FEBBRE
DELLA GIUNGLA
Andando
a caccia di autenticità, gli autori di “Proof of Life” si trovarono
in un luogo difficile in un momento difficile
di William
Prochnau
Per 16
settimane nella primavera del 2000, una troupe di circa 250 persone ha
girato il film drammatico sui rapimenti “Proof of Life” in cima alle
Ande in Equador. Nessun altro film importante era mai stato girato prima
in questi luoghi.
“Quando
le persone andranno a vedere questo film, non si renderanno conto che
siamo stati in una guerra, e che questo avrebbe potuto essere un disastro.
Avremmo potuto cadere in un’imboscata ed essere sconfitti. Non lo siamo
stati.” - Taylor Hackford, regista.
“Considero
la scelta della locazione come un personaggio di questo film. Aggiunge
profondità, come un attore.” - Dow Griffith, responsabile delle
locations.
“Avremmo
potuto girare questo film in un parco in città.” - Russell Crowe,
attore, nella giungla, in mezzo alla pioggia, il fango, e ritardi vari
“Nessun
film vale tutto ciò.” - Alonso Alegria, direttore del casting
sudamericano, mentre la gente sveniva ed i nervi saltavano nell’aria
fredda e sottile della location a 4.200 m. circa di altitudine.
“Mi
comincia veramente a piacere quassù. Potrei vivere qui. Mi è persino
piaciuta la settimana sulla montagna. È diventata una sfida personale.”
- David Morse, attore.
“Sfida!
Diavolo, questo è un ammazza-carriere!” - Charles Mulvehill,
produttore.
****************************************
Il primo
vulcano cominciò a dare problemi verso la metà di ottobre 1999,
costringendo l’Equador ad evacuare 20.000 persone e 162 animali dello
zoo dalla cittadina turistica andina di Banos. Un secondo scoppiò un mese
più tardi, a 78 miglia di distanza, avvolgendo la capitale Quito in una
nube rovente di cenere vulcanica che fermò il traffico, fece chiudere le
scuole, e bloccò l’aeroporto internazionale per sei giorni.
Sebbene l’Equador
abbia circa 30 vulcani, gli scienziati avevano calcolato il numero delle
probabilità di eruzioni silmultanee di vulcani così vicini fra loro in
50.000 contro 1. Nessuno si era preoccupato di calcolare il numero delle
probabilità che avvenissero due eruzioni, a sole 7 e 4 miglia
rispettivamente, dalle principali locations di un importante film
hollywoodiano che stava per essere girato. Nel frattempo i guerriglieri
colombiani avevano effettuato il loro più sfacciato passaggio in Equador
sino a quel momento, rapendo 12 persone, compresi 8 canadesi ed un
americano ad un blocco stradale nella giungla. Costoro appartenevano alla
stessa varietà di guerriglieri di sinistra scelti per interpretare la
parte dei cattivi in “Proof of Life”, il film di Natale della Warner
Brothers da 70 milioni di dollari con Meg Ryan e Russell Crowe.
A Los
Angeles il regista Taylor Hackford, (Ufficiale e Gentiluomo, Bound by
Honour) cominciava ad agitarsi. Un vulcano aggiungeva un pizzico di
sapore drammatico non scritto. Ma due, con uno dei due che sputava
lava a quattro miglia dalla città, ora vuota, in cui aveva previsto di
alloggiare una troupe di 250 persone?
Non poteva
certamente rischiare vite e milioni di dollari così. Hackford si diresse
verso sud per trovare nuove locations, scavare nuove strade nella montagna
ricoperta di giungla, costruire la copia di un campo di ribelli e
provvedere che la location fosse sicura contro eventuali attacchiDovendo
finanziare una rivoluzione con riscatti multimilionari, i guerriglieri non
sono andati tanto per il sottile con l’oggetto dei loro attacchi,
rapendo una delle più famose giornaliste televisive colombiane,
giornalisti stranieri, dirigenti d’azienda americani, un scolaro di 9
anni che aveva disegnato un poster per criticarli, sindaci, deputati, il
fratello di un precedente presidente. Perché avrebbero dovuto fermarsi di
fronte a Meg Ryan?
Ryan
sarebbe stata il perfetto simbolo del capitalismo nord-americano. La
Castle Rock Entertainment la stava pagando 15 milioni di dollari , che era
più di quanto aveva stimato di spendere in salari locali, vitto ed
alloggio e tutto il resto per il periodo dei quattro mesi previsti. Lo
studio pagava anche una piccola fortuna ad una compagnia di Londra
specializzata in rapimenti e riscatti (la Control Risks Group) per
proteggere la troupe e gli attori. Ironicamente, la ditta era il prototipo
della “K&R Company” del copione. Proof of Life si stava
avvicinando pericolosamente alla realtà. Ci si sarebbe avvicinata ancor
di più.
Mancavano
90 giorni all’inizio delle riprese principali. Lo studio era
nervosissimo riguardo all’Equador. Ma Hackford era testardo come un
mulo, determinato sino quasi all’ossessione a filmare nelle stesse
montagne dove la vicenda ha luogo nella realtà. Avrebbe spinto i suoi
sino ai limiti estremi del loro talento e e della loro sopportazione,
durante tormente equatoriali di nevischio sopra i 4000 metri di altitudine
e sulle pendici di colline ricoperte di foresta tropicale, dove la pioggia
cominciava puntuale come un orologio subito dopo mezzogiorno, trasformando
il set in una pista da slalom di fango putrido. “A giugno mi odieranno
tutti”, diceva riferendosi al cast, alla troupe ed allo studio. “Giugno!”
disse Mulvehill quando gli riportai questa battuta. “Diciamo Aprile.”
Disse ciò in Aprile.
