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Russell
Crowe - La Stampa - traduzioni
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Articolo di
Eric O’Keefe
dalla rivista Cowboys
& Indians, giugno 2002
la traduzione e' a cura di grace big_grunt@hotmail.com
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COWBOYS & INDIANS - giugno, 2002
RUSSELL CROWE
di
Eric O’Keefe
Cowboys & Indians presenta un’intervista
esclusiva ed una fotografia, mai vista prima d’ora, scattata nel ranch
australiano dell’attore.
I giorni sono diventati settimane, eppure l’ironia
dei 74th Academy Awards stenta a calare. Come è possibile che l’attore
principale del film che ha vinto l’Oscar per il miglior film, il miglior
regista, la migliore attrice non protagonista, e la migliore sceneggiatura
non sia riuscito a vincere il premio come miglior attore? La risposta sta
nell’essenza stessa di Russell Crowe. Il sorprendente australiano ha
trascorso la parte migliore dell’ultimo decennio a creare una serie di
personaggi icona - John Nash, Maximus, Jeffrey Wigand, e Bud White -
anziché a concentrarsi sull’abbagliante giro di Hollywood. Il risultato
finale di ciò è un artista completo, non la tipica specie di celebrità
che viene solitamente definita come una “star”.
Punto N. 1: Le star non si presentano per
le interviste in orario. Sarebbe…. segno di ponderatezza, di rispetto e
indicativo di una certa scaletta, il che, come tutti sanno, è qualcosa
che un talento di serie A non ha bisogno di osservare. Crowe? Lui arriva
con 5 minuti d’anticipo e pronto a girare.
Punto N. 2: Le stars fanno uso di legioni
di collaboratori che si occupano di tutto, dagli impegni mondani ai
maggiori passi della carriera. Crowe fa a meno di tale pretesa, arrivando
al punto di occuparsi personalmente di qualsiasi cosa, dal sellare il suo
stesso cavallo fino ad esaminare con cura i possibili futuri copioni. Ed
insiste per fare egli stesso il lavoro da stuntman - pistolero in “Pronti
a morire”, pattinatore in “Mystery, Alaska” e gladiatore in un film
in costume romano che ha realizzato al box office la miserabile cifra di
187 milioni di dollari un paio di anni addietro.
Punto N. 3: Per dirla in parole semplici,
tutto è in riferimento alla star. E questo è chiaramente il tallone d’Achille
di Crowe. Chiedetegli della sua interpretazione in “A Beautiful Mind, e
lui vi dirà che “il successo di questo film in realtà è di Ron Howard
come regista, non mio.”
Fatelo parlare del suo ranch australiano, e
la conversazione si sposta sul suo braccio destro al ranch, Tom Payton.
Chiedetegli il nome del suo western preferito, e non solo non ne nominerà
nemmeno uno dei suoi, ma non smetterà di andare in estasi per John Wayne
in “The sons of Katie Elder” e “McLintock”!
Qualcuno vuol spiegare a questo giovanotto
cosa ci vuole per fare carriera?
Prendiamo come punto di partenza una scena
di “Gladiator”. Il personaggio di Crowe, Maximus, riceve un discorso
pieno di fervore da Proximo, l’ex gladiatore divenuto impresario così
magistralmente interpretato dall’ultimo Oliver Reed.
Abbagliato dall’abilità chirurgica con
cui Maximus maneggia il gladio, Proximo intuisce che lo schiavo che porta
il marchio dei legionari romani può abbattere il Colosseo, conquistare
Roma, e riscattare anche lui dal suo esilio nei “villaggi infestati
dalle pulci” delle province romane. Ma prima Proximo deve convincere il
suo gladiatore ad attenuare la brutalità e a guadagnarsi il favore del
pubblico prima di decapitare un po’ di nemici e poterne uscire.
Il suo ammonimento: “Conquista la folla, e conquisterai la libertà.”
