OLIVIA
Sono io, quella. Il nome che mi porto
appresso da trentasette anni era, come si usa dalle mie
parti, quello della nonna paterna. Un nome tutt’altro
che comune, a cui ho fatto fatica ad abituarmi e che,
quando ero bambina, costituiva per i miei compagni di
gioco il pretesto per canzonarmi. Olivia, come la
fidanzata tutta piedi di Braccio di Ferro.
Adesso quei tempi sono acqua passata.
Non ho ricordi molto felici della mia infanzia, e non
certo per le prese in giro degli altri ragazzini, che da
un orecchio mi entravano e dall’altro mi uscivano. Mia
mamma, che non aveva mai avuto molta salute, morì
quando avevo nove anni soltanto. Ne avevo dodici quando
mio padre si risposò, e il mio destino sarebbe stato
quello di essere sottratta alla scuola dopo il
conseguimento della licenza media per far da bambinaia
ai fratellini che sarebbero arrivati. La prospettiva non
mi sorrideva: mi piaceva studiare, e, secondo la
migliore tradizione, non andavo d’accordo con la mia
matrigna. E’ anche per questo motivo che continuo a
considerare la zia Maria il mio angelo.
Zia Maria, la sorella maggiore di mia
madre, non si è mai sposata e molti in paese trovano
alquanto strana la faccenda: da giovane, lei non era
certamente quella che si definirebbe una bellezza, ma
non era neanche brutta, e aveva un discreto conto in
banca incrementato dalla vendita di alcuni terreni
lottizzabili ereditati da uno zio prete. Ma ritenendo
incompatibili la professione, che esercitava con zelo
missionario e l’essere una buona moglie e una buona
madre, aveva rinunciato a crearsi una famiglia tutta
sua. In paese, per tutti zia Maria è sempre stata la
Signorina Maestra, colei che, prima del pensionamento
dopo quarant’anni di onorato servizio, aveva
instradato sulla via del sapere generazioni di
ragazzini. Una di quelle maestre di una volta con il
grembiule nero, la permanente coi ricci, dolce, ma al
tempo stesso ferma e anche severa, all’occorrenza, che
non te la dimenticheresti campassi mille anni e nel
cuore dei bambini occupa il secondo posto, subito dopo
la mamma.
E per me che l’avevo perduta, zia
Maria è stata davvero come e più di una mamma.
Conosceva bellissime storie, e aveva in mente di
raccoglierle in un libro. Tutte le sere, finito di
cenare, si metteva davanti alla macchina da scrivere e
scriveva, scriveva, picchiando i tasti con due dita
solamente. Scriveva di orchi e di fate, di creature
benevole e di mostri. Scriveva le storie che, bambina,
aveva ascoltato dai vecchi seduti davanti al portone di
casa nelle sere d’estate e davanti al caminetto quando
scendeva l’inverno e il vento di maestrale soffiava
gelido dalle montagne spazzando le strade e ululando
come “s’Erkidu” , l’uomo toro che nel
silenzio della notte scalpita e muggisce davanti alla
porta di chi, l’indomani, morirà.
Ai bambini, e anche ai grandi,
piacciono le storie che fanno paura. Zia Maria aveva un
modo tutto particolare di raccontarle, forse perché era
una persona istruita, non era mai stata superstiziosa e
guardava a storie e personaggi con l’interesse un po’
asettico della studiosa. E’ per questo che,più ancora
dei suoi, mi affascinavano i racconti di tzia* Peppa, la
donna di servizio che stava a casa nostra da tempo
immemorabile. Era bravissima in cucina, molto devota a
sant’Ignazio e alla Vergine di Bonaria e brontolava
spesso e volentieri. Non le avrebbe mai messe per
iscritto, le sue storie, poiché credo che sapesse a
malapena scrivere la sua firma. Ma se ne serviva quando
voleva mettermi paura, perché non riusciva a rendersi
conto che non ero più una bambina, per lei tale ero e
tale sarei rimasta chissà per quanti anni. Io non ho
paura di niente, le avevo gridato una volta esasperata.
Lei si era segnata e mi aveva sussurrato, senza
scollarmi gli occhi di dosso, “Ki no timmisi s’aremmigu
estij sinnabi malu, picciocchedda.”**dopodiché
era tornata alle sue faccende.
E’ passato tanto tempo da allora.
Tzia Peppa non sembra aver capito ancora che non sono
più una bambina. A settant’anni suonati, è attiva
come vent’anni fa e c’è soltanto qualche ruga in
più sulla sua faccia rotonda e rossa. Neanche zia Maria
è cambiata più di tanto. Ora che è in pensione, ha
più tempo per scrivere e il suo argomento preferito
sono le tradizioni locali, naturalmente. Ha cambiato la
vecchia macchina da scrivere con un computer portatile
che, dice, le semplifica di molto il lavoro; è una vera
esperta del nostro folklore,ha perfino pubblicato un
paio di libri in merito, con la benedizione del Sindaco
e della Pro Loco e, a livello locale, viene considerata
una vera autorità, la chiamano a tenere conferenze in
tutto il circondario.
In verità, l’unica ad essere
cambiata sono io. Non sono più una bambina, tzia Peppa
pensi quello che vuole, tra poco non mi si potrà più
definire nemmeno ragazza, anche se non sono sposata,
proprio come la donna che mi ha cresciuta e della quale,
in un certo senso, ho ereditato la professione. Già,
perché insegno anch’io. Non alle elementari, sono
docente di latino e storia all’Istituto Magistrale,
adesso lo chiamano Liceo Pedagogico, di un grosso centro
che dista qualche chilometro dal paese dove vivo. Il mio
lavoro mi piace, anche se mi sorprendo spesso a
brontolare contro gli alunni sempre più svogliati e il
governo sempre più disattento ai nostri problemi. Come
tutti coloro che hanno scelto il mio mestiere.
Chi mi conosce, mi considera carina e
in gamba. Ritengo che le anziane, qui in paese, pensando
a me si domandino spesso se non farò la fine di mia
zia, visto che a trentasette anni ancora, beh… Ho
avuto le mie storie, più o meno importanti, ufficiali e
clandestine. Un fidanzato, che ho lasciato dopo cinque
anni, quando ormai tutti davano per scontato il nostro
matrimonio. E un uomo più grande di me, sposato, dal
quale ho sperato invano, per il poco tempo in cui siamo
rimasti insieme, che lasciasse la moglie per costruire
una vita con me, anche se sapevo per certo che non l’avrebbe
fatto mai.
Come sono? Piccola, bellina e
sentimentale. Ho i capelli bruni e ricci, che ho sempre
portato lunghi, gli occhi scuri, la bocca delicata e i
denti bianchi: un tipo di donna che è molto comune
incontrare da queste parti e magari immaginare vestita
con qualcuno dei nostri fastosi costumi con il corsetto
a ricami floreali e l’orlo della gonna a pieghe
rifinito di pizzo dorato. In fondo a qualche cassetto ci
sono ancora un paio di vecchie foto che mi ritraggono
vestita così. Anche se non mi ci ritrovo: io sono
diversa, una donna di questi tempi che lavora, viaggia,
frequenta amici. Quello che sognavo di essere già da
bambina, quando Peppa credeva di mettermi paura con le
sue storie e io, screanzata, le ridevo in faccia.
Ci crede sempre, penso, anche se non
ne parla più. E io invece gliene parlerei, adesso,
anche se temo che questa volta sarebbe lei a ridere di
me, se sapesse…Una volta, tanti anni fa, mi aveva
raccontato la storia di un uomo che perse la sua anima
dopo essersi innamorato di una jana***. E non
immaginerebbe mai, povera donna, che anch’io ho
varcato quel confine, eluso quel divieto, amato, senza
saperlo, qualcuno che non era ciò che sono gli altri
uomini. Ma l’anima non l’ho perduta, nel momento in
cui abbiamo cercato conforto l’una nell’altro e ci
siamo amati. Non l’ho perduta. Di questo ne sono
sicura.
* zia, appellativo con cui ci si
rivolge alle donne anziane, non necessariamente parenti.
**”Se non temi il demonio è brutto
segno, ragazzina.”
***fata
S’ISTRANGIU
(Il forestiero)
E’ capitato in circostanze banali,
due anni fa, verso la metà di novembre. Era martedì,
avevo, come al solito la mattinata libera da impegni
scolastici, ma il preside aveva fissato per le tre
pomeridiane la riunione di consiglio di classe. Decisi
di scendere a SG, il grosso centro dove insegno, per
fare un po’ di spesa e portare Stella dal veterinario,
per il richiamo annuale delle vaccinazioni. Avevo
fretta, ma speravo che l’incombenza non avrebbe
portato via molto del mio tempo invece…I nvece trovai
la fila davanti alle casse al supermercato e la fila all’ambulatorio.
C’erano una decina di persone, prima di me, e un paio
di quei rompiscatole di rappresentanti che entrano
quando meno te l’aspetti e passano davanti a tutti.
Ammazzavo il tempo grattando la testa
ispida di Stella e buttando l’occhio ora sui clienti
in sala d’aspetto, ora sulla porta chiusa dell’ambulatorio,
domandandomi quando si sarebbe aperta e guardando
nervosamente ora il mio orologio ora quello appeso alla
parete. Mi si rimprovera spesso di non avere pazienza o,
forse, quella poca che ho la esaurisco a scuola, con i
ragazzi. E detesto, più d’ogni altra cosa, aspettare
il mio turno in fondo a una coda che non finisce mai,
specialmente quando ho fretta.Era mezzogiorno e mezzo e
mi avrebbe fatto piacere rientrare a casa, depositare il
cane e buttar giù un boccone, prima di rimettermi in
macchina per andare a scuola.
Stella se la dormiva tranquilla, con
la testa appoggiata alle mie ginocchia. L’avevo
trovata quattro anni prima, di ritorno dal lavoro,
abbandonata lungo il ciglio della strada. Allora era un
cucciolo di tre o quattro mesi, ma aveva fatto in fretta
a crescere, trasformandosi nella classica bastardona col
pelo ispido dal colore indefinibile, un orecchio su e
uno giù, la coda sempre in movimento, un carattere d’oro
e una bruttezza senza remissione. Tutti le eravamo
affezionati, perfino Peppa, che non aveva mai amato gli
animali e,a sentir lei, accoppava a sangue freddo
conigli e galline da quando era una ragazzina alta
così.
-Signorina Marras…*
Il nostro turno, finalmente. Per poco
non feci in tempo neppure a pensarlo, altro che ad
alzarmi dalla scomoda sedia di plastica sulla quale me
ne stavo seduta da poco meno di due ore. Prima di
poterlo fare, vidi un uomo fiondarsi in sala d’aspetto,
quindi nell’ambulatorio senza rispettare il suo turno.
Mi sarei messa ad imprecare come un facchino, non me l’avesse
impedito la creanza. Quella, e il grosso fagotto inerte
che l’uomo teneva tra le braccia, avvolto in una
coperta chiara macchiata di sangue.
