Un
pezzo di lingua in cambio della vita
Ruggiero
Castriotta a 7 anni che indica la foto di Don Filippo
Il Miracolo per la Beatificazione di Don Filippo Smaldone
Un bambino di
sette anni
riacquista la funzionalità della lingua dopo che una grave malattia alla
bocca lo aveva ridotto in fin di vita. Il miracolo è avvenuto per
intercessione di don Filippo Smaldone, fondatore delle salesiane dei sacri
cuori, apostolo dei sordomuti e precursore dei moderni metodi d’insegnamento
per portatori di handicap
(Fonte:
Saverio Gaeta in Vita Pastorale,
Periodici SP, Giugno 2004 pp. 72-74)
Agli
inizi del 1937 la
cittadina pugliese di Manfredonia (FG) venne colpita da una violenta
epidemia di tifo addominale, che a metà febbraio coinvolse anche un bambino
di sette anni,
Ruggero Castriotta. Testimoniando nell’inchiesta diocesana,
una ventina d’anni più tardi, fu lui stesso a ipotizzare una spiegazione
del contagio: «Rievocando oggi da medico la mia vicenda, penso che la causa
della malattia tifoidea sia stata l’aver bevuto acqua stagnante in una
fontana che esisteva in piazza Duomo».
La famiglia, composta da papà Lorenzo, di professione organista, da
mamma Caterina e da quattro figli, tutti alloggiati insieme in un monovàno,
non possedeva grandi disponibilità economiche, e così il piccolo venne
curato per un paio di settimane, soltanto con qualche pillola antidolorifica.
«Data l’insistenza dei suoi lamenti», ha raccontato la sorella Felicetta,
diciassettenne all’epoca dei fatti, «suggerii a mio padre di chiamare un
medico. Venne il dottor Amedeo Del Vecchio, il quale non mi sembrò prendere
tanto a cuore il caso, tanto che un giorno gli feci capire che non serviva
più».
Dopo un mese di febbre tifoide, subentrò una stomatite ulcerosa alla
lingua e alle guance. Per prima se ne accorse la madre, lavandogli la bocca:
«Aveva delle piaghe ai due lati della lingua, di colore marrone scuro». Le
sue condizioni generali si fecero impressionanti, come ha precisato il padre:
«Divenne olivastro e la sua carne era dura a palparsi. Dalla bocca emanava un
fetore orribile». La febbre era sempre molto alta e in varie occasioni
superò i 40 gradi.
Ruggero non riusciva più né a parlare, né a deglutire, per mancanza di
articolazione della lingua: «Sentivo un sapore strano in bocca, a causa del
male, per cui non mangiavo più cibi solidi e mi ero ridotto pelle e ossa».
Verso la fine di marzo, l’aggravarsi della malattia aveva cominciato a
provocare perdite di sangue dalla lingua del bambino, che di giorno in giorno
diventavano sempre più copiose.
Preso dallo sconforto — nel giorno del Venerdì santo, che in quell’anno
ricorreva il 26 marzo — il papà prese in braccio Ruggero e lo trasportò
sulla strada invocandone ad alta voce la guarigione, proprio mentre dinanzi all’abitazione
passava la processione del Cristo morto. La settimana seguente, durante la
notte fra il 2 e il 3 aprile, Lorenzo Castriotta ebbe una strana premonizione:
«Mentre recitavo cento Requiem alle
Anime del Purgatorio, mi addormentai e nel sogno mi vidi additata la via di
Bari da alcuni miei colleghi musicanti deceduti. Svegliatomi, un acerbo dolore
colpiva il mio cuore di padre: il bambino nuotava in un lago di sangue». L’arteria
linguale si era infatti lacerata e aveva causato un’imponente emorragia.
