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Proof - Istantanee, 1991
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La curiosa storia di un uomo cieco che scatta fotografie
per avere la prova che il mondo e' davvero cosi' come gli altri glielo
descrivono |
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Titolo
originale: |
Proof |
Nazione: |
Australia |
Anno: |
1991 |
Genere: |
Commedia |
Durata: |
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Regia: |
Jocelyn Moorhouse |
Sceneggiatura: |
Jocelyn Moorhouse |
Musiche: |
Waving Not Drowning |
Fotografia: |
Martin McGrath |
Montaggio: |
Ken Sallows |
Scenografia: |
Dimity Huntington |
Costumi: |
Kerry Mazzocco |
Cast: |
Russell Crowe
(Andy) |
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Hugo Weaving (Martin) |
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Genevieve Picot (Celia) |
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Heather Mitchell (madre
di Martin) |
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Jeffrey Walker (Martin
da piccolo) |
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Daniel Pollock (punk) |
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Frankie J. Holden
(Brian) |
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Lisa Chambers
(infermiera) |
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Belinda Davey
(dottoressa) |
Produttore: |
Lynda Hoouse |
Produzione: |
Australian Film
Commission, Film Victoria, House & Moorhouse Films |
Distribuzione: |
Fine Line Features |
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Proof
la trama
Martin, cieco, vive solo,
accudito da una governante, Celia. Martin ha l'abitudine di scattare
fotografie, per poi farsi descrivere cio' che ha ritratto e prendendone
nota nel linguaggio braille. E' legato a Celia da uno strano rapporto di
odio/amore. Lui sa che lei lo desidera, e sembra trarre piacere dal
trattarla male, respingendola. Un giorno conosce Andy, lavapiatti in un
ristorante, e inizia a farsi descrivere le sue foto da lui. All'inizio
riluttante, Andy finisce per diventare la persona della quale Martin si
fida di piu', per la sua integrita' morale e la sua schietta semplicita'.
I due finiranno per diventare amici. Ma Celia, sempre disperatamente
innamorata di Martin, e' in agguato. Si scopre che lei, mentre Martin
passeggia e scatta le sue foto casuali, a sua volta insegue Martin di
nascosto e lo fotografa. Un giorno Martin inconsapevolmente la fotografa.
Quando mostra quella foto ad Andy, questo per coprire il segreto di Celia
mente per la prima volta a Martin su cio' che e' ritratto nella foto.
Prendendo spunto da questa breccia che si crea nel rapporto di totale
fiducia reciproca nel rapporto tra Martin ed Andy, Celia seduce Andy,
facendo in modo che Martin li scopra; poi invita Andy a casa sua, dove
Andy, orripilato, trova le pareti coperte di fotografie che Celia ha
scattato ad un inconsapevole Martin, e si rende conto di essere stato
usato da Celia che era gelosa del rapporto creatosi tra i due uomini.
Martin, che basa la sua vita sulla completa onesta', si allontana da Andy
e licenzia Celia. In seguito pero', ci sara' un riavvicinamento con Andy,
e quindi si chiude con la speranza che l'amicizia e la fiducia reciproca
potranno essere recuperate.
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Nel 1991, Russell Crowe ha vinto il
premio come miglior attore non protagonista dell'Australian Film Institute
per Proof
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le tre ultime immagini sono tratte da Russell
Crowe slideshows
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Recensione dal New York Times, 3 gennaio 2001
TACCUINO DEL CRITICO
‘Proof’: l’interruzione di un circolo
doloroso di Odio ed Amore
DI ELVIS MITCHELL
Il film australiano “Proof” del 1991 comincia con
una serie di fotografie che sono frammenti sensuali, ritratti che rivelano
solo parti di un mondo e trasmettono una disperazione che il resto del
film si dispone ad esplorare in modo essenziale, intelligente ed
umoristico.