Venne fuori dopo mezz’ora, e senza
fagotto tra le braccia, pensai tristemente. Ero a testa
bassa quando ci incrociammo mentre io entravo e lui
usciva e quasi non lo vidi. Notai solo i capelli lunghi,
raccolti a coda sulla nuca, gli occhiali scuri e il
giubbotto nero da motociclista. Stella, che è molto
socievole anche con gli sconosciuti, gli elargì due
scodinzolate e ne ebbe in cambio una frettolosa carezza.
Il suo cane doveva essere uscito malconcio da qualche
incidente stradale, pensai. E il veterinario, per
evitargli inutili sofferenze, lo aveva addormentato per
sempre.
Il dottor Pais, un uomo anziano
grasso e cordiale, ostentava un’espressione
preoccupata che non era quella consueta. Pur non
riuscendo a capire perché, feci due più due uguale
quattro e collegai la sua tristezza al fatto che avesse
dovuto abbattere il suo paziente. Non dev’essere una
decisione facile da prendere, questo l’ho sempre
pensato. Dopo che ebbe praticato l’iniezione a Stella,
applicato i timbri sul libretto sanitario e intascato l’onorario,
mi salutò senza scambiare, come di consueto, le solite
quattro chiacchiere su com’è cambiato il tempo e
sugli studenti che, al giorno d’oggi, non sono più
quelli di una volta. Gliene fui grata, avevo fretta anch’io.
Lo vidi appoggiato ad una Land Rover
nuova di zecca fumarsi la sigaretta fino al filtro e lo
salutai, anche se non l’avevo mai visto prima,quindi
non potevo dire di conoscerlo. Neppure ricordo quale
scusa inventai con me stessa per aspettare che montasse
sul suo fuoristrada prima di salire sulla mia Seicento.
Portava un paio di occhiali a fascia dalle lenti scure
che con tutta probabilità gli nascondevano gli occhi
arrossati dal pianto. Molti uomini grandi e grossi
piangono quando gli muore il cane, e lui doveva essere
di quelli. Per il resto, boh… Aveva i capelli lunghi
non troppo scuri, un filo di barba, l’abbigliamento e
l’atteggiamento dei ragazzi che amano le grosse moto,
frequentano i concerti rock e non disdegnano uno
spinello fumato in compagnia. Non aveva la tipologia
fisica che comunemente si attribuisce al sardo, ma
perché non poteva esserlo? I tempi sono cambiati, le
distanze si sono accorciate, le stirpi mescolate e anche
al mio paese e nella mia scuola molti giovani ormai sono
alti e chiari, invece che piccoli e scuri come i loro
genitori e i loro nonni. Giovani, già. Quello però
doveva avere almeno trent’anni, non
diciassette,diciotto come i miei studenti.
Eppure, c’era qualcosa in quell’uomo
dall’aria triste e dai tratti stranieri che m’incuriosiva
e m’inquietava. Me ne andai solo dopo che lo sentii
mettere in moto la sua auto. E dopo che ebbi raccattato
da terra un portafogli che, con ogni probabilità, era
scivolato fuori proprio dalla tasca posteriore dei suoi
blue jeans.
*ho scelto per la protagonista del
mio racconto questo cognome perché è molto comune in
Sardegna. Non ci sono altre ragioni.
IL PORTAFOGLI
Non avevo potuto restituirglielo nel
momento in cui l’avevo trovato, visto che l’uomo era
ripartito per tornarsene a casa e cercare di farsi, in
qualche modo,una ragione del dolore che la perdita del
suo amico gli aveva provocato. Meglio, pensai, chissà
perché. Più o meno inconsciamente, il forestiero mi
incuriosiva, e quella della restituzione del portafogli
poteva essere un’ottima scusa per rivederlo e magari
conoscerlo davvero. Perché, poi, non lo so. Non l’avevo
visto che per pochi secondi e di sfuggita;doveva essere
indubbiamente quel che si suole definire un bel ragazzo,
ma non era il mio tipo. L’abbigliamento estroso e
trasandato, i capelli lunghi li tollero solamente nei
cantanti rock, e poi preferisco gli uomini maturi,
quelli abbondantemente sopra i quaranta.
Che ora abbiamo fatto?L’una esatta.
La riunione è alle tre, casa mia a una decina di
chilometri da qui… Non c’è tutta quella fretta.
Prima di mettere in moto, aprii il portafogli per dare
una sbirciatina al contenuto e vagliare quegli elementi
che mi avrebbero aiutata a restituirlo al proprietario.
Conteneva esattamente quanto mi sarei aspettata, la
patente di guida, un paio di biglietti da visita, la
Mastercard e pochi spiccioli. Carino, pensai osservando
la fototessera sulla patente. Lì aveva i capelli più
corti, e gli occhi grandi e malinconici mi sembrarono
chiari, anche se era difficile dirlo con certezza. Si
chiamava Max Dacey Merrit ed era nato a Galway,
repubblica d’Irlanda il 7 aprile 1966.
Che cosa ci facesse un irlandese
dalle mie parti non me lo domandai a lungo, perché la
risposta la ebbi sbirciando il suo biglietto da visita,
un semplice cartoncino beige elaborato al computer e
stampato con una comunissima inkjet. Max D. Merrit,
località Pranu ‘e Jana, V. Seguivano il numero
di telefono, quello del cellulare e l’indirizzo e
mail.
A Pranu e Jana c’era una
vecchia casa colonica mezza diroccata che i proprietari,
residenti ormai da decenni a Cagliari, si erano decisi a
vendere, insieme con i terreni circostanti.La
transazione era avvenuta meno di un anno prima e i
lavori di ristrutturazione iniziati immediatamente e
portati a termine nel giro di pochi mesi. In paese
dicevano che il nuovo proprietario avesse in animo di
inaugurare un’azienda agrituristica e la notizia era
stata accolta con favore dai molti disoccupati che
speravano in un’occasione di lavoro. Parecchia gente,
al mio paese, vive sperando e quando si accorge che di
speranze non si campa allora emigra. Controvoglia,
perché noi sardi siamo legati alla nostra terra da
profonde radici, che è difficile estirpare senza
sentire dolore.
Nessuno sapeva chi avesse comprato la
cascina di Pranu ‘e Jana, né che cosa
intendesse farne. Qualcuno aveva visto movimento di
mezzi, uomini e cavalli, un paio di settimane prima,
quindi nelle botteghe,dal barbiere e la domenica prima
della messa aveva cominciato a circolare la voce che il
proprietario fosse un inglese interessato all’allevamento
dei cavalli.Poteva anche essere. L’importante,
chiunque sia e qualsiasi cosa faccia, è che assuma
qualche ragazzo, qualche padre di famiglia alla
disperazione. Dalle mie parti, in genere gli uomini sono
pastori e agricoltori, e molti di loro ci sanno fare sul
serio, con i cavalli.
A quest’ora si sarà sicuramente
accorto d’aver perso il portafogli, e sarà quantomeno
preoccupato, niente è seccante come smarrire documenti
e carta di credito, poi è capace che, essendo
straniero, lui non sappia neppure dove andare a parare…Poveretto.
Rassicuriamolo, pensai cavando fuori dalla borsetta il
mio portatile. Ho trovato il suo portafogli, signor
Merrit. L’ho qui con me e glielo porterò oggi stesso,
non appena riuscirò a liberarmi dai miei impegni di
lavoro… Trattenendo il fiato, cercai di richiamare
alla memoria tutto l’inglese studiato a scuola. Mi
raccomandai l’anima a Dio e composi il suo numero.
-Hallo Mr Merrit? It’s Miss Marras.
I found your wallet, and…
-Sì?! Fantastico. Lo sa che stavo
per bloccare la carta di credito? Neanche immagina
quanti fastidi mi ha risparmiato…
Disse esattamente quel che mi
aspettavo. Ma non COME me lo aspettavo: in un italiano
pressoché perfetto e quasi completamente privo delle
inflessioni britanniche che era lecito attendersi. La
voce lenta, grave, impostata come quella di un attore di
teatro, poi, era bellissima, la più bella che avessi
mai sentito, nemmeno i sibili, i fruscii e gli schiocchi
del mio cellulare quasi scarico riuscivano a rovinarla.
La riunione di consiglio di classe mi era sembrata
terribilmente lunga, quel pomeriggio.
PRANU ‘E JANA
(Piano della fata)
Inventai una scusa con il preside e i
colleghi, e riuscii a guadagnare una decina di minuti.
La strada dal centro dove insegno al mio paese è
abbastanza trafficata, eavrei dovuto percorrere, una
volta arrivata a casa, un altro paio di chilometri di
strada bianca prima di giungere a Pranu ‘e Jana.
Generalmente guido con prudenza e non
mi piace correre. Quel giorno superai i cento e ancora
adesso mi domando come ho fatto. Quando giunsi nei
pressi dei cancelli, notai che l’edificio era stato
ristrutturato in modo tale da non stravolgere le sue
caratteristiche originarie. Bel lavoro, pensai. E pensai
anche che, se fosse finito nelle mani di qualche cafone
arricchito locale, sicuramente sarebbe stato trasformato
in uno dei molti obbrobri architettonici che infestano
centri abitati, campagne e spiagge, minacciando
seriamente di deturpare la bellezza austera della nostra
terra.
Scesi dall’auto e fui assalita dai
latrati violenti di due cani, due grossi lupi, che si
lanciavano contro il recinto e ringhiavano mostrandomi i
denti. Colui che venne ad aprirmi dopo aver ammansito le
belve aveva l’aspetto di un nordafricano e qualche
volta mi era capitato di incontrarlo nella bottega di
generi alimentari o dal panettiere. Aveva fatto da poco
la sua comparsa in paese e non avevo idea che lavorasse
qui. Mi invitò a seguirlo, spiegandomi in un italiano
incerto che il signor Merrit mi stava aspettando e
rassicurandomi a proposito dei cani.
-La signorina… Marras mi pare?
Indossava un paio di jeans scoloriti,
una polo nera a maniche corte, e si cacciava
continuamente indietro con gesti nervosi delle mani i
capelli che, sciolti questa volta, gli arrivavano alle
spalle.
-Si accomodi dove le pare, e scusi il
disordine, è solo quindici giorni che sto qui e ancora
non ho potuto sistemare tutto.
Ancora una volta mi stupii del suo
ottimo italiano e di quanto fosse ammaliante la sua voce
calda e profonda.
Disordine ce n’era parecchio
davvero, lì dentro, e anch’egli mi sembrò… molto
attraente e molto disordinato, come se in lui ci fosse
qualcosa fuori posto. O forse era proprio lui ad essere
fuori posto, un irlandese che parlava l’italiano
meglio degli italiani e che all’inserviente marocchino
si rivolgeva addirittura in arabo. Doveva essere
particolarmente versato per le lingue, contrariamente a
quanto accade di solito agli anglosassoni. Forse le
aveva apprese viaggiando e soggiornando a lungo all’estero…
Ma per averlo fatto davvero avrebbe dovuto avere un
numero di anni molto superiore ai trentatré denunciati
dai suoi documenti.
Quando gli allungai il portafoglio mi
sorrise e le sue dita sfiorarono le mie. Gli sorrisi di
rimando e pensai che, con quei capelli che gli
ruscellavano giù per le spalle, la barbetta che gli
incorniciava le mascelle forti e il mento volitivo e,
soprattutto, gli occhi azzurri dall’espressione
dolcissima, rassomigliava a un Cristo rinascimentale.