In Proof of
Life, Hackford e lo sceneggiatore Tony Gilroy avevano creato un dramma
liberamente basato sul vero rapimento di un americano (interpretato da
David Morse) che era stato prigioniero dei guerriglieri per 11 mesi. Il
negoziatore del riscatto Russell Crowe arriva per aiutare la moglie della
vittima, Meg Ryan, e si innamora di lei. Hackford mi invitò, come autore
dell’articolo di Vanity Fair che aveva ispirato “Proof of Life”, per
osservare le riprese del film. Parlammo a lungo dei rischi di filmare in
Sud-America. Nel riportare la mia storia, avevo visitato la caotica
Colombia (dove il rapimento è un’epidemia), avevo parlato con i
rapitori ed avevo coltivato alcune fonti fra i corpi d’elite dei
negoziatori di Rapimenti & Riscatti. Per girare il suo film Hackford
aveva tre esigenze per le locations: montagne, giungla, e una pace
relativa, una combinazione che eliminava virtualmente ogni paese dell’America
Latina o del Sud-America. Decise per l’Equador. Un paese del Terzo
Mondo, povero, politicamente instabile, imprevedibile e corrotto, ma bello
in modo spettacoloso e la patria di un popolo tra i più amanti della pace
del mondo intero - così pacifico da cedere metà del paese al Perù
piuttosto che combattere per tenerlo.
A gennaio,
a meno di due mesi dall’inizio delle riprese, Hackford convocò i suoi
attori a Londra per le prove. Nella notte del venerdì precedente la prima
lettura generale del copione, che avrebbe avuto luogo il lunedì seguente,
le notizie arrivarono improvvisamente: un colpo di stato a Quito. Gli
attori cominciaro ad allarmarsi, sussurrare ed a guardare le clausole di
rescissione sul loro contratto. Vulcani, rapitori ed ora una rivolta
sudamericana! Lo studio disse: “Trasferitevi in Messico”. La gente
dell’assicurazione, quelli che assicurano contro la cosiddetta “force
majeure” - cause di forza maggiore, guerre civili, scioperi, rivoluzioni
- barcollarono.
Hackford
bluffò. “Sarà tutto finito per lunedì” disse baldanzoso. “Sennò
andrò in Messico”. Non è il tipo da bluffare senza avere delle buone
carte. “Però perderete Natale,” aggiunse. Ouch. Castle Rock e la
società sorella Warner Bros. erano all’angolo. L’Equador è un
meraviglioso paese di più di 12 milioni di abitanti. Ma il colpo di stato
era modello Peter Sellers. Circa 4000 indiani sudamericani disarmati
avevano marciato dalle montagne e occupato la sede del congresso, che era
chiuso e vuoto per il week-end. Costoro chiedevano le dimissioni del
presidente. Egli accettò. L’esercito disse agli indiani di andarsene.
Essi se ne andarono. Il vice-presidente prese su di sé l’incarico e
disse ai suoi compatrioti di fermare la “sciocchezza”. Morse, che
interpreta la vittima in modo ispirato, aveva qualche dubbio. Poi qualcuno
gli raccontò una storia, probabilmente apocrifa, sull’ultima volta che
gli indiani avevano marciato sul congresso. Avevano fatto una sola
richiesta. “Essi chiesero ai deputati di spogliarsi e di indossare gli
abiti tribali. Fine della rivolta” disse Morse. “Sembrava proprio il
mio tipo di paese.”
Il bluff di
Hackford vinse, l’Equador divenne velocemente la sua fortuna e la sua
maledizione. I suoi vulcani slanciati e le sue giungle intricate ne
facevano una co-star per l’Oscar. Ma con la bellezza de paesaggio
arrivò la peggiore stagione delle piogge delle ultime decadi. Slavine di
fango bloccavano il passagio per le locations. Le strade venivano lavate
via. Le nuvole oscuravano i panorami. Il clima politico peggiorò ed il
gas lacrimogeno usato contro le proteste civili veniva sospinto sui vari
set. Le grandi minacce visibili - tentativi di rapimento, i vulcani, la
violenza - non scomparirono mai. Il numero dei rapimenti - in genere un
crimine relativamente raro a Quito - si raddoppiò mentre Proof of Life
era in città. Un avvenimento sensazionale ebbe luogo ad un solo isolato
di distanza dall’hotel-quartier generale, quando una banda armata fino
ai denti assaltò una limousine in pieno giorno, ammazzò l’autista e
rapì la figlia di un importante uomo d’affari equadoregno. “La
minaccia era lì, per tutta la durata delle riprese, e sentivi che
qualcosa avrebbe potuto succedere in ogni momento.” dice Hackford. Ogni
film, durante le sue riprese, ha le sue proprie storie. Proof of Life ebbe
i suoi drammi collaterali: Crowe che divenne una superstar dalla sera al
mattino con l’uscita del film “Gladiatore”, e la storia fra
Meg-e-Russell che procurò infinito materiale per la stampa. (Sebbene
possa sembrare poco probabile, Hackford disse che non si accorse del flirt
Ryan-Crowe finchè non fu pubblicato sui tabloids, quando la troupe ed il
cast raggiunse Londra per le riprese finali, in giugno e luglio. “Niente
mi sorprende veramente,” dice. “Sono così concentrato. Voglio
dimenticare tutto ciò che è irrilevante. Se queste cose non danneggiano
la performance, che importa! Ho fatto film con gente che si faceva di
eroina o sniffava cocaina. Alcuni hanno prodotto una buona performance ed
altri no. Queste cose sono veramente pericolose per il film. Ho avuto
gente che si odiava e che doveva amarsi nel film. Tutto può succedere in
un film. Ma non sapevo della loro storia e non mi importava”). Il
filming di Proof of Life fu scosso anche da episodi più seri: una morte
tragica, rapine, l’accoltellamento di una delle star sudamericane, un
caso di attacco di cuore sul set, due casi di febbri tropicali sconosciute
e debilitanti, e professionisti incalliti che cadevano come mosche per
effetto dell’altitudine. Inoltre i protagosti principali avevano
pressanti agende professionali. Crowe doveva provare che non era solo un
fortunato incidente; Ryan che poteva passare dalla “meringa” al
dramma; Morse che poteva uscire dai ruoli di onesto caratterista. L’Equador
aggiunse non solo uno sfondo spettacolare, ma un taglio più duro ad una
storia dal taglio già critico. Ma non senza un suo prezzo. A volte il
film si impantanò pericolosamente. Gli umori si infiammavano ed
esplodevano - specialmente quello di Hackford - a volte in modo
spettacolare.Vecchie amicizie si incrinavano e si rompevano. Fu una prova
dura.