L’immaginifico e straordinariamente soddisfacente
film del debutto cinematografico della scrittrice e regista Jocelyn
Moorhouse è così buono che provoca una domanda : che cosa le è
successo? L’itinerario della sua carriera negli anni successivi sembra
provare che non c’è posto nelle sedi istituzionali del grande cinema
americano per una donna capace di lavori così essenziali e seducenti.
“Proof”, che la Film Society del Lincoln Center
presenta con un’unica proiezione domani sera alle 7.30 per commemorarne
i 10 anni dall’uscita, ha il tipo di complessità che rende il film
difficile da vendere persino come film d’autore. Il film di Ms.
Moorehouse è un melodramma romantico con un substrato di paura, gelosia e
relatività della verità, reso vivo attraverso il triangolo che coinvolge
Martin, un cieco paranoico (Hugo Weaving); la sua governante, Celia (Genevieve
Picot); e Andy, il lavapiatti che entra nelle loro vite (Russell Crowe).
Martin e la sua governante conducono un’esistenza
conflittuale - le maniere caustiche di questa nascondono a malapena il
desiderio che prova per il suo datore di lavoro, che ne è a conoscenza e
gioca con lei continuando a tenerla al suo servizio. Entrambi si torturano
a vicenda, sinchè l’innocente Andy capita nella loro piccola guerra e
diventa il cuneo che ciascuna parte usa contro l’altra. Andy è il
raggio di luce che penetra il loro oscuro Giardino dell’Eden, e le cose
non saranno mai più le stesse per Martin o Celia dopo il suo arrivo.
Ms. Moorehouse dissemina queste fosche premesse di
dettagli comici - la sua ripresa dell’amore è costellata dagli
inconvenienti che l’ossessione causa. ”Proof“ è altrettanto
caratteristico dei film di Pedro Almodovar, sebbene senza la sua assoluta
assurdità. Questo non significa che “Proof” non sia pieno di tratti
singolari. Martin porta in giro la sua macchina fotografica per riprendere
avvenimenti della sua vita - che si fa descrivere e che cataloga in
Braille per avere una prova fisica degli avvenimenti. “La prova che
quello che c’è nella fotografia è quello che c’era qui,” dice,
come brusca spiegazione. (Andy non sa come prendere questa inclinazione di
Martin: “C’è un sacco di gente qui,” dice nervosamente Andy la
prima volta che Martin tira fuori la sua macchina fotografica).
“Proof” diventa un po’ semplicistico e
sentimentale solo quando Ms. Moorehouse cerca di spiegare la devozione di
Martin alla sua arte fotografica. Ella struttura il film in modo da dargli
meno peso di quello che un più convenzionale filmaker farebbe, usando dei
flashback che fluttuano attraverso il copione e poi vengono spazzati via
come fiocchi di neve nel turbinare dei momenti che si affastellano durante
il film. I suoi momenti climax sono molto più ingannevoli e raggiungono
lo scopo attraverso un’astuzia sottotono.
Il tocco agile di Ms. Moorehouse conduce a scene che
possono rivaleggiare con la tendenza di Almodovar di strappare fuori l’umorismo
dalla sessualità. Un’enorme ombra sullo schermo appare sopra Celia - un
clichè che qui è sollevato del suo tono sinistro; invece l’oscurità
avvolgente causa un freddo sorriso di anticipazione sul viso di Celia. E,
alcuni momenti prima, disturbata dal’intrusione di Andy, Celia passa al
setaccio i libri di Martin e mette assieme un ritratto cubista di Andy con
pezzi che ha selezionato del suo viso dalle foto di Martin.
“Proof” potrebbe essere facilmente liquidato come
un felice incidente, una realizzazione da una-volta-nella-vita dei doni
che un artista ha da offrire. Ma il film è colmo di indizi di segno
opposto, ad esempio l’agio che dimostra Ms. Moorehouse con i suoi
attori. Mr. Crowe qui è leggero ed appassionato - “Proof” è stato
realizzato prima che decidesse di limitarsi ad un sorriso per film. Mr.