Era alto, anche se avevo conosciuto uomini più alti di
lui. Mi colpirono la prestanza del suo corpo, le spalle
larghe, le braccia muscolose che la maglia a mezze
maniche non nascondeva. Non avrà freddo,così
sbracciato, in fondo è novembre, pensai stringendomi
nel mio caldo maglione di lana. Sicuramente è abituato
a climi ben più rigidi di questo, mi risposi da sola.
Emanava odore di sapone di Marsiglia
e un’aura irresistibile di seduzione di cui mi
domandai se si rendesse conto. Probabilmente sì, anche
se non lo dimostrava: se avesse cominciato a circolare a
V, sicuramente le donne avrebbero impiegato poco tempo a
notarlo e i ragazzi a detestarlo.
Ho detto che mi ricordava un Cristo
rinascimentale, per via dei capelli lunghi, della barba
e degli occhi azzurri e dolci. Ma a guardarlo bene,
quest’impressione svaniva. Troppo sensuale e seduttivo,
una creatura fatta al tempo stesso di carne e di magia,
come gli esseri di cui mi raccontava tzia Peppa quando
ero bambina. Come la jana che aveva dato il nome
alla località dove mi trovavo in quel momento e che,
secondo una leggenda, aveva portato alla follia e alla
morte l’uomo che aveva avuto la sventura d’innamorarsene.
-Le dà fastidio se fumo?
-Non si preoccupi, signor Merrit…
-Max. E lei?
-Olivia.
La mano che teneva la sigaretta gli
tremò per un attimo lungo il tempo di un battere di
ciglia e un brivido che non mi sfuggì gli attraversò
la pelle. Forse aveva freddo, anche da noi a novembre
non è il caso di girare a maniche corte, pensai. Ma gli
fui grata che l’avesse fatto. Quella notte, decisi che
avrei sognato di dormire stretta tra le sue grosse
braccia.
-Sta a SG?
-No, abito a V. A SG lavoro.
-Dal dottor Pais?Dal veterinario?
-No, insegno in una scuola. Latino e
storia al liceo.
Un largo sorriso gli illuminò il
volto dai tratti regolari,quasi delicati. Quando
sentenziò un “notevole” si sentiva che le sue non
erano vuote parole di circostanza. Volle sapere se i
miei alunni mi seguivano con interesse e io, scotendo la
testa con espressione di esagerata mestizia, fui
costretta a deluderlo. I ragazzi di oggi non sono molto
interessati al passato, gli dissi.
-Eppure, ero convinto d’averla
incontrata stamattina all’ambulatorio veterinario. E
anche di averlo perso lì, il fottuto portafogli... Oh,
mi scusi, miss.
-Effettivamente. Avevo la mattinata
libera da impegni scolastici, e ho portato il mio cane
dal veterinario per il richiamo delle vaccinazioni. A
proposito… Mi dispiace per quel che è successo al
suo. Immagino come ci si possa sentire.
-Non era il mio cane… Olivia. Era
semplicemente una povera bestia che qualcuno ha
investito e poi è scappato. Ma sarei stato felice se
fossi riuscito a salvarlo, invece…
Lo guardai mordersi le labbra,
contrarre nervosamente la mascella, come se avesse
qualcosa da dirmi ma non osasse farlo. Trovai
meraviglioso che quell’uomo avesse perso il suo tempo
per soccorrere un povero randagio investito da un’auto
pirata, il suo denaro per cercare di salvarlo. La sorte
dei cani randagi mi commuove e mi indigna da quando ero
alta così. Forse perché anch’io, da bambina, mi sono
sentita abbandonata, da mia madre, dal destino, da chi
non importa.
-Venga con me.
Avrei voluto dirgli mi dispiace, ho
fretta, sono le sei passate e detesto guidare con il
buio, anche se da qui a casa mia ci saranno al massimo
un paio di chilometri. Arrivederci, Mr Merrit, è stato
un piacere conoscerla. Ma non dissi nulla, e lo seguii
fuori. Si era gettato sulle spalle un giubbotto di tela
cerata che, ai miei occhi, lo faceva rassomigliare a un
navigatore solitario. Beh, doveva essere abituato a
guardare in faccia e a prendere a pugni le difficoltà
che incontrava strada facendo, compresa quella di
venirsene a stare qui, lui, uno straniero, in un
paesetto della Sardegna lontano dalla città, dal mare,
dai flussi turistici, da tutto quanto. Per fare che
cosa? In Irlanda allevava cavalli, mi disse. Era
interessato alla nostra bella razza, animali agili,
nevrili, nelle cui vene scorre il sangue dei campioni
inglesi e arabi. Aveva già acquistato cinque giumente.
-Voglio farle vedere una cosa.
Mi ricordò un bambino che mostri
entusiasta ad un adulto i suoi giocattoli nuovi.
-Non si avvicini troppo… Non è
tagliato.
Già. Si dice che i cavalli non
castrati siano imprevedibili e pericolosi. Forse anche
quello lo era. Un bellissimo animale, nero come la
notte. I manti morelli sono piuttosto rari, sentenziò.
E quelli così lucidi e perfetti, quasi unici.
-Lei che nome gli darebbe?
Non ci pensai più di tanto.
Ossidiana. La pietra vulcanica nera e tagliente come
vetro con cui i miei antenati forgiavano le lame, prima
d’imparare l’arte di fondere i metalli.
Mi avviai verso il cancello,
affiancata da lui e preceduta dai suoi cani. Agili e
guizzanti come spiriti della notte, sembravano due lupi.
Il lupo non è un animale dei nostri boschi, in Sardegna
non ce ne sono mai stati. Forse è per questo motivo che
le vecchie sono state costrette ad inventarli loro, i
mostri per mettere paura ai bimbi capricciosi, su
mommotti, sa palpaeccia, sa mamma e funtana…*
C’era qualcosa di primitivo,
ancestrale in quei due animali agili e snelli, che si
rincorrevano nella luce bassa del crepuscolo per poi
fermarsi ad aspettare il loro padrone. Non mi sembrano
due pastori tedeschi, domandai al mio interlocutore
temendo di fare la figura della stupida. No, non lo
sono, rispose lui. Mi sono sempre piaciuti i cani che
rassomigliano ai lupi ma trovo che i pastori tedeschi
siano animali troppo manipolati dall’uomo. Questi sono
Saarloos wolfhounds e discendono dal frutto dell’esperimento
di un veterinario olandese che, anni orsono, incrociò
un cane con una lupa. L’uomo ha sempre incrociato cani
e lupi, da che il mondo è mondo. Nell’antica Roma, la
prassi era comune.
-Si chiamano Caesar e Cleo.
Mi disse allungando loro una carezza.
Li avrei accarezzati anch’io, mi fossi fidata di loro:
ma erano animali d’una quarantina di chili, forti e
risoluti. E non trovavo rassicurante il loro aspetto
selvaggio.
-Lei deve amare molto gli animali.
Annuì, con un breve cenno di
assenso. Quindi, prima che potessi salire sulla mia
auto, mi afferrò per un braccio e, senza staccare i
suoi occhi dai miei, mi disse a bassa voce:
-Quel cane che ho portato stamattina
dal veterinario… Beh, aveva il bacino e la colonna
vertebrale fratturati. Penso che sia stato investito da
qualcuno che poi ha tagliato la corda. Succede.
Già, succedeva e succede. Gli occhi
di Mr Merrit continuavano a fissarmi, addolorati e
furiosi, scintillanti come fuochi fatui.
-Ma c’è dell’altro. Quel cane
era un pitbull. Guercio, con un orecchio sbrindellato,
pieno di vecchie cicatrici e ferite recenti,alcune
ancora fresche. Morsi, miss. Da queste parti qualcuno
organizza combattimenti clandestini di cani.
*Si tratta di spiritelli malvagi
che, secondo la tradizione, dovrebbero spaventare i
bambini disubbidienti.
FESTA DI NOZZE
Il giorno seguente al nostro primo
incontro mi fece recapitare un’orchidea e un grazie
scritto sopra uno dei suoi biglietti da visita. Peccato,
pensai, che non fosse una rosa. Detesto le orchidee, le
loro forme bizzarre e asettiche, il fatto che non
emanino alcun profumo. Ma il pensiero era stato gentile
da parte sua, e mi aveva resa felice. Peppa mi chiese se
avessi un nuovo corteggiatore, e io facendo finta di non
notare il suo sorriso largo fino alle orecchie, frugai
dentro la borsa alla ricerca del cellulare. Il suo
numero era rimasto in memoria, per fortuna. Gli mandai
un sms per ringraziarlo e dirgli che non si sarebbe
dovuto disturbare, restituendogli il portafogli non
avevo fatto altro che il mio dovere.
Per un paio di giorni, non pensai
più a lui, anche se avevo deciso che avrei conservato
in mezzo a un libro la sua orchidea, quando si fosse
seccata. In fondo, sono rimasta una ragazzina
sentimentale.
Lo incontrai di nuovo un sabato di
fine mese, dove mai avrei immaginato. Si sposava la
figlia del più grosso proprietario terriero di V, uno
che in banca aveva i miliardi. Ero stata invitata e
andai, anche se ne avrei fatto volentieri a meno. Sapevo
che sarebbe stato il solito matrimonio della gente ricca
e cafona, con una torma di invitati sbracati, di
mocciosi urlanti e il contorno delle sbronze, dei
discorsi senza capo né coda, dei coretti “e per gli
sposi, hip hip hurrà” e degli scherzi volgari.
Qualcuno ci si diverte, io invece non amo queste cose.
Ero stata invitata perché madrina di cresima di una
sorellina della sposa e proprio non potei farne a meno,
offendere Totore* Collu e il suo clan era affar serio…Ci
andai, a parte gli scherzi, sapendo che mi sarei
annoiata e riproponendomi di tagliare la corda appena
possibile. Come se non bastasse, avevo le mestruazioni,
mi ero beccata una congiuntivite che mi costringeva
giocoforza a rinunciare al trucco e alle lenti a
contatto, quindi quella sera non sarei stata al culmine
del mio fascino.Detesto portare gli occhiali e fuori
casa non lo faccio mai, anche se spendo un sacco di
soldi in montature all’ultima moda che mi stanno pure
bene, a detta dei più. Mi sembra che mi conferiscano un’aria
da maestrina saputella. Ma tanto non avrei dovuto
affascinare nessuno, alle nozze di Barbarina Collu.
Quando lo vidi da lontano, con i
capelli raccolti sulla nuca e l’abito blu di sartoria
che indossava con il piglio di un principe, prima di
maledire gli occhiali e la congiuntivite, prima di
pregare il Cielo che non mi notasse, mi domandai che
cosa ci facesse anche lui lì. Poi ricordai che la sua
proprietà confinava con quella di Totore Collu: era
stato invitato in quanto vicino di casa.
Che non mi vedesse era da parte mia
una piissima illusione. Mi puntò da lontano, mi venne
incontro sorridendo e mi costrinse a sedersi vicino a
lui. Così mi terrà compagnia, qui dentro non conosco
nessuno.
-Oggi è veramente carina, Olivia.