Divenne
veramente la guerra di Hackford. L’entusiasmo, elemento cruciale tanto
per girare un film quanto per la politica od il football, vacillò,
ritornò e vacillò di nuovo. Verso la fine, in un mare di fango, le
riprese si trascinavano avanti come in una guerra di trincea. In alcuni
giorni girarono qualcosa come un quarto di pagina del copione. “Mio Dio,
non ho nemmeno ancora ucciso qualcuno” borbottò Crowe (sembrava che
scherzasse solo in parte), mentre un giorno passato ad aspettare nella
pioggia, nel fango, in tuta mimetica ed apparecchiatura da combattimento
finiva due ore prima del tramonto per via di nubi nere che rubavano l’ultima
luce.
Nulla
scosse la produzione e lasciò un perdurante influsso funereo come lo
strano incidente capitato alla controfigura di David Morse, Will Gaffney,
dopo tre settimane e mezzo di riprese. Gaffney morì quando il camion sul
quale era a bordo scartò improvvisamente dalla strada di montagna finendo
in un burrone profondo 100 metri. Sorprendentemente, 5 attori sudamericani
sopravvissero. Mulvehill disse che non aveva mai visto un singolo evento
scuotere in questo modo la troupe di un fim. Hackford definì la tragedia
“da incubo”, ancordipiù perché Gaffney era un giovialone, un
insegnante di inglese di 29 anni in vacanza di lavoro a Quito, felicemente
partito per questo straordinario lavoro perché, casualmente, assomigliava
a David Morse. Per Morse l’incidente fu profondamente traumatico. Egli
era andato a casa per problemi familiari. Gaffney aveva preso il suo posto
nel camion.
Questa era
una scafata troupe internazionale. Avevo contato gente che proveniva da 25
nazioni, dalla Cecenia alla Colombia, veterani di film girati in tutto il
mondo. Lavoravano duramente e si divertivano duramente. Ora, ancora sotto
l’influenza della morte di Gaffney, erano diretti nelle peggiori
locations esterne del film: un campo dei ribelli battuto dal vento a più
di 4000 m di altitudine sulle montagne sopra Quito, ed il campo base dei
guerriglieri fradicio di pioggia nella foresta tropicale sotto la città.
Per Hackford questi erano i gioielli della sua corona equadoriana. Essi
erano, per scelta, luoghi molto aspri. Di tutti gli ego che si scontrarono
rabbiosamente l’un con l’altro in Equador, quello di Hackford era il
più complesso. Alto, con la barba, e più bello della maggioranza degli
attori, Hackford è sofisticato, affascinante, generoso ed è sposato con
la grande attrice Helen Mirren. È anche determinato, concentrato, e prono
a scoppi d’ira talmente scioccanti e brutali, a causa dei quali i deboli
tremano e i forti giurano di non lavorare mai più con lui. Mulvehill
chiama queste scoppi “le mattane di Taylor. Hackford le definisce la sua
“parte oscura” ed “irresponsabile”. Ma sembra incapace di portare
rancore. E le sue vittime immancabilmente ritornano, certe che Hackford
saprà far emergere quel certo nonsochè in più dalle loro performance.
“Lo odiavo decisamente” Mulvehill dice parlando dei suoi sentimenti
alla fine di Dolores Claiborne, il loro ultimo film insieme. Ora si
stringe nelle spalle. “Poi il tempo è passato, era stato un buon film,
mi ha chiamato, e…”
Nel
copione, il nascondiglio sulla montagna è conosciuto come Campo Pazzia.
(Camp Insanity). Nella realtà, è uno spiazzo senza alberi accanto ad un
laghetto poche centinaia di metri sopra una località detta Papallacta a
3.900 m di altitudine, un passo attraverso le Ande verso le sorgenti del
Rio delle Amazzoni. Da qui si gode uno dei più spettacolari panorami del
mondo - una veduta di di picchi lontani conosciuta come “il Viale dei
Vulcani”, due dei quali fumanti. Laghetti alpini scintillanti si
annidano centinaia di metri più sotto; crepacci scavati profondamenti si
estendono centinaia di metri più in su. Cioè, se ci si vede. Durante
tutta una settimana sulla montagna, ci si riuscì solo per due ore. Giorno
dopo giorno, la troupe e gli attori lavorarono faticosamente nella nebbia,
con nevischio e pioggia che veniva di traverso in gocce gelate, ad un’altitudine
equivalente grosso modo a quella dei più alti picchi degli Stati Uniti -
montagne quali il Whitney o il Rainier. Lavorare non acclimatati a quell’altitudine
causa una senzazione di nausea alla maggior parte delle persone. Alcuni
vomitano, si spaventano, ansimano in cerca di ossigeno. Ogni mattina
quando arrivavo, l’ambulanza stava andando via con il primo caso.