All’ospedale di Bari
A mezzanotte il papà portò Ruggero dalla dottoressa Maria Trotta, la
quale, dopo una rapida visita, suggerì di condurlo a Bari, dicendo:
«Che aspetti? Il male è irrimediabile. Povero piccolo, com’è
ridotto». Noleggiata un’automobile, partirono immediatamente e, transitando
per il paese di Margherita di Savoia, fu contattato l’ufficiale sanitario
Mario Tozzi. Prosegue il racconto di Lorenzo Castriotta: «Il suo responso fu
per me dolorosissimo perché, senza nascondermi la verità, mi dichiarò la
gravità del caso. Accompagnato dal dottore, volai a Bari, presentandomi dal
professor Antonio De Vicariis, specialista dei bambini. Mentre questi l’osservava,
scoppiò un’emorragia più forte delle precedenti, che si protrasse per
quasi due ore, gettando il piccolo infermo, già esausto, nella massima
debolezza».
La situazione appariva drammatica: «Il professore si disperava perché
la violenza dell’emorragia gli impediva di osservare la lingua. Praticò
al bambino delle iniezioni, arrestando alquanto l’emorragia, e così poté
visitarlo». Anche Ruggero ricordò in seguito quei momenti: «Per diverso
tempo fecero di tutto per riuscire a bloccare l’emorragia, senza peraltro
riuscirci. A un certo punto, non potendo più fare altro, decisero di bloccare
l’emorragia riempiendomi la bocca con cotone e garza. Oggi, da medico, mi
rendo conto che questo volle essere un espediente per tentare un’emostasi da
compressione».
De Vicariis, sentendo che il papà era intenzionato a riportarlo a casa,
sbottò: «Siete pazzo, vi muore per strada! Ricoveratelo subito all’Ospedaletto
dei bambini, reparto infettivi». Il saggio consiglio fu immediatamente
seguito e il piccolo venne portato al pronto soccorso e ricoverato con la
diagnosi di «stomatite ulcero-cancrenosa complicata da emorragia profusa per
lacerazione di un ramo dell’arteria linguale». All’arrivo in clinica,
Ruggero era completamente sfinito: «Ricordo soltanto che i medici, dai gesti
e da qualche parola che pronunciarono, davano l’impressione che non c’era
più niente da sperare».
Suor Giuseppa Pastore, infermiera professionale nella clinica
pediatrica di Bari, denominata Ospedaletto, ha testimoniato che «in bocca
presentava una lingua quasi consumata nella parte centrale con tessuti
necrotici. Sulla parte interna delle guance si presentavano delle placche
grosse dello stesso tessuto necrotico e la stessa situazione si poteva notare
sotto la lingua». Come ha sottolineato nell’inchiesta
diocesana il dottor Francesco Borrelli, medico del reparto, a quell’epoca
non erano ancora disponibili gli antibiotici specifici, per cui «queste
malattie venivano curate sintomatologicamente mediante frequenti lavaggi con
soluzioni di acqua e permanganato. Inoltre si utilizzavano vitamine, specie
del gruppo C, con, effetto incerto e quasi nullo. Per le ripetute emorragie,
venivano praticate iniezioni di sostanze coagulanti».
Novena al beato Smaldone
Fra i sanitari ci fu anche un rapido consulto per approfondire l’ipotesi
di un’amputazione della lingua, allo scopo di bloccare l’emorragia, ma le
condizioni generali in cui versava il bambino fecero rimandare la decisione. A
mezzogiorno di quel 3 aprile, terminata la visita, il dottor Borrelli si
rivolse a papà Lorenzo dicendo: «Soltanto la mano onnipotente di Dio potrà
effettuare un miracolo». Dopo questa lapidaria frase, ha rievocato Lorenzo
Castriotta, «suor Giuseppa chiedeva il permesso di apporre la sacra reliquia
del canonico Filippo Smaldone al collo dell’infermo. Il dottore acconsentì.
Con la suora recitai tre Pater, Ave e
Gloria alla Santissima Trinità e
tre Requiem all’anima del canonico
Smaldone, cominciando la novena».
