Russell Crowe - La Stampa - traduzioni

 

Articolo di Eric O’Keefe dalla rivista Cowboys & Indians, giugno 2002

la traduzione e' a cura di grace big_grunt@hotmail.com

 

COWBOYS & INDIANS - giugno, 2002

RUSSELL CROWE 

di Eric O’Keefe

Cowboys & Indians presenta un’intervista esclusiva ed una fotografia, mai vista prima d’ora, scattata nel ranch australiano dell’attore.

 

I giorni sono diventati settimane, eppure l’ironia dei 74th Academy Awards stenta a calare. Come è possibile che l’attore principale del film che ha vinto l’Oscar per il miglior film, il miglior regista, la migliore attrice non protagonista, e la migliore sceneggiatura non sia riuscito a vincere il premio come miglior attore? La risposta sta nell’essenza stessa di Russell Crowe. Il sorprendente australiano ha trascorso la parte migliore dell’ultimo decennio a creare una serie di personaggi icona - John Nash, Maximus, Jeffrey Wigand, e Bud White - anziché a concentrarsi sull’abbagliante giro di Hollywood. Il risultato finale di ciò è un artista completo, non la tipica specie di celebrità che viene solitamente definita come una “star”.

Punto N. 1: Le star non si presentano per le interviste in orario. Sarebbe…. segno di ponderatezza, di rispetto e indicativo di una certa scaletta, il che, come tutti sanno, è qualcosa che un talento di serie A non ha bisogno di osservare. Crowe? Lui arriva con 5 minuti d’anticipo e pronto a girare.

Punto N. 2: Le stars fanno uso di legioni di collaboratori che si occupano di tutto, dagli impegni mondani ai maggiori passi della carriera. Crowe fa a meno di tale pretesa, arrivando al punto di occuparsi personalmente di qualsiasi cosa, dal sellare il suo stesso cavallo fino ad esaminare con cura i possibili futuri copioni. Ed insiste per fare egli stesso il lavoro da stuntman - pistolero in “Pronti a morire”, pattinatore in “Mystery, Alaska” e gladiatore in un film in costume romano che ha realizzato al box office la miserabile cifra di 187 milioni di dollari un paio di anni addietro.

Punto N. 3: Per dirla in parole semplici, tutto è in riferimento alla star. E questo è chiaramente il tallone d’Achille di Crowe. Chiedetegli della sua interpretazione in “A Beautiful Mind, e lui vi dirà che “il successo di questo film in realtà è di Ron Howard come regista, non mio.”

Fatelo parlare del suo ranch australiano, e la conversazione si sposta sul suo braccio destro al ranch, Tom Payton. Chiedetegli il nome del suo western preferito, e non solo non ne nominerà nemmeno uno dei suoi, ma non smetterà di andare in estasi per John Wayne in “The sons of Katie Elder” e “McLintock”!

Qualcuno vuol spiegare a questo giovanotto cosa ci vuole per fare carriera?

Prendiamo come punto di partenza una scena di “Gladiator”. Il personaggio di Crowe, Maximus, riceve un discorso pieno di fervore da Proximo, l’ex gladiatore divenuto impresario così magistralmente interpretato dall’ultimo Oliver Reed.

Abbagliato dall’abilità chirurgica con cui Maximus maneggia il gladio, Proximo intuisce che lo schiavo che porta il marchio dei legionari romani può abbattere il Colosseo, conquistare Roma, e riscattare anche lui dal suo esilio nei “villaggi infestati dalle pulci” delle province romane. Ma prima Proximo deve convincere il suo gladiatore ad attenuare la brutalità e a guadagnarsi il favore del pubblico prima di decapitare un po’ di nemici e poterne uscire. Il suo ammonimento: “Conquista la folla, e conquisterai la libertà.”

Anche se il suo personaggio ha raggiunto questi scopi in “Gladiator”, il Russell Crowe della vita reale ha patito esattamente il contrario. Conquistare la folla - tre nominations consecutive all’Academy Award, un Oscar per “Gladiator”, ed una serie di film che hanno prodotto centinaia di milioni di dollari al box office - gli ha assicurato la perdita quasi totale della sua libertà personale. Proprio come Maximus Decimus Meridius, il talento di Crowe lo ha reso schiavo delle varie conseguenze del fare cinema. L’uomo è incatenato da una serie interminabile di prime cinematografiche, incontri con la stampa, pranzi di lavoro, e festival cinematografici. Forse se si stabilisse negli Stati Uniti o in Europa il suo programma non sarebbe così pressante, ma Crowe è deciso a voler risiedere in Australia, specialmente quando può trascorrere del tempo nel ranch australiano che ha comprato sei anni fa.