Il
responsabile santario e della sicurezza della troupe, Jake Edmonds , un
inglese alto e robusto con la pressione alta, svenne di botto nella
tenda-mensa e si risvegliò 45 minuti più tardi mentre lo stavano
traportando a Quito. In tutto, 19 persone furono riportate in basso. La
settimana stava diventando un disastro. La troupe borbottava che avrebbero
ottenuto migliori risultati usando macchine per il fumo in una scena a
prova di suono. Hackford aveva scelto una delle settimane più piovose per
venire sulla sua montagna. Nella città di Quito slavine di fango avevano
travolto ed ucciso 15 persone. Le strade divennero fiumi. La montagna
scomparve. Verso la fine del terzo giorno la luce stava scomparendo
velocemente. Il crepuscolo all’equatore non indugia. Il sole cala come
una pietra alle 6 del pomeriggio, portando con sé il giorno. (L’improvvisa
mancanza di luce colpì ciascuno tanto profondamente che due mesi più
tardi a Londra, dove in giugno la luce indugia sino alle 22.30, Crowe
urlò la miglior battuta non scritta del film: “Sbrigatevi, Perderemo la
luce!” Erano le 4.30 del pomeriggio). Hackford poteva essere al suo
peggio nel tardo pomeriggio, quando il buio si portava via velocemente un’
altra giornata da 125.000 dollari. Una giovane attrice peruviana sbagliò
una scena con uno schiaffo. Il regista arrabbiato le mostrò come farla.
Il suo schiaffo rimbalzò dal viso dell’attrice come ghiaccio che si
spezza nell’aria sottile e fredda. La giovane donna scappò. Tenici di
ripresa, capisquadra, operatori Steadycam si squadravano i piedi
silenziosamente. In seguito Hackford passò più di mezz’ora a chiederle
scusa in privato. “Ho veramente fatto una cazzata,” mi disse più
tardi, con un grande dolore negli occhi. “Non capisco. È la mia parte
oscura. Ho perso il controllo e mi sono rifatto su una giovane attrice e l’ho
umiliata davanti a tutti.”
Il mattino seguente, fra
turbini di nebbia, radunò la troupe e le chiese scusa pubblicamente. “Non
per nulla questo set è chiamato Campo Pazzia,” disse. Quel pomeriggio
finalmente i sole uscì. Le montagne emerservo improvvisamente ed i laghi
scintillarono. Tenne per due ore, mezza scena, gloriosa ma virtualmente
inutile se non se ne potevano girare altre uguali. Il mattino seguente, il
tempo era due volte peggio. Hackford stette a contemplarlo per un’ora,
fece i bagagli e partì. La settimana successiva la carovana si trasferì
2500 m più in basso nelle foreste tropicali di Las Palmas, 75 minuti di
curve a gomito da Quito. Questo sito era stato trovato all’ultimo
minuto, comprato dalla vedova di un agricoltore per 8.000 dollari dopo che
il vulcano aveva costretto Proof of Life ad andarsene da Banos. Castle
Rock spese poi 100.000 dollari per scavare una strada di accesso al sito.
Non si poteva evitare di vedere Las Palmas. Venendo giù per la strada
principale, il posto luccicava come un campo d’atterraggio alieno. Come
ci si avvicinava, il luccichio diventava il riflesso su migliaia di metri
quadrati di fogli di plastica messi lì nel tentativo di impedire ai
fianchi fradici della montagna di franare sulla strada. Dall’altra
parte, in una valletta verdeggiante in mezzo alle colline c’era la copia
di un campo di riposo dei guerriglieri: capanne, stie per i maiali, orti,
un campo di calcio. Stormi di pappagalli volavano sopra il campo. Era
caldo. Il sole brillava. Tempo da t-shirt. Il sollievo poteva vedersi
dipinto su ogni volto. “Hi-ho, hi-ho, si lavora” si entusiasmò Chris
Carreras, uno dei primi assistenti del regista. Qualcuno battè i tacchi
in aria, scivolando nel fango metre toccava terra. Adam Bohling, un ex
British Royal Marine, sogghignava in modo diabolico. Aveva passato le
precedenti due settimane a Las Palmas, insegnando le tattiche dei
guerriglieri agli attori sudamericani.. Portava pantaloni da pioggia. “Comincia
tutti a giorni all’una,” disse ridendo. “In-punto.” E così fu. La
foresta tropicale non è proprio una foresta equatoriale. Ci sono solo 254
cm di pioggia all’anno. Hackford non poteva permettersi cambiare di
nuovo il sito. Non accadde con Las Palmas e Papallacta sarebbe stata in
parte trionfalmente salvata da un fortunato giorno di giugno, ed in parte
dalla bravura del grande operatore cinematografico polacco Slawomir Izdiak,
i cui filtri riuscirono a penetratrare la nebbia fino a fondali che l’occhio
umano non poteva vedere. Ma la foresta tropicale divenne un lento avanzare
giorno per giorno che trasformò le prime previsioni in un torrente di
dubbi sul riuscire a mantere la data stabilita di Natale per il lancio del
film. Gli scoppi d’ira di Hackford del tardo pomeriggio divennero
terrificanti. Durante uno di questi, mentre era in piedi in cima ad una
ripida collinetta dirigendo la disposizione di una scena sotto di lui,
divenne improvvisamente “atomico”, come lo definiva Mulvehill. Si
lanciò verso il basso a capofitto, per 100 metri, con lunghe falcate
senza mai inciampare nella poltiglia fangosa. I pappagalli ruppero la
formazione durante quella che uno spettatore definì ”la più lunga,
più rumorosa ed ininterrotta sequela di improperi mai pronunciata in
lingua inglese”. Quando giunse finalmente in fondo Hackford si era
calmato. Mise un mano sul braccio del colpevole, sorrise e disse
quietamente “Possiamo farlo in questo modo!” Mi girai verso Miles
Hargrove, il figlio della vera vittima del rapimento che avevo
intervistato. Hackford lo aveva assunto per girare il video del “making”
del film. “Lo hai ripreso, Miles! E’ la miglior scena del giorno,”
dissi. Hargrove annuì. In precedenza sulla montagna, ricordandosi di chi
gli pagava lo stipendio, il giovane Hargrove aveva spento la telecamera
durante gli scoppi d’ira. Hackford lo vide. “Deciditi, Miles,” disse
il regista. “O sei un documentarista o sei un incapace. Se sei un
documentarista lascia accesa la tua telecamera.”