Anche se il suo personaggio ha raggiunto
questi scopi in “Gladiator”, il Russell Crowe della vita reale ha
patito esattamente il contrario. Conquistare la folla - tre nominations
consecutive all’Academy Award, un Oscar per “Gladiator”, ed una
serie di film che hanno prodotto centinaia di milioni di dollari al box
office - gli ha assicurato la perdita quasi totale della sua libertà
personale. Proprio come Maximus Decimus Meridius, il talento di Crowe lo
ha reso schiavo delle varie conseguenze del fare cinema. L’uomo è
incatenato da una serie interminabile di prime cinematografiche, incontri
con la stampa, pranzi di lavoro, e festival cinematografici. Forse se si
stabilisse negli Stati Uniti o in Europa il suo programma non sarebbe
così pressante, ma Crowe è deciso a voler risiedere in Australia,
specialmente quando può trascorrere del tempo nel ranch australiano che
ha comprato sei anni fa.
L’idea iniziale di Crowe era di
trascorrere metà dell’anno in Australia e l’altra metà nei luoghi
delle riprese oltreoceano. “Il programma originale era sei e sei”,
dice, prima di aggiungere “Ha funzionato per un paio d’anni, ma non
più negli ultimi tempi. Ma mi accontento di quando ci riesco, amico.”
Il ranch è situato a nord di Sidney lungo
le basse coste del New South Wales. In origine Crowe acquistò soltanto
100 acri ma poi ne ha aggiunto altre centinaia per ospitare la sua
crescente mandria di Angus. “Non lo definirei un paese particolarmente
adatto per il bestiame”, dice. “Non è affatto un terreno soffice. I
Britannici introdussero nella zona un certo numero di erbe da pascolo, che
si sono dimostrate molto problematiche.”
Il fatto che il
terreno ondulato fosse un tempo una foresta pluviale crea più di una
sfida. Dice Crowe: “Abbiamo a che fare anche con tanti altri problemi.
Abbiamo due dei più velenosi serpenti del mondo - il “cobra
nero dal ventre rosso ”* e il “king brown”*.
Abbiamo ogni genere di ragni, e ogni genere di zecche, da quelle comuni a
quelle della paralisi fino alle cosiddette “shellback”*.
Quindi devi essere consapevole di tutto ciò che può danneggiare
il bestiame. Ma io in effetti me ne occupo volentieri.”
La sua mandria, una volta meno di 25 capi,
oggi ne conta quasi 450, e lui ne parla con termini dolci, amorevoli. “E’
più di un hobby, ma allo stesso tempo, non tento di ridurre il massimo
numero di capi ogni anno. Mi piace davvero la compagnia dei bovini. Mi
piace conoscerli, passarci sopra la mano.”
Per quanto gli spettatori americani siano
soliti pensare a Crowe come a uno di loro, di persona il suo accento
australiano è forte come una Melbourne Bitter (la sua birra preferita). E’
veloce nel parlare dei suoi amici, e di ciò che aveva da dire l’altro
tizio, e non esita minimamente a celebrare la sella australiana, quella
senza pomello.
“Voi assicurate il cavallo con una fune,
noi invece no,” dice. “Noi prima li guidiamo verso il recinto e poi,
una volta che vi si trovano effettivamente dentro, lavoriamo con loro
individualmente. Io ho un richiamo particolare, a cui rispondono
facilmente specie le manze più giovani. Quando lavoriamo nei recinti
della fattoria usiamo lavorare in toni bassi. Niente è eccessivo.
Cerchiamo di non usare troppo la frusta nei recinti. Non vogliamo eccitare
i bovini, non vogliamo terrorizzarli o farli diventare irrequieti. Noi
usiamo toccarli, curarli, sospingerli pian piano. Ecco perché riusciamo a
farli venire quando li chiamiamo, perché non hanno paura di noi.”