L’idea iniziale di Crowe era di trascorrere metà dell’anno in Australia e l’altra metà nei luoghi delle riprese oltreoceano. “Il programma originale era sei e sei”, dice, prima di aggiungere “Ha funzionato per un paio d’anni, ma non più negli ultimi tempi. Ma mi accontento di quando ci riesco, amico.”

Il ranch è situato a nord di Sidney lungo le basse coste del New South Wales. In origine Crowe acquistò soltanto 100 acri ma poi ne ha aggiunto altre centinaia per ospitare la sua crescente mandria di Angus. “Non lo definirei un paese particolarmente adatto per il bestiame”, dice. “Non è affatto un terreno soffice. I Britannici introdussero nella zona un certo numero di erbe da pascolo, che si sono dimostrate molto problematiche.”

Il fatto che il terreno ondulato fosse un tempo una foresta pluviale crea più di una sfida. Dice Crowe: “Abbiamo a che fare anche con tanti altri problemi. Abbiamo due dei più velenosi serpenti del mondo - il “cobra nero dal ventre rosso ”* e il “king brown”*. Abbiamo ogni genere di ragni, e ogni genere di zecche, da quelle comuni a quelle della paralisi fino alle cosiddette “shellback”*. Quindi devi essere consapevole di tutto ciò che può danneggiare il bestiame. Ma io in effetti me ne occupo volentieri.”

La sua mandria, una volta meno di 25 capi, oggi ne conta quasi 450, e lui ne parla con termini dolci, amorevoli. “E’ più di un hobby, ma allo stesso tempo, non tento di ridurre il massimo numero di capi ogni anno. Mi piace davvero la compagnia dei bovini. Mi piace conoscerli, passarci sopra la mano.”

Per quanto gli spettatori americani siano soliti pensare a Crowe come a uno di loro, di persona il suo accento australiano è forte come una Melbourne Bitter (la sua birra preferita). E’ veloce nel parlare dei suoi amici, e di ciò che aveva da dire l’altro tizio, e non esita minimamente a celebrare la sella australiana, quella senza pomello.

“Voi assicurate il cavallo con una fune, noi invece no,” dice. “Noi prima li guidiamo verso il recinto e poi, una volta che vi si trovano effettivamente dentro, lavoriamo con loro individualmente. Io ho un richiamo particolare, a cui rispondono facilmente specie le manze più giovani. Quando lavoriamo nei recinti della fattoria usiamo lavorare in toni bassi. Niente è eccessivo. Cerchiamo di non usare troppo la frusta nei recinti. Non vogliamo eccitare i bovini, non vogliamo terrorizzarli o farli diventare irrequieti. Noi usiamo toccarli, curarli, sospingerli pian piano. Ecco perché riusciamo a farli venire quando li chiamiamo, perché non hanno paura di noi.”

Una bella risata è la sua prima risposta alla mia domanda su come occuparsi del bestiame si armonizzi con la sua carriera cinematografica. “Al momento attuale, il mio caposquadra, Tom Payton, sta diventando un po’ nervoso,” dice. “Vuole liberarsi di un gruppo di giovani manzi, ma io li voglio vedere prima che lui lo faccia, quindi dovrà aspettare finché non torno a casa. Non mi va che i miei piccoli siano venduti quando io non ci sono. Voglio vedere, e voglio essere d’accordo sui motivi per cui proprio questi se ne devono andare. Noi non conduciamo l’azienda basandoci sulle ragioni di qualcun altro, quindi tendo ad essere un po’ lo zimbello della valle per qualcuno degli altri vicini perché non agisco esattamente nel modo in cui loro pensano che si dovrebbe agire.”

La stessa cosa vale per la sua nuova cavalla, o per essere più precisi, il nome della sua nuova cavalla. “Ogni altro nella valle ha un cavallo di nome ‘Fulmine’ o ‘Tempesta’. Il nome della mia è ‘Honey’, ” dice con una risata. E’ alta 14,3 mani*, e proviene da uno stallone americano di nome ‘Marquis the Frost’. In effetti, i cavalli della fattoria, fino al suo arrivo, sono stati più semplici cavalli da lavoro, ma lei è qualcosa di più di una macchina sportiva. E’ diversa. E’ proprio una gioia. Voglio dire, monti e ti godi la tua passeggiata.”