Giuro che l’avrei strozzato. Ho i
lineamenti marcati e i colori decisi delle donne della
mia terra, quindi anche senza trucco non sembro
particolarmente scialba. Di solito. Ma non quando devo
portare gli occhiali perché costretta dalla
congiuntivite, per esempio. O quando sono afflitta dalle
mie tormentose mestruazioni che mi costringono a
imbottirmi di analgesici per reggermi in piedi. Disturbi
di origine psicosomatica, hanno sentenziato i molti
ginecologi che mi hanno visitata. Dovresti prendere
marito e fare un figlio:guariresti. Era la solfa che
tzia Peppa mi ripeteva tutti i mesi. Ma i complimenti
che il bell’irlandese mi elargiva con la sua dolce
voce ipnotica e il suo sorriso da bambino discolo mi
facevano piacere: fossero o non fossero sinceri. Anche
perché adoravo vederlo sorridere e sentirlo parlare.
Fu grazie a lui se quella sera non mi
annoiai, nonostante i presupposti ci fossero tutti. E fu
piacevole sentirsi addosso le occhiate invidiose di
tutte le donne presenti, compresa la sposa, bassotta,
grassottella ,con quel vestito dalla gonna a mongolfiera
grondante pizzi e trine che doveva essere costato un
patrimonio e non le donava affatto. Mi ritrovai per un
attimo a pensare che non mi sarebbe piaciuto proprio, un
matrimonio chiassoso, volgare e sbracato come quello. Se
mai mi fossi maritata: avevo quasi perso le speranze e,
dopo aver lasciato il mio fidanzato storico e l’uomo
sposato sempre in bilico tra amore e dovere, l’idea
del matrimonio non mi sorrideva affatto. Forse avevo,
come zia Maria, la vocazione della zitella.
-Mi accompagna fuori? Avrei voglia di
fumare e qui non si può.
E io avrei avuto voglia di fargli la
predica, il fumo fa male, accorcia la vita… Come se la
sua vita fosse mia, o Max fosse qualcuno dei miei alunni
ancora minorenni a cui fare la ramanzina. Ma lo
accompagnai ugualmente fuori a fumarsi la sua piccola
dose di veleno e a prendermi tutto il freddo di quella
serata di fine novembre spazzata da un maestrale gelido
e forte.
Era elegantissimo, nel suo completo
blu scuro. Portava la camicia, azzurra come i suoi
occhi, aperta sul collo. Mi confidò che non metteva la
cravatta neanche nelle occasioni più formali. Neanche
il giorno che si sposerà? Lui piegò all’ingiù le
labbra e si strinse nelle spalle. Poi mi disse:-Posso
darti del tu, Olivia?-Accennai di sì con la testa e non
gli dissi che non aspettavo altro.
-Ho mangiato ottimamente, bevuto
anche meglio e… e mi sarei annoiato a morte, non fosse
stato per te. Grazie, Olivia.
Allora poteva sembrarmi assurdo, o
dettato comunque da motivi che ancora non conoscevo, ma
il modo in cui pronunciava il mio nome mi faceva sentire
i brividi fin dentro le ossa. Percepivo, nel suono della
sua voce, desiderio che non osava esternare per la paura
di offendermi, chissà, una dolcezza struggente e un
dolore che niente e nessuno poteva lenire. Era un uomo
strano: gli piaceva godersi la vita, al banchetto di
nozze aveva dimostrato di essere un gagliardo mangiatore
e bevitore, quasi sicuramente era anche un gagliardo
amatore, e non mi sarebbe affatto dispiaciuto appurarlo…
Eppure il sorriso che spesso gli accendeva lo sguardo
intenso si convertiva in malinconia senza una causa
apparente, per me che non lo conoscevo abbastanza da
poter leggere nei suoi pensieri.
-Torniamo dentro?
Scossi la testa in un cenno di
diniego. Non volevo, e neanche lui. La gente avrebbe
mormorato, e chi se ne importava. Piuttosto, faceva
freddo e la giacca che indossavo sopra una camicia di
seta bianca e pantaloni ampi di velluto non mi
proteggeva abbastanza. Lui, invece, nonostante avesse
addosso più o meno lo stesso quantitativo di indumenti
che avevo io, sembrava non sentire il fendente del vento
che a me tagliava la faccia.
-Vieni con me, se non vuoi ancora
rientrare. Almeno possiamo stare caldi e chiacchierare
un po’.
Mi fece accomodare sul suo grosso
fuoristrada che odorava di verbena, buccia d’arancia e
pelo di cane. Notai una sella e finimenti borchiati, sul
sedile posteriore. Un giorno, gli avrei chiesto se fosse
disposto a insegnarmi a cavalcare: è da quando ero
bambina che lo desidero. Perché non allora? Lui mi
aveva passato il braccio intorno alle spalle, e mi
stringeva piano, quasi a proteggermi da chissà che
cosa. Aveva una muscolatura forte e un sentore
impercettibile di sapone al sandalo. Non usava profumi.
Quando mi chiese se avessi un chewing gum da offrirgli,
temetti, o m’illusi, che intendesse baciarmi e voleva
che il suo bacio sapesse di menta piuttosto che di
gamberi, vino e grasso di maialetto arrosto. Ma non lo
fece.
Non avevo notato, prima, il minuscolo
brillante che gli scintillava al lobo dell’orecchio
sinistro. Come non avevo notato le quattro sottili
cicatrici parallele sul collo. Aveva una bella
carnagione, chiara e compatta, segnata da qualche ruga d’espressione
sulla fronte e agli angoli degli occhi, un profilo da
medaglione, labbra delicate e una splendida
capigliatura: era, decisamente, l’uomo più attraente
con cui avessi mai avuto a che fare.
Il vento continuava a soffiare,
scotendo, freddo e impetuoso, i rami spogli delle
acacie. Molte delle leggende che mia zia o qualche
vecchia mi avevano raccontate erano nate ascoltando quel
suono lugubre come il muggire lamentoso di una creatura
che sconta, soffrendo, colpe che la giustizia terrena
non è stata in grado di farle pagare.
“Malladittu e bentu estu!Mi parisi
s’Erkidu kandu a su notti si n’di andada moliendi e
atzappuendi is peis aint’e bidda…Insarasa, tottus si
tremminti, piccioccheddus, femminasa, ominis fottis,
beccius e giovunus…”**
Mi sorpresi a pronunciare le parole
che avevo sentito tante volte da tzia Peppa. Ma non mi
sorpresi quando lui mi guardò con aria interrogativa e
mi domandò cosa stessi dicendo. Da queste parti, gli
spiegai, si crede che gli assassini sfuggiti alla
giustizia umana non sfuggano a quella divina neppure in
vita. Di notte si trasformano in buoi giganteschi, che
hanno le corna alte come forche e girano muggendo e
strepitando per le vie del paese. Se si fermano davanti
a un portone battendo lo zoccolo e levando al cielo i
loro alti lamenti, significa che in quella casa qualcuno
morirà… Solo un coraggioso che li atterri e seghi a
colpi d’ascia le loro corna d’acciaio temprato
potrebbe liberarli dalla maledizione e dall’inferno
che li attende dopo la morte: ma nessuno si azzarda a
farlo.
-Tu ci credi?
-Sono solo favole, buone per i
bambini e per gli sciocchi. Ma hanno il loro fascino e
sono parte della nostra cultura. E nelle notti di
maestrale… Beh, la solitudine fa paura.
-Anche in Irlanda abbiamo le nostre
favole e i nostri spauracchi. E le nostre fate.
Aveva socchiuso gli occhi e sorriso,
e allora gli raccontai quel che le vecchie dicevano a
proposito di Pranu ‘e Jana,
il luogo dove aveva scelto di vivere.
“Molto tempo fa, un giovane cacciatore, mentre
inseguiva un cinghiale ferito, incontrò la Jana.
Era una bellissima creatura piccola come una bambina,
dagli occhi mutevoli e dai lunghi capelli neri che le
arrivavano alle ginocchia. Vederla e innamorarsene fu
tutt’uno… Lasciò casa sua,la giovane moglie e il
loro bambino e andò a vivere con lei nelle forre in
mezzo ai boschi. Non so se non lo sapesse o volle
ignorarlo di proposito: le Janas vivono migliaia
di anni e la vecchiaia non può niente contro di loro.
Lui, se una disgrazia o una malattia non lo avessero
tolto prima dal mondo, era destinato a invecchiare in un
tempo che per la piccola fata equivaleva a qualcuno dei
nostri giorni. E quando al cacciatore cominciarono a
incanutirsi i capelli e a guastarsi i denti lo scacciò.
Sei un vecchio, gli disse. Non so che farmene di te. Lui
si gettò da una rupe e morì, dannando la sua anima.”
Mi teneva stretta al suo petto, e non
potei ignorare il pulsare rapido del suo cuore, il
tremito che gli attraversò la pelle.
-Olivia…
Dal tono struggente con cui
pronunciava il mio nome, dedussi che doveva aver
conosciuto, e perduto, una persona che si chiamava come
me e che era stata cara al suo cuore. Ma non compresi il
perché del suo turbamento quando gli raccontai quella
stupida vecchia storia che Peppa mi aveva narrato
centinaia di volte e che, naturalmente, era finita nel
libro di mia zia.
-Torniamo dentro, Max: credo che gli
sposi stiano per tagliare la torta.
*Salvatore
**Maledetto maestrale! Mi sembri s’Erkidu
quando a notte fonda se ne va in giro muggendo e
scalpitando per le strade del paese. E allora tutti,
bimbi, donne,uomini forti, vecchi e giovani tremano di
paura.
IL BRANCO
Non mi aveva baciata come speravo, la
sera del matrimonio di Barbarina Collu. Era un uomo
strano, e non riuscivo a capacitarmi del fatto che non
ci provasse, come tutti quanti, quando si trovano ad
avere a che fare con una donna piacente, libera e per
giunta tutt’altro che impermeabile al loro fascino. Mi
chiesi perfino, stizzita, se non fosse omosessuale. O
se, faccenda più verosimile, io non fossi abbastanza
desiderabile, per quel dio che lui era.
Ci frequentavamo da amici che stanno
bene l’uno in compagnia dell’altra. Parlavamo di
tante cose ma, nonostante avessi intuito che il suo
cuore era pieno di segreti anche dolorosi, non mi aveva
mai rivelato niente di sé. Né io osavo chiederglielo,
era come se temessi di fargli del male, di uccidere sul
nascere un sogno che aveva mostrato da subito
preoccupanti segni di fragilità. Non mi aveva mai
baciata, ma gli piaceva cingermi le spalle e tenermi
stretta al petto. E allora io percepivo la forza fisica
incredibile, quasi brutale, del suo corpo. Un giorno,
gli dissi che mi ricordava un antico gladiatore.
-Un imbecille pieno di muscoli il cui
solo scopo dell’esistenza era ammazzare per non essere
ammazzato?- Aveva commentato lui con una risatina -Come
ti è venuta in mente un’idea simile?
-I gladiatori piacevano molto alle
donne. Nelle sue Satire, Giovenale parla di una gran
dama, una certa Eppia, che perse la testa e la decenza
appresso a uno di loro.
