Del tutto ignote sono le
origini di Ferrara. Sul suo territorio, fin dai secoli più lontani,
erano sorte importanti città: la mitica Spina, prima di tutto, emporio
etrusco dalla cultura profondamente grecizzata, porto di scambio per le
merci provenienti da ogni luogo conosciuto, dall'estremo nord d'Europa
fino alle coste africane. Secoli di oblio l'avevano più tardi
cancellata, sepolta sotto le acque paludose del vecchio delta padano,
finché i moderni archeologi ne riportarono alla luce i magnifici
reperti. Venne poi la stagione di Voghenza, capoluogo romano di una
vasta zona di proprietà imperiale, dove i legionari del potente esercito
capitolino, dopo aver fedelmente servito per anni, venivano inviati a
vivere con l'onesta pensione di un podere da coltivare.
Chi e quando fondò
Ferrara (anticamente Ferraria), però, resta un mistero, si ipotizzano
insediamenti celti lungo il vecchio corso dell'attuale fiume po. Il nome
attuale si trova, per la prima volta, in un diploma del re longobardo
Astolfo, dell'anno 753. Intorno al Mille la città ed il suo territorio
passarono in feudo ai Canossa, il cui governo non doveva essere molto
gradito, tanto che abbiamo notizia di continue rivolte popolari. Tale
era il disordine, che la celebre e potente contessa Matilde, nel 1011,
mosse personalmente, alla testa di un grosso esercito, contro la città
ribelle, lasciandola semidistrutta.
Grande rilievo ebbe,
all'inizio del sec. XII, la figura del vescovo Landolfo, che non esitò a
mettersi in urto con la corte pontificia, pur di sottrarre la città alle
pretese di supremazia degli arcivescovi di Ravenna e della stessa Curia
romana. Il successo del grande vescovo diede un forte impulso allo
sviluppo del libero Comune, che potè raggiungere un notevole grado di
libertà e indipendenza. Simbolo del raggiunto rango cittadino fu la
nuova cattedrale, costruita dentro le mura, al contrario della
precedente, per volere di Landolfo e di tutti i maggiorenti. Il libero
Comune di Ferrara si dotò di organi rappresentativi e di magistrature, e
partecipò attivamente alla vita nazionale: Ferrara fu fra le fondatrici
della Lega lombarda, destinata a sconfiggere l'imperatore Federico
Barbarossa.
L'AVVENTO DEGLI ESTENSI
La vita del Comune ferrarese era sconvolta, come quella di quasi tutte
le città del tempo, da sanguinose lotte interne. Le due fazioni dei
Ghibellini e dei Guelfi erano capeggiate rispettivamente dalle potenti
famiglie dei Salinguerra-Torelli e degli Adelardi. Questi ultimi si
erano messi particolarmente in luce ai tempi del grande vescovo
Landolfo, appoggiandolo in pieno nella sua politica. Più tardi Guglielmo
III degli Adelardi si era distinto per aver partecipato alle crociate e
per aver liberato Ancona dal terribile assedio postole dall'arcivescovo
di Magonza, vicario dell'imperatore. Proprio con questo eroico soldato,
però, si preparava l'estinzione della dinastia. Egli, infatti, non aveva
figli e suo fratello Adelardo aveva solo una bambina, di nome
Marchesella. Venuti a mancare lo zio nel 1183 e il padre nel 1185, la
piccola (doveva avere circa sei anni) si trovò unica erede delle
ricchezze e della potenza dinastiche. I suoi famigliari, prima della
morte, avevano preso alcune sagge disposizioni: allo scopo di pacificare
la vita politica cittadina, Marchesella era stata promessa in sposa ai
Salinguerra, che avrebbero così riunito nelle loro mani il potere sulle
due parti politiche. Non così, però, aveva deciso il destino. Nessuna
delle famiglie guelfe ferraresi volle accettare il patto: si pensò a
qualcuno che avesse potere e autorità sufficienti per raccogliere
l'eredità adelarda e continuare la lotta. La scelta cadde sui marchesi
d'Este, di antichissimo lignaggio, ricchi e potenti; essi risiedevano
nei loro feudi compresi fra Rovigo e i Colli Euganei, ma detenevano
importanti cariche anche in Ferrara. Presi gli accordi, la piccola
Adelardi fu rapita dalla casa dei Salinguerra, dove già viveva,
consegnata al marchese Obizzo I d'Este e fidanzata con il di lui nipote,
Azzo VI. Agli Adelardi erano così subentrati, con un colpo di mano, gli
Estensi, destinati a giocare un ruolo fondamentale nella vita di
Ferrara. La piccola erede contesa morì molto presto, prima di essersi
sposata e di aver potuto testare, ma nessuno, nonostante la mancata
unione, mise in dubbio il diritto estense all'eredità.
