorniciavano il viso abbronzato e dai tratti eleganti. I suoi occhi neri mi fissavano ostinatamente, probabilmente pensando che così facendo mi sarei avvicinata a lui. Sbagliato! Mi allontanai insieme a Carla poi, quando lei si fermò a parlare con alcuni conoscenti, raggiunsi il tavolo del buffet. Stavo riempiendomi il piatto di dolci quando una voce alle mie spalle sussurrò:
- Claire Blanchard? -
- Ci conosciamo? - dissi voltandomi e fissando i caldi occhi neri dell'uomo.
- Non di persona. Paul mi ha parlato di lei. Mi ha detto che è un'ottima pittrice. -
- Non dipingo molto, preferisco disegnare. -
- Mi chiamo Maurice Guégan. Dirigo una galleria d'arte. - Rimasi sorpresa, la galleria Guégan era piuttosto conosciuta in città, c'ero anche stata a vedere qualche mostra tempo prima. Di Guégan si parlava molto in giro: era ricchissimo, spregiudicato e maledettamente affascinante. Ora che me lo trovavo davanti mi rendevo conto che le chiacchiere erano vere.
Lui mi mise in mano un suo biglietto da visita e io notai la mano elegante e curata, dalle dita lunghe ed affusolate come quelle di un pianista. Un orologio costoso fece capolino dalla manica della giacca.
- Se le interessa organizzare una personale dei suoi lavori venga a trovarmi. - Detto ciò mi rivolse un sorriso seducente e si allontanò. lo rimasi perplessa a guardare come il suo elegante completo beige seguiva perfettamente i movimenti del corpo alto e asciutto.
Un paio di giorni dopo, con il pretesto di mostrargli i miei disegni, andai alla galleria. Non mi interessava allestire una mostra, volevo solo rivederlo...
9 - Vita di società
Anche l'ultimo visitatore se n'era andato. Maurice, seduto alla sua scrivania, scriveva qualcosa, probabilmente stava tenendo il conto dei disegni e dei dipinti che ero riuscita a vendere. Per allestire la mostra mi aveva chiesto solo una piccola percentuale sulle vendite. Molto generoso da parte sua! Mi ero chiesta più volte se non avesse in mente un modo particolare con cui avrei dovuto integrare gli scarsi guadagni che le mie opere gli avrebbero garantito. Invece, a parte un invito a cena, non era successo niente. A pensarci bene un po' mi dispiaceva e una punta della vecchia insicurezza era riaffiorata in superficie. Sicuramente per lui ero ancora una piccola provinciale priva della classe che avevano le donne che frequentava di solito. Mai farsi illusioni con gli uomini di quel tipo, l'esperienza con Russell avrebbe dovuto insegnarmi qualcosa, e invece...
Eppure ero carina con il vestito rosso corto e aderente che ogni tanto lasciava intravedere il bordo di pizzo delle autoreggenti nere. Mi sentivo molto sexy. Unico neo, le scarpe di vernice dal tacco altissimo che mi stavano distruggendo i piedi.
Dopo aver dato l'ultimo addio alle opere che avevo venduto e che l'indomani sarebbero state consegnate, mi lasciai cadere su uno dei divanetti.
Maurice alzò gli occhi dal registro e mi fissò posando gli occhiali sulla scrivania. Si era tolto la giacca e la cravatta e la luce di una lampada dietro di lui rendeva trasparente la camicia color avorio, lasciandomi indovinare il profilo del suo splendido corpo.
Mi si avvicinò porgendomi un bicchiere di scotch. Io lo accettai anche se quella sera avevo bevuto più di quanto potessi sopportare.
- Soddisfatta? - mi chiese sedendosi di fianco a me.
- Abbastanza. Potrei dire che sono contenta se i piedi non mi facessero cosi male! - Lui si inginocchiò, mi tolse le scarpe e prese a massaggiarmi i piedi. Io chiusi gli occhi per il sollievo e mi abbandonai contro lo schienale del divano.
- Mmmm... continua! - gli dissi. Non voleva essere un invito a qualcosa di più di un semplice massaggio ai piedi, ma gli fui grata nel sentire le sue mani alleviare la stanchezza delle mie caviglie e dei polpacci, e poi, lentamente, scivolare più su, oltre le ginocchia, a sfiorare la pelle nuda oltre il bordo delle calze.
Ero su di giri e non sapevo se per colpa dello scotch o per merito di Maurice. Lasciai che facesse di me ciò che desiderava lì sul divano, in mezzo ai pannelli che portavano appesi i miei disegni (tutti tranne quelli con Russell protagonista, che tenevo gelosamente nascosti in un baule a casa mia).
Al culmine del piacere, mentre mi muovevo su Maurice accarezzando ad occhi chiusi i muscoli asciutti del suo petto, la mia mente inseguiva un paio di occhi azzurri che scintillavano di piacere tra le ciglia abbassate, un ricciolo dorato incollato alla fronte, la vena del collo lungo e forte che pulsava sotto la pelle sudata… appena il mio corpo si placò e ripresi coscienza dell'ambiente intorno a me provai una punta di delusione nel fissare gli occhi neri di Maurice ed il bel viso dall'ossatura evidente che mi sorrideva soddisfatto.
Dopo quella volta io e Maurice cominciammo a frequentarci. Lui mi piaceva molto: era bello ed elegante, simpatico, un po' canaglia, mi faceva divertire e mi copriva di attenzioni. Passavo più tempo nel suo lussuoso appartamento in centro che a casa mia, perciò mi fu naturale accettare la sua proposta di trasferirmi da lui.