Honey è più che un semplice cavallo da mandria; è la dimostrazione che Crowe fa buon uso della sua solitudine. “Scrivere canzoni è proprio uno dei miei mezzi espressivi creativi, ed è qualcosa che faccio anche a cavallo. Per fortuna, ho una cavalla sorda, “ dice scoppiando a ridere.

Il fatto di scrivere canzoni e la sua carriera musicale sono un mistero per i più. Il nome lirico della sua band, 30 Odd Foot of Grunts, offre poche spiegazioni. Dice Crowe: “Tanta gente assolutamente non capisce prima di tutto perché sto in una band. Pensa che abbia qualcosa a che fare con il desiderio di essere ancora più famoso, o spinto dall’ego, ed io penso che la gente farebbe bene a guardarmi. Semplicemente mi capita di scrivere canzoni e lo faccio da gran parte della mia vita. Il mio primo disco è uscito nel 1981 o giù di lì, e questa band è insieme più o meno con la stessa formazione dal 1984.”

Crowe e i suoi compagni hanno messo insieme un documentario sulla band, “Texas”, come un mezzo per mettere le cose in chiaro. “E’ un documento molto onesto,” dice, “Non c’è doppiaggio. E’ molto grezzo. Probabilmente è uno dei peggiori film amatoriali che vi capiterà mai di vedere da questo punto di vista. Ma credo che mostri la band nella sua vera luce. Ebbene, se ritenete che sia credibile o se la musica è la vostra tazza di the, allora è assolutamente per qualcun altro. Ma io ho ritenuto ad un certo punto, che un documento debba essere realizzato secondo la prospettiva della band, per mostrare non soltanto i musicisti che ne fanno parte, non soltanto le ragioni che stanno dietro determinate canzoni, ma anche il senso profondo del cameratismo. Vedi, quando hai suonato in una band, quando hai percepito la forza dell’unità man mano che ti senti sempre più a tuo agio con il materiale, allora è qualcosa da cui diventi molto dipendente, qualcosa da cui non mi… non riesco a distaccarmi facilmente.”

Il titolo del documentario è derivato dalle scorribande di Crowe nello stato di Stella Solitaria. “La mia prima esperienza ad Austin è stata verso il 1997,” ricorda, “Ero stato a Dallas prima di allora… giù a Deep Ellum, e andai ad Austin e me andavo semplicemente in giro da solo perché era un periodo della mia vita in cui non era una gran problema per me uscire per fare una passeggiata. Mi è piaciuta davvero l’energia della città. Mi è piaciuto il fatto di poter percorrere la strada e veder 10 diverse band in solo mezzo miglio. Per cui mi sono proprio convinto che quando la mia band avesse avuto intenzione di incidere un nuovo album quello sarebbe stato veramente un buon posto per farlo. Ed ecco perché siamo finiti là nel 2000.”

L’affinità fra Crowe e il Texas comprende più della sola musica. “Ho davvero alcuni buoni amici laggiù, e il primissimo luogo in cui sia mai andato a bere una birra (ad Austin) è stato lo Stubb’s Bar-B-Q, con il regista Robert Rodriguez (“El Mariachi”, “Spy Kids”, “Spy Kids II”). Mi portò fuori e ci sedemmo su quella terrazza là dietro, ed io ordinai tre cose dal menu. Lui disse proprio: ‘Guarda, lo so che sei australiano e così via, ma non riuscirai a mangiare tutto questo.’ E io feci una faccia come per dire: “Bene, lo vedremo.” Come finì? Il regista aveva ragione.

La band ha sviluppato una tale passione per i panini con braciola di vitello di Stubb che verso la fine del loro tour dell’anno scorso fece un’ordinazione durante una breve sosta di rifornimento all’aeroporto di Austin. “Mentre stavamo per atterrare, io feci: ‘Chiama da Stubb e vedi se possono consegnare delle grigliate all’aereo.’ Ci fu un’ovazione e poi arrivarono all’aereo con una grigliata per 25 persone. E’ stato fantastico!”

Essendo uno degli attori più famosi al mondo, è stato uno shock venire a sapere che un tempo Crowe non aveva alcuna intenzione di intraprendere tale carriera. “ In realtà non sono mai stato io a trovare il film. E’ stato il film a trovare me nel più curioso dei modi,” egli dice. “Era qualcosa che volevo fare, ed era la cosa alla quale ero più appassionato. Ma non l’ho mai ragionata, e non l’ho mai cercata attivamente. Non pensavo che qualcuno mi avrebbe mai preso sul serio. Sembrava una cosa così distante.”