Nei primi anni Estensi e
Salinguerra sembrarono accordarsi per una suddivisione del potere, ma
ben presto le posizioni si estremizzarono e le lotte infuriarono
violente come prima. Un testimone oculare, l'autore della Chronica Parva
Ferrariensis, narra di quegli anni: "Ho inteso dai miei maggiori che
all'età loro nello spazio di quarant'anni ben venti volte l'una parte
aveva cacciato l'altra da Ferrara con saccheggi, incendi e rovine ad
ogni tratto trentadue torri di cittadini sparse per la città che al
tempo di Salinguerra e Azzo Novello furono eguagliate al suolo". Il
marchese Azzo VII (detto "Novello" per la giovanissima età a cui era
salito al potere) fu una delle figure principali dell'Italia dell'epoca:
a capo delle armate guelfe egli arrivò, in anni di lotte senza
esclusione di colpi, a sconfiggere prima l'imperatore Federico II, a
Parma nel 1248, e poi il terribile capo ghibellino Ezzelino da Romano, a
Cassano d'Adda nel 1259. Non altrettanto bene andò ad Azzo in politica
interna: nel 1222, ancora giovanissimo, egli fu cacciato, assieme a
tutta la famiglia, e dovette vivere lungamente in esilio da Ferrara,
dove si stabilì saldamente il potere dei Salinguerra. Si trattò, per la
città, di un periodo relativamente calmo e prospero. I commerci
fiorirono e il benessere aumentò, tanto che i nuovi signori godevano
dell'appoggio di gran parte del popolo. Non altrettanto, però,
dell'aristocrazia. Nel 1240 Azzo, con l'appoggio di molte città, fra cui
Venezia, diede l'assalto a Ferrara, ma non potè prenderla se non con
l'inganno: invitando il Salinguerra a trattare e poi sequestrandolo a
tradimento. Da quel momento il potere degli Estensi si stabilì
solidamente, anche se a caro prezzo: le repressioni costarono l'esilio a
ben 1.500 persone e Venezia, in cambio dell'aiuto prestato, ottenne
tanti e tali privilegi che ogni possibile sviluppo dei commerci
ferraresi, fino ad allora piuttosto ricchi, fu stroncato per sempre.
Rimasto privo del figlio Rinaldo, premortogli, Azzo adottò un figlio
illegittimo di questi, Obizzo, e lo fece legittimare da papa Innocenzo
IV.
Azzo VII morì il 6
febbraio 1264. Il giorno seguente fu convocata un'assemblea del popolo.
Tutti i nemici degli Estensi furono tenuti lontano dalla piazza, mentre
i partecipanti all'assise vennero disarmati. Circondati da uomini armati
fino ai denti, tutti alleati dei marchesi, i ferraresi non ebbero dubbi
ad acclamare entusiasticamente il nipote di Azzo, Obizzo II, signore
perpetuo della città: così, con un colpo di stato, teminava il Comune ed
iniziava la storia della Signoria. Negli anni seguenti leggi sempre più
restrittive perfezionarono l'opera, abolendo ad una ad una le libertà
comunali e riducendo i magistrati a meri esecutori del volere signorile,
fino agli Statuti del 1287, che abolirono ufficilamente tutte le Arti e
le loro scuole. Nel contempo, in alcune città vicine gli aristocratici
guelfi cominciarono a guardare agli Estensi come a possibili protettori
contro i loro nemici: Modena e Reggio si offrirono così al potere del
marchese di Ferrara, rispettivamente nel 1289 e 1290, portando lo stato
estense a confini ben più larghi dei precedenti.