La suora apparteneva infatti alle Salesiane dei Sacri cuori, inviate nell’Ospedaletto
barese da don Filippo Smaldone, il quale nel 1885 aveva fondato tale
congregazione proprio con la finalità della cura e dell’assistenza agli
audiolesi. Nato a Napoli nel 1848 e divenuto sacerdote nel 1871, don Smaldone
aveva un vivo desiderio di partire per le missioni all’estero, ma venne
convinto dal suo confessore a restare in Italia e a prestarsi al servizio dei
sordomuti, ai quali si era già dedicato durante gli anni del seminario.
Per
quasi un quarantennio, fino alla morte avvenuta a Lecce nel 1923, si prodigò
in questo apostolato, dilatandolo anche ai ciechi e all’infanzia
abbandonata. Fu precursore dei moderni metodi d’insegnamento per i portatori
di handicap, che le sue suore hanno poi concretizzato, oltre che nella dozzina
di istituti in Italia, nei centri allestiti in Africa (Rwanda) e in America
latina (Brasile e Paraguay). La beatificazione di Filippo Smaldone, essendo
già state approvate le sue virtù eroiche l’11 luglio 1995, ha avuto luogo
il 12 maggio 1996.
Don
Filippo Smaldone
Dopo
aver recitato le preghiere a don Smaldone, Lorenzo Castriotta, carico d’angoscia,
tornò a Manfredonia per prendere il vestitino che, in vista della Pasqua, era
stato confezionato per Ruggero dalla sorella Felicetta, in modo da averlo
pronto in caso di decesso. A vegliare accanto al lettino del piccolo restò
invece mamma Caterina.
Alle
13.30 del 4 aprile, la suora infermiera si trovò nuovamente a passare vicino
alla stanza del bambino, la cui porta era socchiusa. La sua testimonianza ha
sintetizzato gli straordinari sviluppi della vicenda: «Sentii una voce che
distintamente mi chiamava: “Suor Giuseppa, entra”. Meravigliata come dalla
stanza avessero potuto scorgermi, vi entrai. Al lato del letto c’era il
padre che, data la sua posizione (era di spalle alla porta), non avrebbe
certamente potuto scorgermi. Di questo ebbi conferma dal fatto che restò
indifferente quando vi entrai. Approfittando della mia visita, tentai ancora
una volta, ma senza riuscirvi, di fare il lavaggio».
La guarigione
Papà Lorenzo le chiese di rifare le preghiere della novena a don Filippo
Smaldone. Prosegue il racconto di suor Giuseppa: «In piedi, stando al lato
destro del bambino, iniziai le preghiere, accompagnata dal padre, mentre il
bambino agonizzava. All’inizio della seconda terna, ed esattamente prima
delle parole “dacci oggi il nostro pane quotidiano”, il bambino volse lo
sguardo in basso verso il comodino. Istintivamente mi piegai, presi la
bacinella e gliela accostai alla bocca. Ruggero, senza alcuno sforzo, mise
fuori, facendoli cadere nella bacinella, i vari pezzi dei tessuti necrotici
che aveva in bocca. Continuammo le preghiere, alle quali subito si aggiunse la
voce del bambino».
Ad avvalorare il completo ristabilimento, «il piccolo mi chiese subito
da mangiare, anzi aggiunse che voleva pastasciutta, carne e pane, e che voleva
alzarsi, perché precisava che era stato padre Filippo a guarirlo. Io cercai
di calmarlo e gli promisi che gli avrei portato subito due uova battute con
marsala e savoiardi: cosa che feci, e il bambino senza difficoltà poté
ingoiare tutto. Visitato dopo qualche ora dal medico di turno, lo stesso
restò meravigliato nel vederlo guarito». Ha confermato infatti il dottor
Borrelli: «In coscienza posso dire che, in una visita successiva, notai che
il piccolo, quasi repentinamente rispetto al giorno precedente, presentava un
miglioramento nelle condizioni locali della bocca, che si vedeva più nettata
e con diminuzione dei fenomeni emorragici e cancrenosi e con eliminazione più
rapida dei frustuli necrotici».