Iniziò così uno dei periodi più intensi e faticosi della mia vita. Per non sfigurare al fianco di Maurice mi sottoponevo ad ore e ore di palestra, sauna, massaggi e ad ogni sorta di torture per riuscire a strizzarmi nei costosissimi abiti che mi regalava in continuazione. Grazie a lui mi ero scrollata di dosso la mia innata pigrizia e mi davo da fare per prendermi cura di me stessa. Seguire i suoi consigli era il minimo che potessi fare per ringraziarlo della vita che mi stava offrendo, un susseguirsi di feste eleganti, cene nei migliori ristoranti e vacanze in località esotiche. Maurice mi aveva aperto le porte di un mondo che altrimenti sarebbe stato solo un sogno per una come me. Lo ammiravo per la classe che dimostrava in ogni suo gesto, lo amavo per i suoi sguardi che mi facevano sentire che era fiero di me.
I primi tempi furono inebrianti. Ero drogata d'amore, di sesso e di curiosità per tutto quello che c'era da scoprire nella mia nuova vita. Poco m'importava delle voci malevole che mi dipingevano come una cinica arrivista, una di quelle che, appena arrivate, puntano dritto allo scapolo più ambito della città con il solo scopo di conquistare potere e denaro. Dal momento che Maurice si fidava di me, non dovevo dimostrare a nessuno che i miei sentimenti nei suoi confronti erano sinceri.
Da lui imparai il modo di trattare con i clienti dello studio, dosando pazienza e fermezza ma arrivando anche a mandarli cordialmente al diavolo se ne valeva la pena! Ero diventata più decisa ed impaziente, non sopportavo le persone che non sapevano ciò che volevano, come l'insulso uomo d'affari americano che si era fatto ristrutturare una bella mansarda a due piani a Montmartre e pretendeva di avere completamente la supervisione dei lavori. Scattava un mare di foto per meditare con calma sulle scelte fatte ed ogni giorno arrivava in cantiere annunciando di avere delle modifiche da suggerire. Se non fosse stato un ottimo cliente, tanto che Paul mi aveva pregata di mantenere la calma, gli avrei detto in faccia cosa pensavo di lui. Aveva fatto saltare i nervi a tutti e fui felicissima quando i lavori terminarono.
Stavo ammirando il frutto dei miei sforzi e della mia pazienza quando suonò il cellulare e la voce profonda di Russell uscì potente dall'auricolare. Rimasi sorpresa perché era parecchio tempo che non lo sentivo.
- … Claire, tra una settimana passo per Parigi. Finalmente potremo vederci e… -
- Russ… -
- … ti poterò a cena in un posto speciale… -
- Russ… -
- … sono sicuro che ti piacerà. Claire, ho voglia di vederti… -
- Russ… per favore… non posso. Mi dispiace. -
La voce di Russell morì in un silenzio sorpreso.
- Senti… non sono più sola, capisci? -
Lo sentii sospirare.
- Mi dispiace. Anch'io ho voglia di vederti ma non posso andare dal mio ragazzo e dirgli che esco a cena con Russell
Crowe. Anche se non ci sarebbe niente di male, sono sicura che lui non capirebbe.-
- Perché cazzo non me l'hai detto? - Il suo scoppio di rabbia oltre a sorprendermi m'infastidì.
- Perché non te l'ho detto? Non ti fai sentire per quasi un anno e pretendi che io ti chiami solo per annunciarti… no… per chiederti il permesso di trovarmi un uomo? Tu non mi hai mai chiesto il permesso per infilarti in tutti i buchi che hai trovato! -
- Sei diventata volgare. -
- Ho imparato ad adeguarmi alle persone con cui parlo. -
- Ok, credo che noi due non abbiamo più niente da dirci. Divertiti Claire. - detto questo riattaccò.
Ero offesa ed arrabbiata: che diavolo voleva da me? Era ancora così convinto che io fossi la disperata che passava le giornate in solitudine a struggersi per un uomo che non avrebbe mai avuto? Ormai avevo una mia vita, delle giornate intense ed un uomo che mi amava. Non avevo bisogno di lui!
Per il resto della giornata, nonostante cercassi in tutti i modi di convincermi che avevo ragione ad essere offesa, non riuscii però a fare a meno di pensare che avevo perso uno dei pochi amici sinceri che avessi mai avuto. L'idea mi faceva stare così male che alla fine mi decisi a telefonargli. Fu un bene che ci fosse la segreteria telefonica, altrimenti non sarei riuscita a dirgli quello che veramente pensavo.
- Russ, sono io. Senti… mi dispiace, sono stata sgarbata e maleducata. Volevo dirti che mi ha fatto piacere sentirti, ormai non ci speravo più. Non volevo dirti le cose che ti ho detto, lo sai che ti voglio bene e vorrei che rimanessimo amici… - Avrei continuato così per tutta la giornata se il beep della segreteria non avesse terminato la registrazione. Mi aspettavo che lui mi richiamasse e invece niente.
Accidenti a te, ho messo da parte il mio orgoglio per chiederti scusa e tu continui a fare l'offeso?
Ok, come vuoi, io ho Maurice, che cavolo mi importa
di te?
Dopo qualche giorno mi arrivò un sms. "Amici", diceva. Era meglio di niente…
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