-Sergiulus. Un poveraccio sfregiato
dalle cicatrici, con la testa calva e un grosso
bitorzolo sul naso.*
Prima di darmi il tempo di domandarmi
come mai quel cavallaro irlandese conoscesse Giovenale,
si chinò a baciarmi sulla fronte, e mi strinse forte
contro il panno del suo lungo cappotto blu scuro.
Stavamo uscendo da un pub di SG ed evidentemente
qualcuno ci aveva visti perché il giorno dopo, a
scuola, una mia alunna mi disse, con gli occhi che le
scintillavano e un sorriso fino alle orecchie:-Che figo
il suo ragazzo, prof!
Ho detto che era un uomo strano.
Adesso dirò che era anche incredibilmente generoso. Ne
ebbi le prove qualche giorno prima che incominciassero
le vacanze di Natale. Eravamo scesi a Cagliari a goderci
una pizza e un bel film ed era quasi l’una di notte,
quando rientrammo a SG. Avevamo viaggiato sulla mia
Seicento, ma avevo lasciato che fosse lui a guidare: mi
sembra di avere già detto che detesto farlo con il
buio. Era una nottata fredda, ed eravamo rimasti quasi
senza benzina. Max si avvicinò ad un distributore
automatico e lo guardai trafficare con la pompa e la
carta di credito, sperando che non mi chiedesse di
aiutarlo, perché mai in vita mia ho osato lasciarmi
sfiorare soltanto dal pensiero di mettermi ad armeggiare
con quei marchingegni. Poco lontani da noi, sedevano un
paio di ragazzotti, che chiacchieravano di faccende loro
incuranti del freddo. Li guardai bene, e riconobbi Bebo.
In quattro e quattr’otto, decisi che dovevo parlargli.
Lui mi guardò scendere dall’auto,
avvicinarmi a quei due ragazzini. Pensai che avrebbe
voluto dirmi qualcosa, forse di non farlo.E’ notte
fonda, potrebbero essere tipi poco raccomandabili.
Spesso i minorenni deviati sono più pericolosi dei
delinquenti incalliti.Ma io conoscevo quel ragazzo. Era
un mio alunno, e aveva mollato la scuola. Volevo
convincerlo a ritornare.
Bebo mi indirizzò un sorrisetto
sghembo, prima di dirmi vattene, non abbiamo niente da
dirci io e te. Sapevo che si era messo a frequentare
brutte compagnie e che i suoi genitori avevano perduto
qualsiasi controllo su di lui, malgrado fosse ancora
minorenne. Li conoscevo, erano due persone a posto,
senza particolari problemi ma il padre, rappresentante
di commercio, era spesso lontano da casa per lavoro
mentre la madre, una donna debole e senza carattere,
lasciava fare ai figli tutto quel che volevano.
Mi ripugnò il modo in cui mi si era
rivolto, forse perfino più di come era conciato: testa
rasata, orecchie, narici, sopracciglia crivellate di
buchi. Fosse mio figlio, lo prenderei a schiaffi, mi
ritrovai a pensare.
-Allora…
-E lasciami in pace, troia!
Certo che ti lascio in pace. Ma avrai
modo di pentirti di ciò che stai facendo, ragazzino. E
guardati come sei combinato, sembri un…
Non feci in tempo a terminare la
frase, che mi ritrovai circondata da cinque o sei
giovinastri conciati come Bebo, ma più grandi di lui
per età e corporatura. Questi non erano mocciosi che
giocavano a fare i duri, mi ritrovai a pensare. Questi
facevano sul serio. Uno stringeva in pugno una pattadese**,
un secondo un guinzaglio all’altro capo del quale
stava un botolo ringhioso non molto grande ma con il
corpo tarchiato e canini impressionanti. Un pitbull.
Urlai. Mi ritrovavo sola circondata
sei o sette pessimi soggetti sicuramente alterati da
qualche droga, era buio, la strada deserta… Anche Max
non avrebbe potuto molto contro di loro. Max. Il mio
gladiatore.
Disarmò quello con il coltello con
due mosse veloci di una lotta che mi sembrò karate,
anche se non me ne intendo. L’altro liberò il cane
dal guinzaglio e glielo aizzò contro. Vidi la
bestiaccia bloccarsi di fronte a Max, immobile,la coda
bassa, il pelo ritto. Mi sembrò di sentirlo guaire come
un cucciolo spaventato, senza che lui gli avesse fatto
niente.
Si dileguarono in pochi istanti.
Tutti meno Bebo. Aveva perso l’aria di sfida e
guardava Max, che gli aveva appena somministrato due
manrovesci, con la stessa aria stranita del cane.
Avrebbe voluto parlare, magari chiederci scusa.
-Ti piacciono i cavalli? Se non l’hai
fatto ancora, mettiti in regola con il richiamo dell’antitetanica***
poi vieni a lavorare da me. Spalare un po’ di letame
dovrebbe insegnarti a stare al mondo, ragazzino. E
faresti bene a tornare a scuola, come ti ha consigliato
la tua insegnante. Così almeno non butterai via la tua
vita.
*Giovenale, Satira Sesta.
**Coltello a serramanico prodotto
artigianalmente dai coltellinai di Pattada (Sassari)
***Gli escrementi equini contengono
le spore della grave malattia;pertanto la vaccinazione
è obbligatoria per chi lavora a contatto con i cavalli.
BEBO
Non fosse stato troppo giovane per
esserlo davvero, avrei potuto tranquillamente affermare
che Max si comportò come un padre nei riguardi del
ragazzo. Ed era quello di cui lui aveva bisogno, per
riprendersi la vita che stava gettando via, a
diciassette anni soltanto. Mi chiese scusa e promise,
anzi giurò che sarebbe tornato a scuola, dopo le
vacanze di Natale. Era sempre stato uno studente senza
infamia e senza lode, ma comunque in grado di apprendere
senza troppa fatica, se si fosse messo a lavorare d’impegno.
E se avesse, come diceva Max “buttato nel cesso certe
pastigliette e tirato lo sciacquone”.
Bebo era lungo e magro, più alto di
Max di qualche centimetro e tanto leggero da dar l’impressione
che una raffica di vento potesse spezzarlo. Aveva
buttato via , oltre alle pastigliette, anche i suoi
orrendi piercing, tenendosi soltanto un anellino al lobo
dell’orecchio sinistro e non si rasava più a pelle la
testa. Adesso era presentabile. Quasi carino, oserei
dire. Adorava Max, e avrebbe voluto essere come lui,
grande, grosso, forte e risoluto. Lui gli aveva promesso
che gli avrebbe insegnato a cavalcare, e se lo portava
appresso quando andava a correre in campagna. Il footing
aumenta la resistenza e la capacità polmonare, diceva
sempre. Ed era convinto che un po’ di sano esercizio
fisico non avrebbe potuto non giovare al ragazzo.
-Qual è il suo vero nome? Non me l’ha
mai detto.
-Marco. Marco Pisanu.
-Marco. Ah.
Mi sembrò turbato, quando glielo
dissi. Anche quel nome, come il mio, doveva risvegliare
in lui un ricordo struggente e doloroso. Forse aveva
perso tragicamente qualcuno che gli era stato caro:
Marco e Olivia. Un uomo e una donna. I suoi genitori? I
suoi fratelli? Improbabile, non erano nomi irlandesi o
inglesi, quelli. Forse si trattava di amici e la donna
magari era anche andata a letto con lui. Strinsi forte
il pugno per non pensarci, per convincere me stessa che,
di qualsiasi cosa si fosse trattato, era ormai acqua
passata.
Un giorno mi confidò che Bebo sapeva
qualcosa a proposito dei combattimenti clandestini di
cani che, come lui aveva sospettato, qualcuno
organizzava da quelle parti. Ma era refrattario a
parlare, perché, diceva, in quel giro erano coinvolti
alcuni dei suoi amici. Begli amici, mi ritrovai a
pensare.
-Sono sulla buona strada per
convincerlo a denunciarli. E’ una porcheria che deve
finire.
Era, come sempre, deciso e risoluto a
proseguire per la sua strada. Lui detestava chi si
diverte a cagionare sofferenza negli altri, a maggior
ragione negli animali, che non sono in condizioni di
difendersi. Anch’io, ma avrei avuto paura a mettermi
contro certe persone. Ero sicura che anche in paese
qualcuno sapesse qualcosa, e se non parlavano era
perché anch’essi la pensavano come me: il coraggio
non è un dono che Dio abbia elargito a tutti quanti a
piene mani.
LA NOTTE DI SAN SILVESTRO
L’ingresso nel nuovo millennio l’avrei
festeggiato in compagnia dei soliti amici: un paio di
coppie, due o tre coetanee avviate come me sulla strada
dello zitellaggio, un manipolo di scapoli disperati che
nessuna aveva voluto… Ero, e sono, di quelle che
Capodanno Pasquetta, Ferragosto e la Festa della Donna
li abolirebbero per decreto legge, ma anche la prima a
cascarci, per poi lamentarsi puntualmente di come sono
andate le cose. Solito locale, soliti amici che vedi
solo in quell’occasione, solita nottata trascorsa
nella villetta al mare di un’amica, per non mettersi
in viaggio a tarda ora… Solita cena a base di
porcherie, soliti balli latino americani, solita finta
allegria… No. Questa volta sarebbe stato diverso.
Avrei convinto Max ad accompagnarmi e, una volta tanto,
le mie amiche sposate mi avrebbero guardata con invidia
invece che con commiserazione.
Lui accettò. Senza grande entusiasmo
ma, mi disse, stare con me gli avrebbe fatto piacere.
Allora passo a casa tua verso le sette. Portiamo la tua
auto…O la mia?
Credevo di trovarlo pronto, invece
era appena uscito dalla doccia e si asciugava,seduto
davanti al camino acceso, i capelli che, fradici d’acqua,
mi sembrarono ancora più lunghi del solito. Certo, se
fosse uscito in quelle condizioni, si sarebbe buscato
come niente un bel malanno.
-Non hai freddo?
Lui mi sorrise, scotendo la testa. No
che non ne ho. C’è un bel calduccio qui dentro. Non
lo senti? Togliti il piumino, altrimenti avrai freddo
tu, piuttosto, quando usciremo fuori.
Lo guardai, e gli sorrisi di rimando.
Portava soltanto un paio di boxer elasticizzati, sotto l’accappatoio
di spugna bianca, ed era incredibilmente seduttivo.
Quando usciremo fuori… Avevo pagato in anticipo per i
balli e il cenone in quel solito locale, e quelle
centomila lire ce le avrei rimesse molto volentieri, se
solo lui… Ma quella sera l’avrei lasciato senza
fiato, avevo promesso a me stessa.
Mi sfilai il piumino nero, lo stesso
che avevo acquistato l’anno prima in una bancarella
del mercato e messo tutto l’inverno per recarmi a
scuola. Costava quattro soldi, ma era carino e
soprattutto caldissimo. Sotto, indossavo quel che avevo
messo il giorno delle nozze di Barbarina Collu, un paio
di pantaloni ampi di velluto, neri anch’essi, una
camicia da uomo, in seta bianca, abbottonata fino al
collo. Scarpine scollate, di vernice nera ai piedi.
Niente di particolarmente provocante o seduttivo: non
fosse stato perché, per la prima volta in vita mia,
avevo volutamente dimenticato d’indossare il
reggiseno.