Weaving ha un viso lungo e sottile con una fronte ampia e la bocca
prominente che gli aggiunge sensibilità; sembra esprimere il dolore come
farebbe un cieco, senza avere idea di come il dolore irrompa
improvvisamente quando la sua abituale espressione impassibile, una
maschera di alterigia indifferente, si rompe.
Ms. Picot ha la veloce alacrità della giovane Glenda
Jackson e la sua voce ha una simile risonanza autoritaria.
L’eleganza triste del film non può essere nemmeno
liquidata come un caso. La sua atmosfera è resa più profonda dal tema
musicale intorbidante suonato dalla band australiana “Not Drowning,
Waving”, che può fluttuare delicatamente come una brezza e poi colpire
come un improvviso scoppio di tuono. (il CD della colonna sonora, che è
un po’ più insistente della musica del film, vale la spesa, come anche
“Hammers” una colonna sonora che la band fece per un film minore di
Mr. Crowe “Hammers over the Anvil”).
La triste ironia è che la carriera di Ms. Moorehouse
si è impantanata durante una decade che è ampiamente - ed
inaccuratamente - considerata l’era del film d’autore negli Stati
Uniti e che per caso include qualcosa detto Anno della Donna. Ancora più
ironico il fatto che, grosso modo nello stesso periodo in cui il film “Proof”
stava languendo, film come “Strictly Ballroom” di Baz Luhrmann ed “Il
Matrimonio di Muriel” di P.J. Hogan venivano importati dall’Australia
ed il popolo dei cinema veniva bersagliato dalla loro pubblicità.
“Proof” può non essere stato aiutato dal titolo,
che, sebbene duro ed appropriato, sembra evocare altri lavori per molte
persone. Quando parlo di questo film, la gente mi chiede se sia parte del
canone di Hal Hartley, l’uomo che ha fatto del titolo di una sola parola
il suo Idaho privato. Quando Ms Moorehouse arrivò negli Stati Uniti fu
gravata da adattamenti affettati e consce della loro importanza quali “Come
fare un quilt americano” e “Un migliaio d’acri”.
Dopo essere sopravvissuta a questi film, Mr. Moorehouse
avrebbe potuto comprensibilmente decidere che non voleva nemmeno più “vedere”
un film, figuriamoci girarne uno. E dopo un anno in cui il miglior
risultato raggiunto da una donna nel campo del cinema è “What Women
Want”, “Proof” è più che una ventata d’aria fresca. E’ un
intero serbatoio di ossigeno.
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'Proof': Bitter Cycle of Love and Loathing Interrupted
By ELVIS MITCHELL
The 1991 Australian film "Proof" begins with a series of photographs that are sensual
shards, pictures that reveal only pieces of a world and convey a desperation that the rest of the film sets out to explore with
economy, intelligence and humor. The inventive and extraordinarily satisfying feature-film debut of the writer and director Jocelyn Moorhouse is so good that it provokes a
question: Whatever happened to her? Her career trajectory in the years that followed seems to prove that the American mainstream movie establishment has no place for a woman capable of such beguiling and spare work.
"Proof," which the Film Society of Lincoln Center is presenting in a single showing tomorrow night at 7:30 at the Walter Reade Theater to commemorate the decade since its
release, has the kind of complexity that made the movie difficult to sell even as an art-house
presentation. Ms. Moorhouse's picture is a romantic melodrama with a subtext of
fear, jealousy and the relativity of truth, brought to life through a triangle involving
Martin, a blind paranoiac (Hugo Weaving); his housekeeper, Celia (Genevieve
Picot); and Andy, the dishwasher who enters their lives (Russell Crowe).