A dispetto di questi timori, Crowe ha lavorato quasi senza sosta da quando si è fatto notare per la prima volta nel film australiano “The Crossing”(1990). “Le offerte di lavoro sin dalla prima volta che ho avuto un ruolo principale sono state continue e in molte occasioni tali da sopraffarmi se rapportate a quanto posso effettivamente fare in un dato anno,” dice. In aggiunta alle sue robuste interpretazioni, il suo successo si è basato anche sulle sceneggiature che sceglie. Crowe stesso stabilisce i suoi film, e basa le sue scelte su un approccio analitico. “Prendo sempre la decisione nello stesso modo,” dice. “Se ho una reazione fisica al copione, è quasi certo che sia quello che io farò. Io lo chiamo il fattore pelle d’oca.”

Lui affronta pure il ruolo con un approccio da operaio specializzato. Dice: “Assumo nel lavoro un atteggiamento da classe operaia. Non credo di dover mai presumere che qualcuno avrà successo solo perché arrivi tu. Penso che ciò che rende queste cose speciali sia lo sforzo che ci metti. Le cose che impari si trasmettono e si manifestano attraverso l’interpretazione. Il film è un mezzo molto elusivo, e se non sei veramente concentrato su di esso, ti può sfuggire. Ma quei piccoli tocchi particolari, quel piccolo fremito dell’occhio al momento giusto nella narrativa di un film - può sostituire quattro battute del dialogo.

Sia che stia giocherellando con la sua faccia in “A Beautiful Mind” mentre lancia una frecciata pungente ad un collega di Princeton o che stia facendo scorrere la sabbia fra le dita mentre si appresta alla battaglia in “Gladiator”, quei tocchi emergono in ogni aspetto dell’opera degna di riconoscimenti di Crowe.

Quei tocchi particolari che noi non vediamo - quelli che Crowe conserva per se stesso - sono i momenti raramente condivisi, privati che lui riesce a godersi solo di tanto in tanto ormai, quando è di nuovo a casa nel suo ranch.

 

* Il nome scientifico del red-bellied black snake (cobra nero dal ventre rosso) è “pseudechis porphyriacus. Il nome scientifico del “king brown” è “pseudonaja textilis”. (torna al testo)

* Dall’alto potere paralizzante, così definita per il dorso a forma di conchiglia. (torna al testo)

* Unità di misura usata per i cavalli. (torna al testo)

 

Cowboys & Indians - June, 2002

Russell Crowe

by Eric O'Keefe

Cowboys & Indians presents an exclusive interview and never-before-seen photography at the actor's Australian ranch

 

Days have turned into weeks, yet the irony of the 74th Academy Awards has failed to diminish. How is it possible that the leading actor in the film that won Academy Awards for Best Picture, Best Director, Best Supporting Actress, and Best Screenplay failed to win Best Actor honors? The answer goes to the essence of Russell Crowe. The remarkable Aussie has spent the better part of the last decade creating a series of iconic characters - John Nash, Maximus, Jeffrey Wigand, and Bud White - rather than focusing on Hollywood hype. The resulting legacy is that of an accomplished artist, not the typical sort of celebrity so routinely dubbed a star.

Point No. 1: Stars don't show up for interviews on time. That would be...thoughtful, considerate and indicative of a schedule, which, as everyone knows, is something that A-list talent need not abide. Crowe? He's five minutes early and ready to roll.

Point No. 2: Stars require legions of handlers to look after everything from mundane chores to major career moves. Crowe forgoes such pretense, going so far as to handle everything from saddling his own horse to vetting prospective scripts. And he insists on performing his own stunt work - as a gunfighter in The Quick and the Dead, an ice skater in Mystery, Alaska, and a gladiator in some sword-and-sandal flick that did a measly $187 million at the box office a couple of years back.

Point No. 3: Simply put, it's all about the star. And this is clearly Crowe's Achilles heel. Ask him about his performance in A Beautiful Mind, and he tells you that "the success of this film is really about Ron Howard as a director. It's not really about me." Get him talking about his Australian ranch, and the conversation turns to his foreman, Tom Payton. Ask him to name his favorite Western, and not only does he fail to mention one of his own but he won't stop raving about John Wayne in The Sons of Katie Elder and McLintock! Will someone tell this guy what it takes to get ahead?