Russel Crowe ritornò
sul set di Las Palmas trasformato in una nuova superstar, alla fine di un
giro del mondo trionfale di 9 giorni e 25.000 miglia per promuovere il
Gladiatore. Era arrivato sul set con la reputazione di attaccabrighe,
rissoso e macho difficile che sembrava destinato a conflagrare con il
vulcanico regista. Ci furono indubbiamente dei momenti. Ma i due uomini
sembravano più come cuccioli di leone che giocano a colpirsi più che
come adulti che combattono. Un giorno, fece un tagliente commento a
proposito della leadership di Hackford e poi mi guardò: “Stampa una
parola di questo, Billy, e perseguiterò la tua famiglia fino alla tomba.”
Se fossi un politico, Russell, di cui normalmente mi occupo, saresti già
finito. In questo caso, penso che risparmierò il dolore alla mia
famiglia. Durante le riprese a Las Palmas, che si trasformarono presto
nell’ultima delle grandi catastrofi, Crowe infuse a tutti nuova energia
e risollevò il morale. La troupe lo adorava. Affittò un cinema e li
invitò ad una prima privata a Quito del film “Gladiatore”. Dopodichè,
fece tenere aperto il Quito Sports Bar sino alle 4 del mattino, pagando il
conto per cibo, bevande - e danni. Sul set, era professionale quando
doveva esserlo, tutto battute e scherzi quando non doveva. Las Palmas fu
decisivo per il film per una serie di sequenze d’azione che hanno luogo
proprio prima della fine. Tutti i giorni Crowe si bardava con mimetica da
giungla ed M-4. Non usò mai controfigura per le sue scene d’azione, che
prevedevano di sguazzare a lungo nel fango e rotolarsi giù lungo i
fianchi delle colline per i comabttimenti. In una delle prime scene, si
gettò giù per circa 10 metri. Ai piedi della collina si sentì un gran
rumore e poi un ruggito: “Vaffanc…!” Raramente tante persone sono
accorse all’attenzione di uno solo. Era rotolato su tre tronchi
nascosti. Era ferito! Una vecchia ferita, disse, senza dargli peso. Ma non
era così vecchia - una spalla, ferita durante le riprese del “Gladiatore”
e che, all’insaputa di tutti, lo avrebbe costretto ad un’operazione.
Tornò indietro e fece la scena altre 6 volte.
Tutto considerato ho
passato 52 giorni di campagna nella guerra del Generale Hackford in
Equador. Alcune settimane dopo la mia partenza, ricevetti da lui un’e-mail
di due righe. Las Palmas faceva ormai parte del passato e Hackford era
appena ritornato da un giorno di di sole trionfale dal Passo di Papallacta.
Avrebbe dovuto essere un telegramma, così Macarthuriano suonava il
messaggio: “La scena è completa,”. Il generale aveva vinto la sua
guerra. Il film era terminato con un sforamento del budget di 10 milioni
di dollari e tre settimane più tardi del previsto, uno sbadiglio del
consiglio di amministrazione per questi tempi. “Ci sono delle cose che
devi capire sul girare un film,” dice Hackford. “Non la chiamano ‘l’Industria’
per niente. Fagli guadagnare denaro e ti perdoneranno ogni idiosincrasia.
Smetti di fargli guadagnare denaro e sei sulla peggior lista nera del
mondo”.
****************************************
.
William
Prochnau è un giornalista che vive e lavora a Washington e pubblica a
volte su Vanity Fair.
Altri
articoli sul making di Proof of Life possono essere trovati sul sito
MightyWords.com
|
PREMIERE - DECEMBER 2000
JUNGLE FEVER
Chasing authenticity, the makers of 'Proof
of Life' found themselves in a hard place at a bad time
by William Prochnau
For 16 weeks in the spring of
2000, a crew of about 250 people filmed the kidnap drama Proof of Life
high up in the Andes in Ecuador. No major film had ever been shot there
before
"When people go see
this movie, they won't understand that we were in a war, and this
could have been a disaster. We could have been ambushed and defeated.
We weren't." -Taylor
Hackford, director
"I consider the
location to be a character in the film. It adds depth, like an actor."
- Dow Griffith, locations manager
"We could have made
this in a city park." -
Russell Crowe, actor, during rain, mud, and delays in the jungle
"No movie is worth this." - Alonso
Alegria,
Latin American casting director, as people collapsed and nerves
cracked in the cold, thin air on location at 14,000-plus feet
"I've really come
to like it here. I could live here. I even liked the week on the
mountain. It became a personal challenge." -
David Morse, actor
"Challenge! Hell,
this is a career-ender. -
Charles Mulvehill, producer
****************************************
THE FIRST VOLCANO WAS ACTING UP IN
MID-October 1999, causing Ecuador to evacuate 20,000 people and 162 zoo
animals from the Andean tourist town of Banos. A second blew a month later,
78 miles away, enveloping the capital city of Quito in a searing cloud of
volcanic ash that halted traffic, closed schools, and shut down the
international airport for six days.
Though Ecuador has about 30 volcanoes,
scientists computed the odds at 50,000 to 1 against nearly simultaneous
eruptions from volcanoes so close to each other. No one bothered to
calculate the odds of two eruptions happening only seven and four miles,
respectively, from the prime shooting locations of a major Hollywood movie
about to begin filming.