Alla morte di Obizzo
(1293) gli successe il figlio Azzo VIII, che si vide però contrastare il
potere dai fratelli, entrambi in armi. Il marchese Francesco,
addirittura, invocò l'aiuto del papa, che era nominalmente il signore di
Ferrara. Ulteriori disordini seguirono la morte di Azzo, sfociando
nell'intervento di Venezia, che acquistò dall'erede designato i diritti
sulla fortezza di Ferrara, con l'evidente intento di impadronirsi della
città. Il papa, però, bandì una vera e proria crociata contro la
Repubblica, infliggendole una dura e sanguinosa sconfitta (pare che i
Veneti persero 200 natanti e circa 6.000 uomini). La città passò allora
al dominio pontificio, dapprima diretto, poi esercitato attraverso il re
di Napoli, Roberto d'Angiò. Il nuovo potere fu fieramente avversato
dalla popolazione, soprattutto perché i governatori e le odiate milizie
catalane della guarnigione si dedicavano ad ogni sorta di violenza e di
ruberia. Nel 1317, dopo l'ennesimo sopruso perpetrato dal governatore
Pino della Tosa, i ferraresi insorsero, costringendo i catalani a
rinchiudersi nella fortezza di Castel Tedaldo, dove rimasero dal 22
luglio a 5 agosto. Quel giorno, trattata la pace, i soldati uscirono
allo scoperto e, nonostante le garanzie ricevute, furono sterminati fino
all'ultimo. Il popolo, euforico per la vittoria, non ebbe dubbi a
tornare sotto il potere degli Estensi e nominò signori della città ben
cinque di loro contemporaneamente. Naturalmente non era ancora la pace:
lotte e armistizi fra gli Este e il papa, scomuniche, crociate,
pentimenti e perdoni, alleanze interne e tradimenti famigliari si
alternarono ancora per anni, finché rimase sul trono il solo marchese
Obizzo III il quale ottenne dal pontefice il titolo di vicario e
morendo, nel 1352, lasciò dietro di sé uno stato finalmente pacificato,
sebbene stremato.
Dopo la breve parentesi
del marchese Aldobrandino (figlio di Obizzo III), il potere passò nelle
mani del fratello di questi, Nicolò II, che iniziò un'efficace opera di
risanamento della vita della città. Attraverso un'accorta politica
matrimoniale si assicurò l'alleanza degli Scaligeri di Verona e dei
Malatesta di Rimini, mentre si oppose alla pericolosa espansione dei
Visconti, caldeggiando il ritorno del Papa a Roma. All'interno riformò
l'amministrazione dello stato e introdusse una moneta nuova, la "Lira
Marchesana". Iniziò a lastricare le strade di Ferrara che, tranne poche
eccezioni, erano ancora sterrate e costruì il Castello di San Michele,
tutt'oggi simbolo della città. Sotto Nicolò anche la cultura iniziò a
rifiorire, ma fu il suo fratello e successore, Alberto, a dare una
spinta decisiva alla rinascita del sapere in una città travagliata
troppo a lungo dalle guerre. Egli, nel 1391, ottenne da papa Bonifacio
IX una bolla che, fra le altre concessioni, stabiliva la fondazione
dell'Università, con le stesse facoltà e privilegi degli Studi di
Bologna e Parigi. La città intanto si arricchiva dei palazzi del
Paradiso e di Schifanoia. Venuto a mancare improvvisamente il marchese
Alberto, nel 1393 gli successe il figlio Nicolò III, di non ancora dieci
anni. Seguirono anni di lotte feroci contro un pretendente, Azzo, che
non esitò ad attaccare e razziare più volte il territorio estense,
mentre Ferrara stessa veniva ad un certo punto occupata dalle truppe
padovane di Francesco Novello da Carrara, il potente e infido suocero
del giovane marchese. Tutto sembrava perduto, ma Nicolò prese in mano le
redini dello stato e, sconfitti tutti i nemici, dopo un periodo di
partecipazione alle guerre che insanguinavano l'Italia, intraprese una
politica di pace e di mediazione. Ferrara si trasformò in un centro
diplomatico di primaria importanza, dove venivano stipulati trattati e
tenuti incontri al più alto livello. La fama del suo signore come
amministratore saggio e giusto si sparse ovunque ed ebbe la sua
consacrazione quando la città fu scelta da papa Eugenio IV come sede del
Concilio Ecumenico convocato per l'unione delle chiese d'Oriente e
d'Occidente. A Ferrara, dove già risiedevano umanisti come Guarino
Veronese, precettore del principe Leonello, Giovanni Aurispa e il
Toscanella, convennero allora i maggiori sapienti dei mondi latino e
greco, dando un impulso decisivo alla nascita dell'Umanesimo locale.