Let's start off with a scene from Gladiator. Crowe's character, Maximus, is getting a little pep talk from Proximo, the ex-gladiator-turned- impresario so masterfully played by the late Oliver Reed. Dazzled by the surgical efficiency of Maximus' sword skills, Proximao senses that the slave who wears the mark of the legion can storm the Coliseum, win Rome, and save Proximo from his banishment to the "flea-infested villages" of the Roman provinces. But first Proximo must convince his gladiator to lighten up on the brutality and play to the audience a bit before he goes off and decapitates a few foes. His admonition: "Win the crowd, and you will win your freedom."

Although his character achieved those ends in Gladiator, the real-life Russell Crowe has endured exactly the opposite. Winning the crowd - three consecutive Academy Award nominations, an Oscar for Gladiator, and a string of films that have generated hundreds of millions of box office dollars - has assured him an almost complete loss of personal freedom. Much like Maximus Decimus Meridius, Crowe's talents have made him a slave to the various offshoots of moviemaking. The man is shackled by an endless series of premieres, press junkets, luncheons, and film festivals. Maybe if he settled down in the States or in Europe his schedule wouldn't be so constrained, but Crowe is committed to staying put in Australia, particularly when it comes to spending time at the Australian ranch he bought six years ago. Crowe's initial idea was to spend half the year in Australia and the other half on location shooting overseas. "The original plan was six and six," he says, before adding, "That worked out for the first couple of years, but it hasn't been working out lately. But I take it when I can get it, mate."

The ranch is located north of Sydney along the Coastal Flats of New South Wales. Crowe originally purchased about 100 acres and has since added hundreds more to accommodate his growing herd of Brangus cattle. "I wouldn't call it great cattle country," he says. "It's not soft ground at all. The British introduced a number of species of grass into the area, which have proven to be very problematic."

The fact that the rolling terrain was once a rain forest only makes for more of a challenge. Says Crowe, "We get a lot of other problems we have to deal with. We've got two of the most poisonous snakes in the world - the red-bellied black and the king brown snake. We've got all manner of spiders, and we've got all sorts of ticks, from just straight ticks to paralysis ticks and shellback ticks. So you've got to be conscious of all the things that are working against the cattle being as good as they can be. But I actually enjoy that part of it."

His herd, once fewer than 25, now numbers close to 450, and he speaks about them in soft, nurturing terms. "It's more than a hobby, but at the same time, I'm not looking to turn off maximum amounts of head every year. I really enjoy the company of the cattle. I really enjoy knowing them, running my hand over them." 

As much as his American audiences are used to thinking of Crowe as one of their own, in person his Australian accent is as heavy as Melbourne Bitter (his favorite beer). He's quick to talk about his mates and what the other bloke had to say, and he's not the least bit hesitant to celebrate the pommel-less Australian stock saddle.

"Whereas you guys will rope off the horse, we don't," he says. "We tend to just corral them first and work with them individually once they're actually in the yards. I have a particular call, and particularly the younger heifers wil respond very easily to that. We have this thing on the farm that when we work in the yards, we work in low tones. Nothing's too extreme. We try not to use the whip too much in the yards. We're not about adrenalizing the cattle. We're not about scaring them or freaking them out. We're about hands-on, care, and nudge. So that's why we can get them to come when we call them, because they're not afraid of us."

A good laugh is his initial response to my question about how running a cattle operation meshes with his moviemaking career. "At the moment my foreman, Tom Payton, is getting a bit edgy," he says. "He wants to get rid of a bunch of young steers, but I want to see them before he does that, so he's just going to have to wait until I get home. I don't like my babies to be sold off when I'm not there. I want to see, and I want to agree that for these reaons, these ones have to go. We don't run the farm based on anybody else's reasons, so I tend to be a bit of a joke in the valley with some of the other blokes because I don't do it strictly the way that they think it should be done."

The same goes for his new horse, or more specifically, his new horse's name. "Everybody else in the valley's got a horse named Lightning or Storm. Mine's name is Honey," he says with a laugh. Shes 14.3 (hands tall), and she comes out of an American sire by the name of the Marquis de Frost. Actually, the horses down on the farm, up until her, have been pretty much basic work horses, but she's a bit more of a sports car. Yeah, she turns it. She covers the eye really nicely. I mean, you just sit back and enjoy the ride."