Meanwhile, Colombian guerrillas had made
their most brazen crossing into Ecuador to date, kidnapping 12 people,
including eight Canadians and an American, at a jungle road-block. These
were the same variety of leftist guerrilla cast as the villains in Proof
of Life, Warner Bros.' $70 million Christmas entry, starring Meg Ryan and
Russell Crowe.
In Los Angeles, the director, Taylor
Hackford (An Officer and a Gentleman, Bound by Honor), began to scramble.
One volcano added some unscripted drama. But two, with one spitting lava
four miles above the now-empty town in which he planned to house a crew of
about 250? No way could he risk lives and millions on that.
Hackford headed south to find new locations,
carve new roads in the mountainous jungle, build a replica of a rebel
camp, and arrange for the location to be secured against attack. Funding a
revolution with multimillion-dollar ransoms, the guerrillas have not been
shy about their targets, kidnapping one of Colombia's most famous female
television anchors, foreign journalists, American corporate executives, a
nine-year old schoolboy who painted a poster criticizing them, mayors,
congressmen, the brother of a former president. Why would they draw the
line at Meg Ryan? Ryan would be the perfect symbol of Norte Americano
capitalism. Castle Rock Entertainment was paying her $15 million, which
was more than it planned to spend on all local salaries, meals,
housing-everything-during its four month stay. The studio also paid a
London kidnap-and-ransom company (the Control Risks Group) a small fortune
to protect the cast and crew. Ironically, the firm was one of the
prototypes for the "K&R" company in the screenplay. Proof of
Life was getting uneasily close to real life. It would get closer. It was
90 days before the beginning of principal photography.
The studio was nervous as hell about
Ecuador. But Hackford was bullheaded, determined to the point of obsession
to film in the same mountains and jungle where the reality takes place. He
would push his people to the far limits of their talents and endurance, in
equatorial sleet blizzards at over 14,000 feet and in cloud-forest
hillsides, where the rain began like clockwork shortly after noon, turning
the set into a downhill slalom of putrid mud.
"By June, they all will hate me,"
he said of cast, crew, and studio. "June!" Mulvehill said when I
repeated the line to him. "Try April." He said this in April.
In Proof of Life, Hackford and screenwriter
Tony Gilroy created a drama loosely based on the actual kidnapping of an
American (played by David Morse) who was held in the Andes by Colombian
guerrillas for 11 months. Kidnap negotiator Russell Crowe comes in to help
the victim's wife, Meg Ryan, and falls in love with her. Hackford invited
me, as the author of the Vanity Fair story that inspired Proof of Life, to
watch the making of his movie. We spoke at length about the risks of
filming in South America. In reporting my story, I visited chaotic
Colombia (where kidnapping is an epidemic), talked to kidnappers, and
cultivated sources among an elite corps of kidnap-and-ransom negotiators.
To shoot his movie, Hackford had three
location requirements: mountains, jungle, and relative peace, a
combination that ruled out virtually every country in Latin or South
America. He settled on Ecuador: Third World poor, politically troubled,
unpredictable, and corrupt, but spectacularly beautiful and home to one of
the most peace-loving peoples in the world--so peaceful, the line went,
that they gave half of their country to Peru rather than go to war over
it.
In January, with filming less than two
months away, Hackford called his actors to London for rehearsals. On the
Friday night before the first read-through, the following Monday, the news
clattered in abruptly: a coup d'etat in Quito. The actors fretted,
whispered, and looked at their escape clauses.
Volcanoes, kidnappers, and now a South
American revolt! The studio said, "Move it to Mexico." The
insurance people, the ones who insure against "force majeure" -
acts of God, civil strife, strikes, revolutions-wobbled.
Hackford bluffed. "It will be over by Monday," he said
boldly. "Or I'll go to Mexico. He doesn't bluff
without a hole card. "But you'll miss Christmas," he added. Ouch.
Castle Rock and parent Warner Bros. were backed into a corner.
Ecuador is a marvelous country of more than
12 million people. But the coup was a Peter Sellers set piece. About 4,000
unarmed South American Indians marched down out of the mountains and
occupied the house of congress, which was closed and empty for the
weekend. They demanded the president's resignation. He resigned. The army
told the Indians to go home. They went. The vice-president took over
within 24 hours and told his countrymen to stop the "buffoonery."
Morse, whose performance as the victim is inspired, had brief
doubts. Then someone told him a story, probably apocryphal, about the last time the Indians marched on the
congress. They
made one demand. "They forced the congressmen to strip--and put on
native clothing. End of revolt," Morse says. "It sounded like my
kind of country.
Hackford's bluff won, Ecuador quickly
became his blessing and his curse. Its soaring volcanoes and dank jungles
created that Oscar-caliber costar. But with the scenery came the country's
worst rainy season in decades.
Mudslides blocked routes to locations.
Roads washed out. Clouds shrouded vistas. The political climate worsened,
and tear gas used against civil protests wafted onto sets.
The big, visible threats--kidnapping attempts, volcanoes, violence--never went
away. The rate of kidnappings,
usually a relatively rare crime in Quito, doubled while Proof of Life was
in town. One sensational incident occurred just a block from the
headquarters hotel, when a heavily armed gang ambushed a limousine in
broad daylight, shot the driver, and kidnapped the daughter of a prominent
Ecuadorean businessman. "The threat was there every day of shooting,
and you felt that something could happen at any minute," Hackford
says.
A movie on location creates its own dramas.
Proof of Life had sideshows: Crowe becoming an overnight superstar with
the release of Gladiator, and the Meg-and-Russell frolic providing endless
fodder for the press. (Unlikely as it seems, Hackford says he was unaware
of the Ryan-Crowe romance until it entered the tabloids when the crew
reached London for the shoot's final stages, in June and July. "Nothing
really surprises me," he says. "I'm so focused. I want to be
oblivious to the irrelevant. If these things don't affect the performance,
so what! I've made films with people who were shooting heroin or
freebasing cocaine. Some have given good performances and some haven't.