Non avevo mai fatto niente del genere
in vita mia e pensavo che mai sarei arrivata a tanto,
invece… Lui mi guardava, e la carezza del suo sguardo
era altrettanto eccitante di quella delicata della seta
contro la pelle.La camicia non era trasparente, ma
disegnava in maniera implacabile il profilo dei miei
seni e Max continuava a deglutire, a mordersi le labbra
senza riuscire a staccarmi gli occhi di dosso.
-Questo è un colpo basso.- mormorò
con la sua voce rauca e ammaliante. Io avvampai, come se
un perfetto sconosciuto mi avesse sorpresa nuda sotto la
doccia.
-Sono indecente?
-Sei favolosa.
Mi venne dietro, mi abbracciò
avvolgendomi nell’odore tiepido della sua pelle pulita
e ancora umida. Tremavo per il desiderio, lui lo sapeva
che non era freddo, la stanza era ben riscaldata dal
camino acceso e dall’impianto ad aria condizionata, e
arrossii ancora quando lui mi strinse più forte e lo
sentii eccitato. Non mi baciava. Non ancora. Mi alitava
nell’orecchio il suo fiato caldo e i versi, in latino,
della più sconcia tra le liriche di Catullo. Mi avrebbe
baciata. Lo fece. Con un’avidità che era quasi fame.
Mi sfiorò il collo, quindi il seno, attraverso la
camicia che aveva iniziato a sbottonare.Mi piace, disse,
il profilo dei tuoi capezzoli velati dalla seta. Sei
bella… Era il terzo uomo a dirmelo, in una situazione
del genere.Sicuramente quello più strano, più
eccitante, e quello al quale mai in vita mia avrei
pensato di darmi. Troppo giovane per i miei gusti.
Troppo inquietante, troppo bello. Straniero e
misterioso, poteva essere chiunque. Con quello che si
sente in televisione, che si legge sui giornali… Sono
prudente e razionale, di solito, ma non lo fui in quella
circostanza. Come il giovane cacciatore che perse la sua
anima per amore di una creatura fatata.
-Si è fatto tardi, forse dovremmo
darci una sistemata e uscire…I miei amici ci
aspettano.
Lo dicevo senza crederci e quando
lui, continuando a stuzzicarmi i capezzoli con le sue
lunghe dita forti, mi disse tu non andrai da nessuna
parte non protestai. Cercai a tentoni la borsetta e,
senza trovare il coraggio di dirgli di smetterla,
estrassi il portatile e composi il numero della mia
amica Clara. C’è stato un piccolo contrattempo, non
so se potremo raggiungervi… Di quale contrattempo
potesse trattarsi e del fatto che sicuramente non li
avremmo raggiunti, Clara ebbe conferma quando i baci di
Max si fecero particolarmente audaci e mi lasciai
sfuggire un gemito prima di spegnere il cellulare e
interrompere la comunicazione.
La prima volta con il mio primo
ragazzo era stata consumata frettolosamente nell’utilitaria
di lui. La mia prima volta con l’uomo maturo e sposato
in una camera d’albergo. La mia prima volta con Max
davanti a un grande camino, nel salone della sua casa
che aveva travi di ginepro sul soffitto e pavimento di
cotto toscano disseminato di tappeti, piumoni, cuscini e
disordine. Notai sul divano una vecchia sella, un logoro
plaid di tessuto scozzese, diversi libri. Notai i suoi
stivali da equitazione appoggiati per terra. Non so che
cosa avrei dato per vederlo in groppa al suo cavallo
nero, con i capelli sciolti, un paio di pantaloni
stretti e una camicia aperta sul petto, che il vento
gonfiava, preceduto dai suoi cani che sembravano lupi…
Lui era un sogno, ma realtà era il piacere che con le
sue mani esperte, la sua lingua umida, la sua pelle
calda e fremente dava al mio corpo. Il suo… L’avevo
guardato incantata, quando si era sfilato di dosso l’accappatoio
di spugna. Grande, proporzionato, forte sul serio, come
quello di uno spaccalegna o di un fabbro ferraio non
gonfiato dagli anabolizzanti o deformato grottescamente
dall’ eccesso di palestra. Virile e molto vero,
proprio come lui. Abbronzato dappertutto e non troppo
villoso. Il corpo di un antico gladiatore. Glielo avevo
già detto un’altra volta. Glielo dissi ancora.
Era pieno di cicatrici: sul collo,
sul braccio sinistro, nella parte alta della coscia…
Una, appena sotto la scapola, non riuscivo proprio a
spiegarmela. Sembrava un marchio a fuoco. Questo, gli
dissi accarezzandolo lentamente, è un fendente di
spada. Quest’altro, la trafittura di una
freccia.Questi sottili segni paralleli il ricordo del
tuo incontro… con una pantera? O era una tigre, forse?
E qui… è dove il tuo padrone, colui che ti faceva
combattere e intascava il denaro delle scommesse,ti ha
marchiato con un ferro rovente per ribadire che la tua
vita gli apparteneva… Per una frazione di secondo,
percepii sotto le dita il fremito che gli attraversava
la pelle. Le cicatrici me le sono fatte giocando a
rugby, mi disse sorridendo. Anche i graffi sul collo.
Non è stata una tigre, e nemmeno una pantera, bensì un
quarterback neozelandese particolarmente falloso.
Giocavo in nazionale, sai, prima di fracassarmi
malamente un ginocchio ed essere costretto a smettere. L’abrasione
sul braccio è quel che rimane di un tatuaggio che ho
preteso di cancellare senza fare ricorso a un chirurgo
plastico. E il marchio a fuoco… Si chiamava branding.
Ne avevo sentito parlare dai miei alunni. L’ultima
atrocità della moda di strada, dopo i tatuaggi e i
piercing. Se l’era fatto fare a New York, un paio d’anni
prima.Una P. La lettera iniziale del nome della donna di
cui credeva di essere innamorato. Paula. Si chiamava
così. Una bellissima nera che di mestiere faceva la
spogliarellista. E che io sentii di odiare, anche se
adesso Max era sopra di me, dentro di me… E lei
apparteneva al passato.
A mezzanotte ci versammo addosso il
contenuto di una bottiglia di Dom Perignon ed entrammo
nel nuovo millennio leccandocelo via a vicenda come due
animali. E ricominciando un’altra volta. Era
instancabile. E insaziabile. Ma anche tenero e caldo
come un cucciolo, come un bambino. Mi piacerebbe un
figlio tuo, gli dissi, e vidi il sorriso spegnersi dai
suoi straordinari occhi azzurri venati di verde e
spruzzati d’oro. Dovevo aver detto qualcosa che avrei
fatto meglio a tenere per me, e cambiai discorso. Voglio
entrarci felice nel 2000. Felice e appagata, perché
sarà la prima ed unica volta che… risi, ma la mia
risata annegò nel suo silenzio, come se avessi detto
qualcosa di sciocco, di imbarazzante. Qualcosa che
poteva averlo ferito, e che avrei fatto meglio a
risparmiarmi.
Mille anni a oggi… I suoi occhi si
erano fatti cupi, mentre parlava. Immagino che la gente,
aspettando che tutto finisse, non abbia fatto quello che
stiamo facendo noi, continuai io. Mille e non più
mille, era stato profetizzato. Pregavano. Si
flagellavano. Si pentivano… Disse lui. Guardavano il
cielo, aspettando che la pioggia di fuoco cominciasse a
cadere… Rabbrividii al suono delle sue parole.Perché
era come se avesse vissuto quel che in realtà stava
solo immaginando.
FRAMMENTI
Pensavo all’estate che era finita
da poco, mentre il fruscio e il ticchettio dei
macchinari che lo tenevano appeso alla vita per un filo
sottile come la bava del ragno mi echeggiava nel
cervello, indistinto e vago come in un sogno, come se
quella non fossi io e lui non fosse lui.
-Non ci sono speranze?
Mario mi guardò scotendo la testa,
mi abbracciò. Contava qualcosa per te? Mi domandò, e
lasciai che mi leggesse la risposta negli occhi. Non l’avevo
mai più rivisto se non da lontano, da quando ci eravamo
lasciati. Mi sembrò invecchiato, arreso in qualche
modo.Diverso dall’uomo che avevo amato, che speravo
lasciasse la moglie e scegliesse me.
-Perché ne parli al passato, Mario?
Respira ancora.
Mi aveva spiegato che solo il suo
cuore straordinariamente forte lo teneva ancora in vita
.Il cuore, e tutti quei tubicini che entravano e
uscivano da suo corpo. Aveva due fratture alla colonna
vertebrale con compromissione del midollo, il bacino a
pezzi, il fegato spappolato, un ematoma intercranico
inoperabile. Potrebbe essere fra un’ora, fra una
settimana…Mi aveva detto Mario cercando di adeguare il
suo gergo medico al mio miserando livello di
comprensione, cercando le parole adatte a dirmi
rassegnati, porgendomi un caffè forte in un bicchierino
di plastica. Mi sforzai di buttarlo giù, mi sforzai di
non piangere, mi sforzai di pensare che la vita sarebbe
continuata, nonostante tutto. C’era un caldo
soffocante, lì dentro, e io morivo di freddo.
-Stiamo facendo il possibile, Olivia.
Il possibile… Gli chiesi se
soffriva, e lui scosse la testa. Non sente più
niente.Mi disse.
Me lo avevano lasciato guardare
cinque minuti, attraverso un vetro dopo che, parlando
con Bebo, quel che era accaduto mi era stato chiaro.
Erano andati a correre in una strada di campagna, quando
un furgoncino li aveva investiti. Per spingere Bebo
fuori dalla sua traiettoria, Max aveva perso tempo. Ed
era stato preso in pieno, anche se non era lui che
volevano. Bebo aveva denunciato alla polizia gli “amici”
che smerciavano pastigliette in discoteca e
organizzavano combattimenti clandestini di cani. Era lui
che doveva pagare.
Mi abbandonai sulla sedia di formica,
pensando che non mi avrebbero lasciata lì tutta la
notte a vegliare le sue ultime ore perché non ero
nessuno per lui e nelle condizioni in cui si trovava non
avrebbe avuto bisogno di niente. Avrei voluto saltare al
collo del dottor Locci, del primario chirurgo, di Mario,
del mio amante di un tempo, chiamatelo come volete,
avrei voluto graffiargli la faccia, gridargli allora
staccatelo da quelle macchine che gli assicurano una
parodia di vita e lasciatelo morire in pace, con
dignità…O è il suo cuore forte che volete, che gli
prenderete quando a lui non servirà più, e…Il suo
cuore, i suoi grandi occhi belli, che dicevano più di
mille parole…Altro non avrebbero potuto prendergli,
viste le condizioni in cui era stato ridotto da quel
maledetto incidente.
Chiusi gli occhi, lo rividi com’era
stato, ripensai a certi minuscoli frammenti del nostro
tempo insieme. All’orchidea secca in mezzo ai versi di
Pavese che amavo. Un’orchidea, non una rosa. Un fiore
senza profumo, che somiglia a un mostruoso insetto di
plastica. Io detesto le orchidee.