Una bella risata è la sua prima risposta
alla mia domanda su come occuparsi del bestiame si armonizzi con la sua
carriera cinematografica. “Al momento attuale, il mio caposquadra, Tom
Payton, sta diventando un po’ nervoso,” dice. “Vuole liberarsi di un
gruppo di giovani manzi, ma io li voglio vedere prima che lui lo faccia,
quindi dovrà aspettare finché non torno a casa. Non mi va che i miei
piccoli siano venduti quando io non ci sono. Voglio vedere, e voglio
essere d’accordo sui motivi per cui proprio questi se ne devono andare.
Noi non conduciamo l’azienda basandoci sulle ragioni di qualcun altro,
quindi tendo ad essere un po’ lo zimbello della valle per qualcuno degli
altri vicini perché non agisco esattamente nel modo in cui loro pensano
che si dovrebbe agire.”
La stessa cosa vale per la sua nuova
cavalla, o per essere più precisi, il nome della sua nuova cavalla. “Ogni
altro nella valle ha un cavallo di nome ‘Fulmine’ o ‘Tempesta’. Il
nome della mia è ‘Honey’, ” dice con una risata. E’ alta 14,3
mani*, e proviene da uno stallone americano di nome ‘Marquis the
Frost’. In effetti, i cavalli della fattoria, fino al suo arrivo, sono
stati più semplici cavalli da lavoro, ma lei è qualcosa di più di una
macchina sportiva. E’ diversa. E’ proprio una gioia. Voglio dire,
monti e ti godi la tua passeggiata.”
Honey è più che un semplice cavallo da
mandria; è la dimostrazione che Crowe fa buon uso della sua solitudine.
“Scrivere canzoni è proprio uno dei miei mezzi espressivi creativi, ed
è qualcosa che faccio anche a cavallo. Per fortuna, ho una cavalla sorda,
“ dice scoppiando a ridere.
Il fatto di scrivere canzoni e la sua
carriera musicale sono un mistero per i più. Il nome lirico della sua
band, 30 Odd Foot of Grunts, offre poche spiegazioni. Dice Crowe: “Tanta
gente assolutamente non capisce prima di tutto perché sto in una band.
Pensa che abbia qualcosa a che fare con il desiderio di essere ancora più
famoso, o spinto dall’ego, ed io penso che la gente farebbe bene a
guardarmi. Semplicemente mi capita di scrivere canzoni e lo faccio da gran
parte della mia vita. Il mio primo disco è uscito nel 1981 o giù di lì,
e questa band è insieme più o meno con la stessa formazione dal 1984.”
Crowe e i suoi compagni hanno messo insieme
un documentario sulla band, “Texas”, come un mezzo per mettere le cose
in chiaro. “E’ un documento molto onesto,” dice, “Non c’è
doppiaggio. E’ molto grezzo. Probabilmente è uno dei peggiori film
amatoriali che vi capiterà mai di vedere da questo punto di vista. Ma
credo che mostri la band nella sua vera luce. Ebbene, se ritenete che sia
credibile o se la musica è la vostra tazza di the, allora è
assolutamente per qualcun altro. Ma io ho ritenuto ad un certo punto, che
un documento debba essere realizzato secondo la prospettiva della band,
per mostrare non soltanto i musicisti che ne fanno parte, non soltanto le
ragioni che stanno dietro determinate canzoni, ma anche il senso profondo
del cameratismo. Vedi, quando hai suonato in una band, quando hai
percepito la forza dell’unità man mano che ti senti sempre più a tuo
agio con il materiale, allora è qualcosa da cui diventi molto dipendente,
qualcosa da cui non mi… non riesco a distaccarmi facilmente.”
Il titolo del documentario è derivato
dalle scorribande di Crowe nello stato di Stella Solitaria. “La mia
prima esperienza ad Austin è stata verso il 1997,” ricorda, “Ero
stato a Dallas prima di allora… giù a Deep Ellum, e andai ad Austin e
me andavo semplicemente in giro da solo perché era un periodo della mia
vita in cui non era una gran problema per me uscire per fare una
passeggiata. Mi è piaciuta davvero l’energia della città. Mi è
piaciuto il fatto di poter percorrere la strada e veder 10 diverse band in
solo mezzo miglio. Per cui mi sono proprio convinto che quando la mia band
avesse avuto intenzione di incidere un nuovo album quello sarebbe stato
veramente un buon posto per farlo. Ed ecco perché siamo finiti là nel
2000.”