Quando, 1442, Nicolò morì a Milano, dove era stato chiamato come
Governatore Generale dell'ultimo duca Visconti, lasciò uno stato
pacificato che si affacciava alla sua più splendida stagione.
Il successore di Nicolò,
Leonello, era stato l'allievo prediletto di Guarino da Verona ed aveva
fina da principio dimostrato un sincero amore per la cultura. Sotto di
lui Guarino fondò a Ferrara una scuola simile a quella di Vittorino da
Feltre a Mantova, ma meno legata ai principi della religione: vi si
praticava il principio dello studio degli antichi unito all'esercizio
fisico, alla ginnastica e alla danza, e tutti vi avevano accesso, senza
distinzioni di censo. Si trattò, per la città, di un evento
importantissimo. I migliori insegnanti furono reclutati per lo Studio e
a corte, come nelle residenze di svago, si tenevano dotte accademie a
cui il signore partecipava in prima persona. A Ferrara arrivarono i
massimi artisti del tempo, lasciando il segno indelebile della loro
presenza: Pisanello, Leon Battista Alberti, Giovanni Bellini, Rogier Van
Der Weyden, Piero della Francesca. La pace cominciata sotto Nicolò
continuò con il figlio, il quale giunse a rifiutare la signoria di Parma
e Piacenza pur di non rischiare il coinvolgimento in pericolosi
conflitti. Molte opere di pubblica utilità furono realizzate in quegli
anni: il marchese ed il vescovo, il Beato Giovanni da Tossignano,
fondarono l'Ospedale di Sant'Anna e grande impegno venne profuso nei
lavori di bonifica e di contenimento delle acque del Po, che
costituivano e sempre avrebbero costituito il maggior pericolo per
Ferrara e il suo territorio. La morte colse prematuramente il saggio
Leonello e gli successe il fratello Borso, uomo di tutt'altra tempra e
personalità. Sotto il nuovo signore l'Università e gli studi
contunuarono a fiorire, largamente sovvenzionati dalle casse della
corte, ma per Borso questo non corrispondeva ad un interesse personale,
bensì ad uno dei tanti modi di glorificare la sua persona. Vanitoso,
amante del lusso e delle adulazioni, il nuovo signore trascinò Ferrara
in ogni tipo di conflitto, tramando senza sosta alle spalle di tutto e
di tutti, incurante della fama di uomo infido che si era guadagnato. Fu
il periodo di maggior amicizia fra Ferrara e Venezia, cui Borso si
appoggiava nelle sue trame, tanto che ildoge Cristoforo Moro arrivò a
dichiarare, parlando delle due città, che "l'una senza l'altra non
potria ben stare". L'arte, protetta come uno dei mezzi più potenti di
glorificazione del signore, diede frutti magnifici: nella miniatura,
soprattutto, e nella pittura: in quegli anni giunsero a maturazione i
semi piantati negli anni di Nicolò e Leonello e sorse una scuola
pittorica locale di rilevanza europea, detta dagli studiosi moderni
"Officina Ferrarese", i cui maestri furono Cosmè Tura, ercole de'
Roberti e Francesco del Cossa. I grandi affreschi di Schifanoia furono
voluti proprio da Borso. Uno dei sogni a lungo inseguiti dall'Estense fu
quello dell'elevazione al titolo ducale, che gli avrebbe permesso di
annoverarsi fra i principi più importanti d'Europa. Nel 1452
l'imperatore Federico III glielo concesse, limitatamente ai feudi
imperiali di Modena e Reggio, mentre per Ferrara si dovette aspettare il
1471, solo pochi mesi prima della morte del principe. |