Honey is more than just a cow horse; she is proof positive that Crowe makes good use of his solitude. "Writing songs is just one of the means of creative expression that I have, and it's something I do on horseback as well. Luckily, I've got a deaf horse," he says as he breaks into laughter.

Crowe's songwriting and his musical career are a mystery to most. His band's lyrical name, 30 Odd Foot of Grunts, offers little explanation. Says Crowe, "A lot of people just simply don't understand why I'm in a band in the first place. They think it's got something to do with the desire to be even more famous, or it's ego-driven and I think it's a really good idea that people should look at me. I just happen to write songs, and I've been doing it for most of my life. My first record came out in 1981 or something like that, and this band has been together in more or less the same form since 1984."

Crowe and his mates have pieced together a documentary about the band, Texas, as a way to set the record straight. "It's a very honest document," he says, "There's no overdubbing. It's very raw. It's probably one of the worst home movies you're ever going to see from that point of view. But I think it shows the band in their true light. Now, whether you think that that's credible or whether the music is your cup of tea, that's completely up to somebody else. But I thought at some point in time, a document has to be made from the band's perspective to show not only the musicians in the band, not only the reasons behind particular songs, but also the depth of the companionship. You know, when you've played in a band, when you've felt the power of the unit as you become more comfortable with the material, then it's a very addictive thing, and it's something that I don't -- I can't easily turn away from."

The documentary's name developed out of Crowe's forays into the Lone Star State. "My first experience with Austin was around 1997," he recalls, "I'd been to Dallas before that...down there in Deep Ellum, and I went to Austin and I was just walking around by myself because that was a sort of period in my life when it wasn't such a big deal for me to go out for a walk. And I just really liked the energy of the city. I liked the fact that you could walk down the street and see 10 different bands within half a mile. So I just put it in the back of my head that when my band was going to get around to recording a new album from scratch that might be a really good place to do it. So that's how we ended up there in 2000."

Crowe's affinity for Texas includes more than just music. "I've got some really good friends down there, and the very first place I ever went for a beer (in Austin) was Stubb's Bar-B-Q, with a filmmaker named Robert Rodriguez (El Mariachi, Spy Kids, Spy Kids II). He took me out, and we sat on that balcony out back there, and I ordered three things from the menu. He just said, 'Look, I know you're Australian and all that sort of stuff, but you're not going to be able to eat all that.' And I'm like, 'Well, we'll see." --- Survey says? director was right.

The band developed such a hankering for Stubb's chopped-beef sandwiches that by the end of their tour last year they called in an order during a pit stop at the Austin airport. "As we were coming in to land, I was like, "Call Stubb's and see if they can deliver some barbecue out to the plane,' There was cheering and then they turned up at the plane with barbeque for 25. It was brilliant!"

As one of the world's best-known actors, it came as quite a shock to learn that Crowe once had no intention of pursuing such a career. "I never really found film. Film found me in the strangest of ways," he says. "It was something that I wanted to do, and it was the thing that I was the most passionate about. But I never discussed it, and I didn't actively pursue it. I didn't think anybody would ever take me seriously. It seemed like such a distant thing."

Despite those trepidations, Crowe has been working almost nonstop since he first make his mark in the Australian film The Crossing (1990). "The offers of work from the very first time I did a lead role have been continuous and a lot of the time overwhelming in terms of how much I can actually do in a given year," he says. In addition to solid performances, his success has been based on the scripts he chooses. Crowe himself determines his films, and he bases his picks on a studies approach. "I always make the decision the same way," he says. "If I have a physical reaction to the script, that's more than likely the one that I'm going to do. I call it the goose-bump factor."

He also brings a journeyman's approach to the role. Says Crowe, "I take a working-class attitude into the job. I don't think that I'd ever assume that somebody's going to be successful just because you turn up. I think what makes these things special is the effort you put in. The things that you learn transfer themselves and come out in the grace notes of the performance. Film is a very elusive medium, and if you're not really focused on it, it can get away from you. But those grace notes - that little flicker of the eye at the right time in the narrative on a film - can replace four paces of dialogue."

Whether he's fiddling with his face in A Beautiful Mind whle launching a stinging barb at a fellow Princetonian or sifting sand through his fingers as he readies for battle in Gladiator, those grace notes emerge in every aspect of Crowe's award-winning oeurve. The grace notes one doesn't see - those that Crowe keeps to himself - are the rarely shared, private moments that he gets to enjoy only occasionally nowadays on his ranch back home.

 

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