These things are real dangers to the film. I've had people who hate each
other and have to love each other in the film. Anything can happen in a
movie. But I didn't know about them; and I didn't care.")
Proof was also beset by more serious troubles: a tragic
death, muggings, a stabbing attack on one of the South
American stars, an on-set heart attack, two cases of debilitating and
unknown tropical diseases, and hardened pros falling like flies from
altitude sickness.
The primary players also had pressurized
professional agendas. Crowe needed to prove that he wasn't a fluke; Ryan
that she could shift from meringue to drama; Morse that he could break out
of journeyman supporting roles.
Ecuador added not just spectacular scenery
but a rawer edge to a raw-edged drama. But not without a price. At times,
the movie bogged down dangerously. Tempers flared and cracked - especially
Hackford's, occasionally in spectacular ways. Old friendships bent and
crumbled. It was one rough go.
Indeed, it became Hackford's war. Momentum,
as crucial to moviemaking as it is to politics or football, faltered,
cranked back up, and faltered again. Toward the end, in a morass of mud,
the shot crept along like trench warfare. Some days they shot as little as
one-fourth of a page of script. "Jesus, I haven't even killed anyone
yet," Crowe muttered (he sounded like he was only half-kidding), as a
day spent waiting in rain, mud, and camouflaged combat gear ended two
hours before sunset with dark clouds stealing the last light.
NOTHING JOLTED THE PRODUCTION AND
established its lingering pall like the freak accident that killed Morse's
stand-in, Will Gaffney, after three and a half weeks of filming. Gaffney
died when a truck in which he was riding veered inexplicably off a
mountain road and plunged 350 feet into a ravine. Remarkably, five South
American actors survived. Mulvehill said he had never seen a single event
so stagger a movie crew. Hackford called the tragedy "nightmarish,"
all the more because Gaffney was such a happy innocent, a 29-year-old
English teacher on a busman's holiday in Quite, who was joyously off on a
grand lark because he coincidentally looked like Morse. For Morse, the
accident was deeply traumatic. He had gone home to attend to a family
matter. Gaffney had taken his place in the truck.
This was a tough international crew. I
counted people from 25 countries, ranging from Chechnya to Colombia,
veterans of movies made all over the world. They worked hard and played
hard. Now, in the aftermath of Gaffney's death, they were headed into the
meanest outdoor locations of the movie: a windswept rebel camp more than
14,000 feet up in the mountains above Quito, and a soggy guerrilla base
camp in the cloud forest below the city. For Hackford, these locations
were the jewels in his Ecuadorian crown. They were, by design, very harsh
places.
Of all the egos that careened testily off
each other in Ecuador, Hackford's was the most complex. Tall, bearded, and
more handsome than most movie stars, he is sophisticated, charming,
generous, and married to a great actress, Helen Mirren. He also is so
driven, so focused, and given to such sudden and shockingly brutal
outbursts that the weak tremble and the strong swear they will never work
for him again. Mulvehill calls these eruptions "Taylor's nut-outs."
Hackford calls them his "dark
side" and "irresponsible." But he seems incapable of
holding a grudge. And his targets almost always return, certain that
Hackford draws some crucial extra bit out of them.
"I absolutely hated the
man," Mulvehill said of his feelings at the end of Dolores Claiborne,
their last movie together. Now he shrugs. "Then time passed, it was a
good movie, he called me, and..."
In the script, the mountain hideaway
is known as Camp Insanity. In reality, it is a treeless bluff at the side
of a small lake a few hundred meters above a place called Papallacta, a
13,000-feet-high pass through the Andes to the headwaters of the Amazon.
From it stretches one of the most spectacular views in the world--a
panorama of distant peaks known as "the Avenue of the Volcanoes,"
two of them smoking. Sparkling alpine lakes nestle thousands of feet below;
jagged crags reach thousands of feet above.
That is, if you can see. For all but two
hours of one week on the mountain, you couldn't. Day after day, crew and
actors toiled through fog and through sleet and rain driven sideways in
cold pellets at an elevation roughly equivalent to the summits of the
highest peaks in the continental United States--mountains like Whitney or
Rainier.
Working unacclimated at that altitude makes
most people queasy. Some vomit, panic, gasp for oxygen. Every morning when
I arrived, the ambulance was pulling out with the first evacuation. The
crew's' health-and-safety officer, Jake Edmonds, a burly six-foot-six Brit
with high blood pressure, passed out cold in the lunch tent and woke up 45
minutes later as he was being taken down to Quito. In all, 19 people were
taken down.
The week was becoming a disaster. The
crew grumbled that they would get better results with smoke machines on a
soundstage. Hackford had picked one of the rainiest weeks in history to
come to his mountain. In Quito, mudslides killed 15 people. Roads became
rivers. The mountain disappeared. Near the end of the third day, the light
was going fast. Twilight does not ebb at the equator. The sun sinks like a
stone at 6 P.M. sharp, taking day with it. (The sudden loss of light
affected everyone so profoundly that two months later in London, where
light lingers till 10:30 P.M. in June,
Crowe barked the greatest unscripted line of the movie: "Hurry! We'll
lose the light!" It was 4:30 in the afternoon.)
Hackford could be at his worst in
late afternoon, darkness being such a fast thief of another $125,000 day.