L’affinità fra Crowe e il Texas
comprende più della sola musica. “Ho davvero alcuni buoni amici
laggiù, e il primissimo luogo in cui sia mai andato a bere una birra (ad
Austin) è stato lo Stubb’s Bar-B-Q, con il regista Robert Rodriguez (“El
Mariachi”, “Spy Kids”, “Spy Kids II”). Mi portò fuori e ci
sedemmo su quella terrazza là dietro, ed io ordinai tre cose dal menu.
Lui disse proprio: ‘Guarda, lo so che sei australiano e così via, ma
non riuscirai a mangiare tutto questo.’ E io feci una faccia come per
dire: “Bene, lo vedremo.” Come finì? Il regista aveva ragione.
La band ha sviluppato una tale passione per
i panini con braciola di vitello di Stubb che verso la fine del loro tour
dell’anno scorso fece un’ordinazione durante una breve sosta di
rifornimento all’aeroporto di Austin. “Mentre stavamo per atterrare,
io feci: ‘Chiama da Stubb e vedi se possono consegnare delle grigliate
all’aereo.’ Ci fu un’ovazione e poi arrivarono all’aereo con una
grigliata per 25 persone. E’ stato fantastico!”
Essendo uno degli attori più famosi al
mondo, è stato uno shock venire a sapere che un tempo Crowe non aveva
alcuna intenzione di intraprendere tale carriera. “ In realtà non sono
mai stato io a trovare il film. E’ stato il film a trovare me nel più
curioso dei modi,” egli dice. “Era qualcosa che volevo fare, ed era la
cosa alla quale ero più appassionato. Ma non l’ho mai ragionata, e non
l’ho mai cercata attivamente. Non pensavo che qualcuno mi avrebbe mai
preso sul serio. Sembrava una cosa così distante.”
A dispetto di questi timori, Crowe ha
lavorato quasi senza sosta da quando si è fatto notare per la prima volta
nel film australiano “The Crossing”(1990). “Le offerte di lavoro sin
dalla prima volta che ho avuto un ruolo principale sono state continue e
in molte occasioni tali da sopraffarmi se rapportate a quanto posso
effettivamente fare in un dato anno,” dice. In aggiunta alle sue robuste
interpretazioni, il suo successo si è basato anche sulle sceneggiature
che sceglie. Crowe stesso stabilisce i suoi film, e basa le sue scelte su
un approccio analitico. “Prendo sempre la decisione nello stesso modo,”
dice. “Se ho una reazione fisica al copione, è quasi certo che sia
quello che io farò. Io lo chiamo il fattore pelle d’oca.”
Lui affronta pure il ruolo con un approccio
da operaio specializzato. Dice: “Assumo nel lavoro un atteggiamento da
classe operaia. Non credo di dover mai presumere che qualcuno avrà
successo solo perché arrivi tu. Penso che ciò che rende queste cose
speciali sia lo sforzo che ci metti. Le cose che impari si trasmettono e
si manifestano attraverso l’interpretazione. Il film è un mezzo molto
elusivo, e se non sei veramente concentrato su di esso, ti può sfuggire.
Ma quei piccoli tocchi particolari, quel piccolo fremito dell’occhio al
momento giusto nella narrativa di un film - può sostituire quattro
battute del dialogo.
Sia che stia giocherellando con la sua
faccia in “A Beautiful Mind” mentre lancia una frecciata pungente ad
un collega di Princeton o che stia facendo scorrere la sabbia fra le dita
mentre si appresta alla battaglia in “Gladiator”, quei tocchi emergono
in ogni aspetto dell’opera degna di riconoscimenti di Crowe.