Ripensai
al brivido che gli aveva attraversato il corpo come se l’avesse
sfiorato un serpente quando ci eravamo recati all’Anfiteatro
di Cagliari per assistere al concerto di Sting, al lampo
che gli aveva acceso, nel buio della notte, gli occhi
chiari come quelli di un gatto randagio intrappolato in
una macchia di luce.
Ripensai al cane moribondo che teneva
tra le braccia la prima volta che ci eravamo incontrati.
Il dottor Pais gli aveva dato quel sonno pietoso che a
lui stavano negando…Perché?
Ripensai alla nostalgia e al
desiderio struggente che leggevo nella sua voce quando
pronunciava il mio nome, a come mi stringeva al petto e
mi sussurrava nell’orecchio senza alcun ritegno i suoi
desideri che erano anche i miei…Inghiottii le lacrime
e pensai con cattiveria che Bebo Pisanu se l’era
cavata con qualche livido e un terribile spavento,
mentre lui…
-Olivia…
E’ ora di andarmene. Lo so. Mi
alzai in piedi reggendomi sulle gambe a fatica, quando
Mario mi posò la sua mano sulla spalla, cercando, con
parole inutili e gesti goffi, di darmi quel conforto nel
quale sarebbe stato disumano sperare.
Chiusi gli occhi, inghiottii la
saliva. Neanche un mese prima, eravamo stati al mare a
Cala Luna*. Stavamo nuotando affiancati, quando una
medusa mi si avvicinò, sfiorandomi quasi. Lui l’afferrò
con la mano, la strinse finchè non la vide
afflosciarsi, perdere consistenza. Uscimmo dall’acqua
e gli chiesi perché lo avesse fatto. Il palmo della
mano ti brucerà terribilmente per giorni… Ma non c’erano
segni sopra le sue mani né, men che meno, bruciore o
vesciche. Mi ero domandata perché, sul momento. Mi
trovai a domandarmelo allora. E, curiosamente, a
sperare, nonostante sapessi che non c’era più
speranza.
*Bellissima e turisticamente ancora
poco sfruttata località balneare della Sardegna
centrale
IL REDIVIVO
Non ero certamente in condizioni di
andare al lavoro, e avevo preso dieci giorni di congedo.
Non era mai capitato che mi assentassi per così tanto
tempo da scuola. Ne avrei presi altri, non fossero
bastati, e altri ancora, pensavo stringendomi le tempie
con i pugni. Il medico condotto era venuto a casa e mi
aveva praticato un’iniezione di non so quale
porcheria, per farmi dormire. E non dormii lo stesso.
Erano le otto quando, tra la veglia e
il sonno, sentii il trillo del cellulare che avevo
lasciato acceso sul comodino. Potrebbe essere tra un’ora,
una settimana…Mario non mi aveva nascosto niente. Sei
un’adulta Olivia. E’ triste dirlo, ma la vita deve
andare avanti. Sarà il tempo ad aiutarti a fartene una
ragione.
-Olivia…
Conoscevo la sua voce,il tono in cui
modulava le parole per esprimere i suoi sentimenti e le
sue intenzioni. Sapevo quel che stava per dirmi, eppure…C’era
qualcosa di strano nel tono della sua voce. Un’eccitazione
che non gli era consueta.
-E’?…
-Non dire nulla, Olivia. Infilati
qualcosa e vieni subito qui. Se non te la senti di
guidare, fatti accompagnare da qualcuno.
Max era morto. E lui non trovava le
parole per dirmelo. Max non aveva nessun parente e,
forse, mi cercavano per avere un avvallo alla decisione
di espiantare quei pochi suoi organi che l’incidente
non aveva ridotto a poltiglia sanguinolenta.
-Vengo.-dissi con la voce impastata
dal dolore, dal sonno e dai tranquillanti.
Mi accompagnò un fratello di Peppa,
un pensionato di settant’anni con la sua 127 che
andava come una lumaca e perdeva i pezzi per strada.
Mario non aveva l’aria che
ostentano i medici dei telefilm americani quando gli
muore un paziente. Ma lui era un medico vero, aveva
cinquant’anni parecchi dei quali spesi nel pronto
soccorso di un ospedale: capace che ci si fosse
indurito, che la morte non gli facesse più né caldo
né freddo. Capace, pensai prima di scacciare a forza
quel pensiero mostruoso, che provasse ancora qualcosa
per me, dopo tanti anni, che odiasse quel bel giovane
forestiero che mi aveva rubato il cuore, che fosse
felice della sua morte…Il cuore degli uomini è un
mistero difficile da sondare.
-Non avrei mai creduto… che
qualcosa del genere potesse capitare proprio qui…
proprio sotto i miei occhi…
Un miracolo,diversamente non lo si
poteva definire.Un miracolo che avrebbe messo in forse
le sue convinzioni di agnostico dichiarato. E anche le
mie. Io in Dio ci credo, anche se non vado a messa tutte
le domeniche. Anche se lo prego e lo cerco quando ho
bisogno di lui perché sono disperata. Com’era
successo anche in quella circostanza. E lui mi aveva
ascoltata.
Di primo mattino, l’infermiera
Corrias era entrata in sala di rianimazione. Prima che
al paziente, aveva gettato un’occhiata ai macchinari
che monitoravano le sue funzioni vitali. Fermi. Era
morto. Poveretto, così giovane, aveva pensato
segnandosi e recitando una frettolosa preghiera.
-Ne ho viste tante…-aveva detto.
Tante sì. Aveva i capelli grigi ed era ormai alle
soglie della pensione, ma ad un miracolo non aveva
assistito mai. I macchinari erano fermi perché lui si
era strappato gli elettrodi dal petto e dalle tempie, si
era tolto via gli aghi delle flebo, aveva sputato come
un boccone amaro il boccaglio dell’ossigeno, s’era
cavato la cannula che gli drenava il liquido dai polmoni
impedendogli di soffocare. Perfino il catetere, aveva
detto arrossendo perché, nonostante il mestiere le
avesse imposto la visione di migliaia di uomini nudi,
Anna Corrias, infermiera diplomata con trent’anni di
esperienza, era rimasta una zitella pudibonda e un po’
bigotta.
-Potrei avere qualcosa da mangiare?
Non ci vedo dalla fame.
Aveva detto così, e l’infermiera
Corrias aveva faticato a non urlare, quando se l’era
trovato davanti seduto sul letto, con il lenzuolo che a
malapena gli copriva quel che è indecente mostrare in
giro, il bel viso incorniciato dai capelli
impiastricciati di gelatina e illuminato dal suo sorriso
canagliesco.
-Come se nulla fosse accaduto. Come
se quel dannato furgone non gli fosse passato sopra
fracassandogli le ossa e gli organi interni, il giorno
avanti. L’abbiamo visitato dalla testa ai piedi e non
ha niente. Niente, Olivia. Lo capisci?
La mente razionale di Mario rifiutava
di ammettere il miracolo, ma anche l’errore. Colui che
era stato portato al pronto soccorso la mattina prima,
dopo quel terribile incidente, era un moribondo, non
poteva esserci alcun dubbio. Impossibile sbagliare non
solo per un medico dopo una serie di visite accurate, ma
persino,dopo un’occhiata distratta, per l’ultimo
degli inservienti, anche per chi non si fosse mai
trovato a lavorare faccia a faccia con la morte ogni
santo giorno della sua vita…Lo avrebbero tenuto ancora
qualche giorno sotto osservazione, mi disse.
Naturalmente, sarebbe stato trasferito in una stanzetta
singola, nel reparto di medicina generale.Per scrupolo,
solo per quello.
-E non voglio che trapeli nulla di
quel che è accaduto. Per il buon nome dell’ospedale...
e per la tranquillità futura del signor Merrit. Con la
polizia, posso anche ammettere di aver sbagliato la
diagnosi.Non voglio che si parli… di miracolo, ecco.
MAXIMUS
Resistette altri due giorni, lì
dentro, voltato e rivoltato dal dottor Locci, sottoposto
ad ogni genere di radiografie e di analisi,portato quasi
in segreto con l’ambulanza all’ospedale Brotzu* per
una TAC che non aveva rilevato niente di anormale.
Quando cominciò a fare il diavolo a quattro, dovettero
dimetterlo.Le consiglierei di non raccontare troppo in
giro quello che le è capitato, Mr.Merrit, gli aveva
borbottato Mario, in inglese.Per lei, per la sua
tranquillità. Se una cosa del genere arrivasse alle
orecchie delle tv e dei giornali, non la lascerebbero
più in pace.Non si preoccupi, aveva risposto lui,
quindi si era infilato i jeans e la tshirt che gli avevo
comprato per l’occasione, augurandomi di non sbagliare
la misura,ed era venuto via con me, felice come una
pasqua, incurante del fatto che la maglia fosse un
tantino troppo stretta e i jeans, al contrario, larghi
ai fianchi e corti di gamba.
Piansi di sollievo e di consolazione,
quando mi tenne tra le braccia e mi cercò la bocca,
infischiandosene della gente che ci guardava. E’andata
meglio di quanto avessi temuto, grazie a Dio.Gli dissi.
E lui mi rispose che non vedeva l’ora di essere a casa
per lavarsi via di dosso l’odore dell’ospedale… E
per festeggiare.
Festeggiammo, ben prima che lui si
decidesse a lavarsi via di dosso l’odore dell’ospedale.
Festeggiammo, anche se lui sapeva ancora di
disinfettante e aveva i capelli e la peluria sul petto
impiastricciati di quella gelatina giallastra che gli
avevano spalmato addosso per mantenere ben saldi al loro
posto gli elettrodi che avrebbero dovuto monitorare le
funzioni del suo cuore e del suo cervello quando…Mi
morsi le labbra per non pensarci ancora: lui era vivo,
sopra di me, e mi succhiava il seno come un cucciolo
avido, mentre con le gambe gli cingevo i fianchi e con
le mani accarezzavo la seta della sua pelle. Soltanto il
giorno prima non avrei mai osato immaginare che potesse
esserci un altro momento come quello, per me e per lui.
Ma intuivo che, forse, quello poteva anche essere l’ultimo.
C’era qualcosa che non riuscivo a spiegarmi, in ciò
che era accaduto. L’avevo visto attraverso un vetro,
Max, e sulle sue condizioni non mi ero sbagliata,
esattamente come non si era sbagliato Mario, come non si
erano sbagliati i suoi colleghi: perché l’uomo che
faceva l’amore con me in quel momento, con la dolcezza
e l’impeto che gli erano consueti, stava per essere
rapito dalla morte, allora.
Entrammo insieme sotto la doccia per
lavare via l’odore dell’ospedale che lui ancora si
portava appresso e gli umori dei nostri corpi eccitati.
L’acqua calda, le mani rese scivolose dal sapone, ci
invitarono ad un altro abbandono, e lui mi prese ancora.
Era il solito Max di sempre, dolcissimo e insaziabile, l’uomo
che amavo con tutta me stessa senza sapere niente di
lui.