Martin and his housekeeper lead a combative existence - her caustic manner barely covers her desire for her
employer, who knows that she wants him and toys with her by keeping her on. They both torture each other until the innocent Andy wanders into their little war and becomes a wedge that each side uses against the
other. Andy is a shaft of light penetrating their shady Garden of Eden, and things are never the same for Martin or Celia after he shows up.
Ms. Moorhouse seeds this grim-sounding premise with comic highlights - her take on love is filled with the stumbles that obsession
causes. "Proof" is as distinctive as Pedro Almodóvar's films, though without his full-on
absurdity. This doesn't mean that "Proof" isn't ripe with
singularity. Martin carries a camera around and snaps pictures of events in his life - which he has described to him so that he can label them in Braille - not because he wants to keep an album of Kodak moments but because he needs physical evidence of the
events. "Proof that what's in the photograph is what was there," he
says, by way of curt explanation. (Andy doesn't know what to make of
Martin's bent: "There's lot of people here," he nervously blurts the first time Martin whips out his
camera.)
"Proof" gets a bit simplistic and sentimental only when Ms. Moorhouse attempts to explain
Martin's devotion to his photographic craft. She structures the film to give this less weight than a more conventional filmmaker
might, using flashbacks that float through the scenario and then fly off like snowflakes in the blizzard of moments that pile up through the film. Its climaxes are far more insidious and succeed through low-key
cunning.
Ms. Moorhouse's agility leads to scenes that rival Mr. Almodóvar's penchant for wringing humor out of
sexuality. A huge on-screen shadow looms over Celia a cliché that is here relieved of its ominous tone;
instead, the enveloping darkness brings a coldblooded smile of anticipation to
Celia's face. And earlier, disturbed by Andy's intrusion, Celia goes through
Martin's books and assembles a Cubist portrait of Andy that she has culled from pieces of his face in
Martin's snapshots.
"Proof" could be written off as a happy accident, a once-in-a-lifetime realization of all of the gifts that an artist has to
offer. But the picture is filled with indications to the contrary, like Ms.
Moorhouse's ease with her actors. Mr. Crowe is eager and lithe here -
"Proof" was made before he began to limit himself to one smile per
picture. Mr. Weaving has a long, thin face with a large forehead and a prominent mouth that adds to its
sensitivity; he seems to register hurt as a blind person might, with no idea how pain bursts through when his usual impassive
expression, a mask of indifferent haughtiness, cracks open. Ms. Picot has the swift alacrity of the young Glenda
Jackson, and her voice has a similar authoritative resonance.
The film's moody elegance can't be dismissed as a fluke either. Its
atmosphere is deepened by the roiling score played by the Australian band
Not Drowning, Waving, which can waft as delicately as a breeze and then
slam like a thunderclap. (The CD soundtrack, which is a bit more insistent
than the music in the movie, is worth having, as is "Hammers," a
score the band did for a lesser movie starring Mr. Crowe, "Hammers
Under the Anvil."
The sad irony is that Ms. Moorhouse's
career stalled during a decade that is widely — and inaccurately —
considered to be the era of the art-house picture in the United States and
that also happened to include something called the Year of the Woman. Even
more ironic, at roughly the same time that "Proof" was
languishing, movies like Baz Luhrmann's "Strictly Ballroom" and
P. J. Hogan's "Muriel's Wedding" were imported from Australia,
and moviegoers were assaulted with publicity about them.
"Proof" may not have been helped
by its title, which, while stark and appropriate, seems to evoke other
works for many people. Whenever I bring the movie up, people ask me if it's
a part of the canon of Hal Hartley, the man who has turned the one- word
film title into his own private Idaho. When Ms. Moorhead came to the
United States to work, she was saddled with plummy, self-important
adaptations like "How to Make an American Quilt" and "A
Thousand Acres."
After surviving those pictures, Ms.
Moorhouse understandably might not even have wanted to see a movie again,
let alone direct one. And after a year in which a woman's peak filmmaking
achievement is "What Women Want," "Proof" feels like
more than a breath of fresh air. It's an oxygen tank. |
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