Quei tocchi particolari che noi non vediamo
- quelli che Crowe conserva per se stesso - sono i momenti raramente
condivisi, privati che lui riesce a godersi solo di tanto in tanto ormai,
quando è di nuovo a casa nel suo ranch.
* Il nome scientifico del
red-bellied black snake (cobra nero dal ventre rosso) è “pseudechis
porphyriacus. Il nome scientifico del “king brown” è “pseudonaja
textilis”.
(torna al testo)
*
Dall’alto potere paralizzante, così definita per il dorso a forma di
conchiglia.
(torna al testo)
* Unità di misura usata per i cavalli.
(torna al testo)
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Cowboys & Indians - June, 2002
Russell Crowe
by Eric O'Keefe
Cowboys & Indians presents an exclusive interview and
never-before-seen photography at the actor's Australian ranch
Days have turned into weeks, yet the irony of the 74th Academy Awards
has failed to diminish. How is it possible that the leading actor in the
film that won Academy Awards for Best Picture, Best Director, Best
Supporting Actress, and Best Screenplay failed to win Best Actor honors?
The answer goes to the essence of Russell Crowe. The remarkable Aussie has
spent the better part of the last decade creating a series of iconic
characters - John Nash, Maximus, Jeffrey Wigand, and Bud White - rather
than focusing on Hollywood hype. The resulting legacy is that of an
accomplished artist, not the typical sort of celebrity so routinely dubbed
a star.
Point No. 1: Stars don't show up for interviews on time. That would be...thoughtful,
considerate and indicative of a schedule, which, as everyone knows, is
something that A-list talent need not abide. Crowe? He's five minutes
early and ready to roll.
Point No. 2: Stars require legions of handlers to look after everything
from mundane chores to major career moves. Crowe forgoes such pretense,
going so far as to handle everything from saddling his own horse to
vetting prospective scripts. And he insists on performing his own stunt
work - as a gunfighter in The Quick and the Dead, an ice skater in
Mystery, Alaska, and a gladiator in some sword-and-sandal flick that did a
measly $187 million at the box office a couple of years back.
Point No. 3: Simply put, it's all about the star. And this is clearly
Crowe's Achilles heel. Ask him about his performance in A Beautiful Mind,
and he tells you that "the success of this film is really about Ron
Howard as a director. It's not really about me." Get him talking
about his Australian ranch, and the conversation turns to his foreman, Tom
Payton. Ask him to name his favorite Western, and not only does he fail to
mention one of his own but he won't stop raving about John Wayne in The
Sons of Katie Elder and McLintock! Will someone tell this guy what it
takes to get ahead?
Let's start off with a scene from Gladiator. Crowe's character, Maximus,
is getting a little pep talk from Proximo, the ex-gladiator-turned-
impresario so masterfully played by the late Oliver Reed. Dazzled by the
surgical efficiency of Maximus' sword skills, Proximao senses that the
slave who wears the mark of the legion can storm the Coliseum, win Rome,
and save Proximo from his banishment to the "flea-infested villages"
of the Roman provinces. But first Proximo must convince his gladiator to
lighten up on the brutality and play to the audience a bit before he goes
off and decapitates a few foes. His admonition: "Win the crowd, and
you will win your freedom."
Although his character achieved those ends in Gladiator, the real-life
Russell Crowe has endured exactly the opposite. Winning the crowd - three
consecutive Academy Award nominations, an Oscar for Gladiator, and a
string of films that have generated hundreds of millions of box office
dollars - has assured him an almost complete loss of personal freedom.
Much like Maximus Decimus Meridius, Crowe's talents have made him a slave
to the various offshoots of moviemaking. The man is shackled by an endless
series of premieres, press junkets, luncheons, and film festivals. Maybe
if he settled down in the States or in Europe his schedule wouldn't be so
constrained, but Crowe is committed to staying put in Australia,
particularly when it comes to spending time at the Australian ranch he
bought six years ago. Crowe's initial idea was to spend half the year in
Australia and the other half on location shooting overseas. "The
original plan was six and six," he says, before adding, "That
worked out for the first couple of years, but it hasn't been working out
lately. But I take it when I can get it, mate."