A young Peruvian actress blew a slapping scene. The director angrily
showed her how to do it. His slap ricocheted off her face like an icefall
in the cold, thin air. The young woman ran off. Gaffers, grips, and
Steadicam operators stared silently at their feet. Hackford then spent a
half hour apologizing to her privately. "I really fucked up," he
told me later, with awful pain in his eyes. "I don't
understand it. It's the darker side of me. I really lost it and took it
out on a young actorand humiliated her in front of everybody." The
next morning, amid fog swirls, he called the crew together and apologized
publicly. "Not for nothing is this set called Camp Insanity," he
said. That afternoon, the sun finally broke through. Mountains popped out
and lakes twinkled. It held for two hours, half a scene, glorious but
virtually worthless without more of the same. The next morning, the
weather was fouler by twice. Hackford looked at it for an hour, packed up,
and left.
The next week, the caravan moved 8,000 feet
lower into the cloud forests of Las Palmas, 75 minutes of hairpin curves
from Quito. This was a last-minute find, bought from a farmer's widow for
$8,000 after the volcano forced Proof Of life away from Banos. Castle Rock
then spent $100,000 carving a road into the site. You couldn't miss Las
Palmas. Coming down the main road, the place glinted in the distance like
an alien landing field. As you went closer, the glint became a reflection
off hundreds of thousands of square feet of plastic sheeting put there in
an attempt to hold the soggy mountainside back from the road.
On the other side, in a verdant hollow
surrounded by hills, lay a replica of a guerrilla rest camp: huts, pig pen,
vegetable gardens, a soccer pitch. Formations of parrots flew overhead. It
was warm. The sun was shining. T-shirt time. The relief could be seen in
every face. "Hi-ho, hi-ho, it's off to work we go," chirruped
Chris Carreras, a first assistant director. Someone leapt into a
heel-click, then skidded in the mud when landing. Adam Bohling, a former
British Royal Marine, grinned devilishly. He had been at Las Palmas for
the past two weeks, training the South American actors in guerrilla
tactics. He was wearing rain pants. "It starts every day at 1 o'clock,"
he laughed. "Pre-cise-ly." It did. The cloud forest was not
quite a rain forest. It got only 100 inches of rain per year.
Hackford could not take another
location backfire. Las Palmas would be far from that, and Papallacta
eventually would be triumphantly salvaged-partly by the luck of one good
day in June, partly by the remarkable photography of the great Polish
cinematographer Slawomir Idziak, whose filters cut through fog to
ackgrounds the eye couldn't see. But the cloud forest became a
day-after-day slog that turned earlier
second-guessing into a torrent of doubt about making the Christmas release
date.
Hackford's late-afternoon outbursts became
awesome. During one, standing high up on a steep hill, directing a scene
setting up below him, he suddenly "went nuclear," as Mulvehill
was given to calling it. He marched down, headlong, 150 feet, without
missing a sloshing, muddy stride. Parrots broke formation at what one
onlooker called the "longest, loudest, uninterrupted string of
English-language epithets ever uttered." By the time he reached the
bottom, Hackford seemed to have burned himself out. He placed an arm on
the offender's shoulder, smiled, and quietly said, "Can we do it this
way!" I turned to Miles Hargrove the son of the real-life kidnapping
victim I had interviewed. Hackford had hired Hargrove to do the in house
video of the making of the movie. "Did you get that, Miles! It was
the best scene of the day," I said. Hargrove nodded. On the mountain
earlier, mindful of who was paying his check, young Hargrove had turned
off his camera during outbursts. Hackford saw him. "Make up your mind,
Miles," the director said. "You're either going to be a
documentary maker or a hack. If you're going to be a documentary maker,
leave your camera on."
At Las Palmas, Russell Crowe returned to
the shoot a new superstar, just off a triumphant 25,000-mile, nine-day
world tour to hype Gladiator. He had come to the picture with a reputation
as a troublemaker, a brawler, and one difficult dude, seemingly destined
to conflict with his volatile director. There were moments. But the two
men were more like bear cubs batting at each other than full-growns
charging. Once, he made a sharply cutting comment about Hackford's
leadership and then stared at me: "Print a word of that, Billy, and
I'll haunt your family to the grave." If you were a politician,
Russell, whom I normally cover, you'd be dead meat. In this case, I think
I'll save my family the grief.
During the shoot at Las Palmas, which
started to slip quickly into the last of the great downers, Crowe infused
new energy and propped up morale. The crew loved him. He rented a theater
and invited them to a private Quito premiere of Gladiator. Afterward, he
kept the Quito Sports Bar open until 4 A.M., picking up the tab for the
food, the booze--and the damage. On the set, he was all business when he
needed to be; all jokes and one-liners when he didn't.
Las Palmas was crucial to the movie for a
series of action sequences just before the end. Crowe was decked out each
day with jungle khakis and M-4. He did his own stunts, which meant a lot
of sloshing in the mud and combat rolls down hillsides. In one of the
first stunts, he did a 30-foot roll. At the bottom of the hill, there was
a terrible clatter and then a roar: "Mutha-fucka!!!!" Rarely
have so many people rushed to the attention of one man. He had rolled over
three unseen logs. Was he hurt! An old injury, he said, shaking it off.
But it wasn't so old--a shoulder, injured making Gladiator and,
unbeknownst to anyone, an injury that would force him into surgery. He
went back and did the scene six more times.
I spent, all told, 52 days on campaign in
General Hackford's war in Ecuador. A few weeks after leaving, I received a
two-line e-mail from him. Las Palmas was over and Hackford had just
returned from a day of sunny triumph at Papallacta Pass. It should have
been a cable, so MacArthuresque did it read: "The scene is
complete," he wrote. The general had won his war: Filming ended $10
million over budget and three weeks over schedule, a boardroom yawn by
today's standards. "There is one thing you have to understand about
making movies," Hackford says. "They don't call it 'the
Industry' for nothing. Make them money, and they will forgive any
idiosyncrasy. Stop making them money, and you are on the worst shit list
in the world."
*****************
William Prochnau is a Washington-based
journalist and Contributing Editor to Vanity Fair. More of his writing on
the making of Proof of Life can be seen on the website MightyWords.com.
|