Non sono brava a cucinare, e per
placare il suo gagliardo appetito( io avevo lo stomaco
chiuso ed ero sicura che avrei vomitato se solo avessi
tentato d’inghiottire qualcosa), avevo acquistato un
pollo arrosto e uno di quei grossi pani caserecci che
dalle nostre parti chiamiamo civraxiu. Mangiando,
si scolò anche una bottiglia di cannonau**che
aveva stappato con i denti: per festeggiare il suo
ritorno alla vita, perché bere gli piaceva… o per
prendere il coraggio a quattro mani e dirmi quel che mi
doveva dire: il momento era arrivato.
Lo guardavo. Mi piaceva tutto di lui,
perfino i suoi piccoli difetti che lo rendevano ancora
più particolare, il leggero strabismo degli occhi
taglienti, la bocca quasi infantile, troppo delicata per
un volto tanto maschio, i nei sulle guance, il pugno di
lentiggini dorate che aveva sotto gli occhi e sul dorso
del naso.Gli baciai la gola ruvida di barba,percepii il
suo sospiro pesante, quando gli posai la mano sul petto.
-Credo di essere ubriaco.
-Vuoi andare a dormire?
-Voglio parlare con te… Olivia. Di
tante cose.
Lasciai scivolare la mano sul suo
petto,mi beai del suo gemito di piacere quando gli
sfiorai il capezzolo. Allora parla, gli dissi con le
labbra sul suo collo, inebriandomi dell’odore della
sua pelle. E lui raccontò:aveva un superbo talento di
narratore, mi ritrovai a pensare che anche zia Maria
avrebbe ascoltato volentieri le sue storie.
“Tanti secoli fa, c’era un uomo
che, con la sola forza della sua intelligenza, della sua
onestà e del suo coraggio, aveva percorso una brillante
carriera ed era diventato, a meno di trent’anni,
generale comandante in capo di tutte le legioni che
difendevano i confini settentrionali dell’Impero
Romano dalle orde dei barbari. Proveniva da una modesta
famiglia di agricoltori dell’Hispania Baetica, ma
questo era solo un dettaglio per il Cesare Marco Aurelio
che, sull’esempio di quanto già fatto dai suoi
predecessori, aveva in animo di adottarlo e di
lasciargli in eredità la porpora imperiale.
“Ma nella potenza e nella gloria
non c’è felicità soltanto. Quell’uomo aveva una
moglie e un figlio, in Hispania, ed erano anni che non
li vedeva. Il dovere. L’onore. Il giuramento di
fedeltà alla patria e a Cesare… Carichi pesanti da
sopportare, anche per uno come lui. Quando tutto sarà
finito, gli aveva promesso il suo signore, ti lascerò
tornare a casa. Ma quella era una promessa bugiarda e
lui lo sapeva.
“L’imperatore saggio che amava la
pace e trascorse metà della sua vita sui campi di
battaglia morì all’improvviso senza lasciare
disposizioni sulla successione. Era stanco, malato, più
vecchio dei suoi anni. Ma non se l’erano preso gli
dei, era stato assassinato. Commodo, il suo figlio
legittimo, e chissà se lo era poi davvero, lo aveva
ucciso. Voleva il potere e non lo avrebbe avuto, se
avesse aspettato anche soltanto un giorno. Era un
giovane crudele, vigliacco e debosciato e a Roma erano
in molti a sussurrare che il suo vero padre non fosse
Cesare ma un gladiatore barbaro a cui quella puttana
dell’Augusta Faustina si era concessa. Sembra che lo
facesse spesso.
Marco Aurelio era un uomo saggio,
conosceva i difetti del figlio e non avrebbe permesso
che i suoi amati sudditi finissero sotto il giogo di
quell’essere abbietto e indegno… Aveva scelto un
altro successore, presto ne avrebbe ufficializzato la
nomina e l’adozione: il generale Massimo Decimo
Meridio.
*Il più moderno e attrezzato
ospedale di Cagliari
**Vino rosso ad alta gradazione
IL SANGUE E LE ROSE
Rabbrividii nell’udire quel nome.
Massimo Decimo Meridio. Max Dacey Merrit… Chiusi gli
occhi, inghiottii l’aria e la saliva. Era impossibile,
mi dissi da me sola. O no, forse no. Ciò che pensavo
avrebbe spiegato tutto: anche il fatto che un furgone
gli fosse passato sopra fracassandogli le ossa e
riducendogli i visceri in poltiglia e lui, qualche
giorno dopo, se ne stesse lì con me a fare l’amore,
mangiare a crepapelle, bere peggio di una spugna come se
tutto quanto fosse successo a un altro.
“Le fortune di Massimo Decimo
Meridio ebbero termine prima ancora che il corpo di
Marco Aurelio venisse calato nel sepolcro. Aveva
scoperto tutto quanto, e l’usurpatore, il parricida
non poteva permettergli di continuare a vivere.
“Gli scherani di Commodo
massacrarono senza pietà sua moglie e il suo bambino.
Lui riuscì a sfuggire ai suoi carnefici, ma era tardi
quando li raggiunse e altro non potè fare se non
seppellirli a fior di terra.
-Tua moglie portava il mio stesso
nome.
Gli dissi senza staccare gli occhi
dai suoi. Lui accennò lentamente di sì con la testa.
Era bruna come te. Mi disse.Ti somigliava.
Incominciavo a comprendere certi suoi
atteggiamenti, certi fremiti, certe ritrosie. Anche se
faticavo a credere che potesse esserci del vero in quel
che mi stava raccontando.
“Il generale divenne schiavo. Lo
schiavo divenne gladiatore…
Il mio sguardo lo percorse dalla
testa ai piedi. Avevo associato a quell’uomo l’immagine
del gladiatore altre volte, e lui si era schermito
domandandomi quali affinità avessi potuto trovare tra
lui e un imbecille pieno di muscoli il cui solo scopo
nella vita era ammazzare per non essere ammazzato. Non
mi ero sbagliata, quando avevo pensato al suo corpo come
a una formidabile macchina da combattimento, alle
cicatrici che lo segnavano come al ricordo indelebile
delle sue vittorie e delle sue sconfitte. E il marchio
sulla schiena non era il tributo ad una passione
momentanea e a una moda discutibile.P non stava per
Paula, ma per Proximo, il lanista, il suo
padrone, colui che lo faceva combattere e intascava il
denaro delle scommesse.
-E adesso forse hai paura di me…
Chiusi gli occhi, ripensai al brivido
che gli era passato sotto la pelle entrando all’anfiteatro
romano di Cagliari la sera del concerto di Sting. Era
impallidito, quando gli avevo detto ridendo che un bel
po’ di secoli prima i Romani si divertivano a vedere i
cristiani mangiati dai leoni e i gladiatori che si
sbudellavano, lì dentro. Ripensai all’orchidea secca
in mezzo ai versi di Pavese e mi dissi da me sola che
mai uno come lui avrebbe potuto regalarmi una rosa.
Perché petali di rose a profusione venivano lanciati
sull’arena per coprire il puzzo del sudore e del
sangue. Perché lui associava il profumo delle rose alla
morte.
No che non ho paura di te.Gli dissi
senza scollargli gli occhi di dosso. Non ne avevo,
esattamente come non ne aveva avuto il cacciatore nel
momento in cui incontrò la piccola fata. Non ne avevo,
anche se ero al corrente di quel che rischiavo. Ma lui
non era una creatura fatua e maligna come la jana. Era
rimasto turbato, ascoltando quella storia per la prima
volta. Allora mi ero domandata perché, e la risposta la
stavo avendo in quel preciso istante.
“Massimo il gladiatore crollò
morto sulla sabbia del Colosseo dopo aver ucciso Commodo,
usurpatore, assassino e parricida. Dopo aver compiuto un
atto di giustizia.
La sua morte spezzò il cuore di
Lucilla, la principessa imperiale che lo amava di un
amore senza speranza e che…
“E che lo riportò in vita grazie a
un sortilegio. Per sempre.
Rabbrividii al suono della sua voce
grave e calma, e mi dissi che era bravo a mascherare le
sue emozioni.La vita senza fine… Un dono d’amore
meraviglioso e tragico, a cui si era assoggettato senza
dimenticare mai di essere se stesso: generoso, buono,
leale. Come lo era stato Massimo Decimo Meridio nel
corso della sua prima, breve vita. Come sarebbe stato
per sempre.
Non dev’essere facile, gli dissi
ricacciando indietro le lacrime. No, non lo è. Per
adattarsi alle circostanze e ai cambiamenti che,
inevitabilmente, il tempo porta con sé, occorrono
qualità che non tutti possiedono. Intelligenza.
Astuzia. Spirito di sacrificio. Capacità di
immagazzinare conoscenze, informazioni e abilità sempre
nuove. Io, mi disse, parlo correntemente molte lingue e
l’aver visto la luce mille e ottocento anni fa non mi
ha impedito di imparare a imbracciare le armi da fuoco,
a guidare l’automobile, a pilotare un aereo, a usare
un personal computer, un telefono cellulare o una carta
di credito. Adattarsi può significare abituarsi a
mangiare qualsiasi cosa, cavallette, arrosto di
serpente, latte di cammello, alghe nidi di rondine senza
fare gli schizzinosi… E anche abituarsi all’idea di
dover cambiare spesso luogo di residenza per evitare che
il segreto trapeli, a costruirsi di volta in volta un’identità
fittizia ma credibile. Non è molto difficile procurarsi
dei documenti contraffatti.
E l’amore?
Era stato lui a chiudere gli occhi,
quando glielo avevo chiesto. Mi manca, come le lacrime
che non posso piangere, come i figli che non mi è dato
di generare. Mi sono portato a letto tante donne, in
questa mia vita senza fine, ma sono sempre stato attento
a non creare dolore. Già, come se un abbandono non lo
fosse. Ma quello è un dolore destinato a passare, una
ferita che non impiega molto a rimarginarsi. Io non
invecchio e non muoio, a differenza di chi mi sta
accanto. Ma non sono come la jana di quella tua
favola. Io sono un uomo, con le mie miserie, la mia
pietà, il mio coraggio e le mie paure, che neppure la
certezza di non poter morire riesce a cancellare. Io…
Io non potrei sopportare di vederti soffrire per causa
mia.
Lo guardai un’ultima volta, la
testa rovesciata all’indietro, i lunghi capelli
castani ancora umidi, le palpebre abbassate su quegli
occhi che non potevano piangere. E in quell’istante
compresi che l’avrei perduto. Presto.
EPILOGO
Sono passati già due anni da allora,
ma non credo che avesse ragione quando diceva che avrei
fatto in fretta a dimenticarlo. Così non è stato anche
se ci ho provato, se sono uscita qualche volta con un
collega, un bravo ragazzo che piaceva tanto a zia Maria
e a quell’impicciona di Peppa. Ma oggi è un giorno
speciale. Diverso. Sono cominciate le vacanze estive, e
ho ricevuto una e mail sul mio pc. Mi sono trasferito in
Corsica, con i miei cavalli neri e i miei cani che
sembrano lupi. Diceva. Avrei tanta voglia di vederti
ancora… Olivia.
Anch’io ho tanta voglia di vederti
ancora, pensavo stipando la mia roba dentro la valigia.
E immedesimandomi nel giovane cacciatore che un giorno,
tanto tempo fa, mentre inseguiva un cinghiale ferito,
aveva incontrato la jana.
FINE
Lalla, 7 gennaio 2003