The ranch is located north of Sydney along the Coastal Flats of New
South Wales. Crowe originally purchased about 100 acres and has since
added hundreds more to accommodate his growing herd of Brangus cattle.
"I wouldn't call it great cattle country," he says. "It's
not soft ground at all. The British introduced a number of species of
grass into the area, which have proven to be very problematic."
The fact that the rolling terrain was once a rain forest only makes for
more of a challenge. Says Crowe, "We get a lot of other problems we
have to deal with. We've got two of the most poisonous snakes in the world
- the red-bellied black and the king brown snake. We've got all manner of
spiders, and we've got all sorts of ticks, from just straight ticks to
paralysis ticks and shellback ticks. So you've got to be conscious of all
the things that are working against the cattle being as good as they can
be. But I actually enjoy that part of it."
His herd, once fewer than 25, now numbers close to 450, and he speaks
about them in soft, nurturing terms. "It's more than a hobby, but at
the same time, I'm not looking to turn off maximum amounts of head every
year. I really enjoy the company of the cattle. I really enjoy knowing
them, running my hand over them."
As much as his American audiences are used to thinking of Crowe as one
of their own, in person his Australian accent is as heavy as Melbourne
Bitter (his favorite beer). He's quick to talk about his mates and what
the other bloke had to say, and he's not the least bit hesitant to
celebrate the pommel-less Australian stock saddle.
"Whereas you guys will rope off the horse, we don't," he says.
"We tend to just corral them first and work with them individually
once they're actually in the yards. I have a particular call, and
particularly the younger heifers wil respond very easily to that. We have
this thing on the farm that when we work in the yards, we work in low
tones. Nothing's too extreme. We try not to use the whip too much in the
yards. We're not about adrenalizing the cattle. We're not about scaring
them or freaking them out. We're about hands-on, care, and nudge. So that's
why we can get them to come when we call them, because they're not afraid
of us."
A good laugh is his initial response to my question about how running a
cattle operation meshes with his moviemaking career. "At the moment
my foreman, Tom Payton, is getting a bit edgy," he says. "He
wants to get rid of a bunch of young steers, but I want to see them before
he does that, so he's just going to have to wait until I get home. I don't
like my babies to be sold off when I'm not there. I want to see, and I
want to agree that for these reaons, these ones have to go. We don't run
the farm based on anybody else's reasons, so I tend to be a bit of a joke
in the valley with some of the other blokes because I don't do it strictly
the way that they think it should be done."
The same goes for his new horse, or more specifically, his new horse's
name. "Everybody else in the valley's got a horse named Lightning or
Storm. Mine's name is Honey," he says with a laugh. Shes 14.3 (hands
tall), and she comes out of an American sire by the name of the Marquis de
Frost. Actually, the horses down on the farm, up until her, have been
pretty much basic work horses, but she's a bit more of a sports car. Yeah,
she turns it. She covers the eye really nicely. I mean, you just sit back
and enjoy the ride."
Honey is more than just a cow horse; she is proof positive that Crowe
makes good use of his solitude. "Writing songs is just one of the
means of creative expression that I have, and it's something I do on
horseback as well. Luckily, I've got a deaf horse," he says as he
breaks into laughter.
Crowe's songwriting and his musical career are a mystery to most. His
band's lyrical name, 30 Odd Foot of Grunts, offers little explanation.
Says Crowe, "A lot of people just simply don't understand why I'm in
a band in the first place. They think it's got something to do with the
desire to be even more famous, or it's ego-driven and I think it's a
really good idea that people should look at me. I just happen to write
songs, and I've been doing it for most of my life. My first record came
out in 1981 or something like that, and this band has been together in
more or less the same form since 1984."
Crowe and his mates have pieced together a documentary about the band,
Texas, as a way to set the record straight. "It's a very honest
document," he says, "There's no overdubbing. It's very raw. It's
probably one of the worst home movies you're ever going to see from that
point of view. But I think it shows the band in their true light. Now,
whether you think that that's credible or whether the music is your cup of
tea, that's completely up to somebody else. But I thought at some point in
time, a document has to be made from the band's perspective to show not
only the musicians in the band, not only the reasons behind particular
songs, but also the depth of the companionship. You know, when you've
played in a band, when you've felt the power of the unit as you become
more comfortable with the material, then it's a very addictive thing, and
it's something that I don't -- I can't easily turn away from."
The documentary's name developed out of Crowe's forays into the Lone
Star State. "My first experience with Austin was around 1997,"
he recalls, "I'd been to Dallas before that...down there in Deep
Ellum, and I went to Austin and I was just walking around by myself
because that was a sort of period in my life when it wasn't such a big
deal for me to go out for a walk. And I just really liked the energy of
the city. I liked the fact that you could walk down the street and see 10
different bands within half a mile. So I just put it in the back of my
head that when my band was going to get around to recording a new album
from scratch that might be a really good place to do it. So that's how we
ended up there in 2000."
Crowe's affinity for Texas includes more than just music. "I've
got some really good friends down there, and the very first place I ever
went for a beer (in Austin) was Stubb's Bar-B-Q, with a filmmaker named
Robert Rodriguez (El Mariachi, Spy Kids, Spy Kids II). He took me out, and
we sat on that balcony out back there, and I ordered three things from the
menu. He just said, 'Look, I know you're Australian and all that sort of
stuff, but you're not going to be able to eat all that.' And I'm like, 'Well,
we'll see." --- Survey says? director was right.
The band developed such a hankering for Stubb's chopped-beef sandwiches
that by the end of their tour last year they called in an order during a
pit stop at the Austin airport. "As we were coming in to land, I was
like, "Call Stubb's and see if they can deliver some barbecue out to
the plane,' There was cheering and then they turned up at the plane with
barbeque for 25. It was brilliant!"
As one of the world's best-known actors, it came as quite a shock to
learn that Crowe once had no intention of pursuing such a career. "I
never really found film. Film found me in the strangest of ways," he
says. "It was something that I wanted to do, and it was the thing
that I was the most passionate about. But I never discussed it, and I
didn't actively pursue it. I didn't think anybody would ever take me
seriously. It seemed like such a distant thing."
Despite those trepidations, Crowe has been working almost nonstop since
he first make his mark in the Australian film The Crossing (1990).
"The offers of work from the very first time I did a lead role have
been continuous and a lot of the time overwhelming in terms of how much I
can actually do in a given year," he says. In addition to solid
performances, his success has been based on the scripts he chooses. Crowe
himself determines his films, and he bases his picks on a studies approach.
"I always make the decision the same way," he says. "If I
have a physical reaction to the script, that's more than likely the one
that I'm going to do. I call it the goose-bump factor."
He also brings a journeyman's approach to the role. Says Crowe, "I
take a working-class attitude into the job. I don't think that I'd ever
assume that somebody's going to be successful just because you turn up. I
think what makes these things special is the effort you put in. The things
that you learn transfer themselves and come out in the grace notes of the
performance. Film is a very elusive medium, and if you're not really
focused on it, it can get away from you. But those grace notes - that
little flicker of the eye at the right time in the narrative on a film -
can replace four paces of dialogue."
Whether he's fiddling with his face in A Beautiful Mind whle launching
a stinging barb at a fellow Princetonian or sifting sand through his
fingers as he readies for battle in Gladiator, those grace notes emerge in
every aspect of Crowe's award-winning oeurve. The grace notes one doesn't
see - those that Crowe keeps to himself - are the rarely shared, private
moments that he gets to enjoy only occasionally nowadays on his ranch back
home.
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