Dopo essere stato trattenuto per precauzione in ospedale ancora per
qualche altro giorno, il 10 aprile il bambino venne dimesso «in ottime
condizioni generali e con la lesione locale in via di guarigione». Nel
certificato rilasciato dalla clinica pediatrica si attesta che «con
sorprendente rapidità il fondo dell’ulcerazione ha perduto il carattere
lardaceo, purulento e il colorito grigiastro, tanto che al secondo giorno di
degenza l’infermo, che da diciotto giorni, a dire dei genitori, non poteva
parlare e ingoiare, ha cominciato a parlare e ad ingoiare regolarmente i
cibi».
A tale riguardo, il primario Vincenzo Roberto, docente universitario di
otorinolaringoiatria, ha sottolineato il proprio stupore,
«perché, delle
due l’una: o il bambino cominciò a parlare e quindi a muovere la lingua
pur essendo questa ancora sede delle grosse perdite di sostanza, o le lesioni
linguali erano scomparse nel giro di poche ore, dal pomeriggio alla notte. E
ambedue le evenienze ci lasciano perplessi».
Secondo il primario chirurgo Mario Montinari, il quale ha commentato la
fotografia scattata il 19 aprile 1990, «si può dedurre che in effetti, al
momento della febbre tifoide che colpì Ruggero Castriotta, sicuramente ci fu
una cospicua emorragia dalla lingua, e all’epoca, come si sa, non esistevano
né antibiotici né grandi possibilità assistenziali. Tale ulcera abbastanza
estesa creò nel bambino un collasso di circolo che determinò una grave forma
di adinamia (anomala debolezza muscolare, ndr)
cardiaca».
Nella sua perizia per il tribunale ecclesiastico, il professor Roberto ha
descritto le condizioni di Ruggero Castriotta dopo trent’anni dall’evento.
Le fredde parole del referto medico fanno cogliere l’essenza del prodigio:
«Sulla lingua si nota, a livello del terzo medio, sul margine destro, un
esito cicatriziale di una vasta perdita di sostanza: infatti la lingua
presenta in questo punto un grosso infossamento. Un altro esito di perdita di
sostanza — sempre di tipo cicatriziale — si riscontra sul margine
sinistro, ma di proporzioni meno estese».
La
lingua di Ruggero Castriotta nel 1990
Per sancire la completezza della guarigione, ha fornito un definitivo
apporto alla relazione del secondo perito, il primario Lorenzo D’Agostino,
docente universitario di patologia medica, con l’affermazione che «tutte le
funzioni della fonazione, deglutizione e masticazione e tutti i movimenti
relativi sono perfetti e la sensibilità tattile gustativa e termica sono
perfettamente normali». Il 1° giugno 1995 la Consulta medica della
Congregazione delle cause dei santi ha dichiarato «non spiegabile il modo
attraverso il quale la guarigione si è realizzata; in particolare la caduta
del tessuto necrotico non è stata seguita dalla ripresa dell’emorragia».
Saverio
Gaeta
Da "San Filippo Smaldone" in Wikipedia
Fu
papa Giovanni Paolo II
a volere la beatificazione di Smaldone che avvenne il 12 maggio
1996,
mentre papa Benedetto XVI, il 15 ottobre
2006
durante una cerimonia solenne in
Piazza San Pietro,
lo ha nominato santo, con
Rafael Guízar Valencia,
Rosa Venerini
e
Theodore Guérin.
Il Miracolo per la Canonizzazione di Don Filippo Smaldone
Diversi sono gli episodi che lo portano al
processo di
canonizzazione
dove decisivo fu quello ad una suora delle salesiane dei Sacri
Cuori, che sarebbe stata "miracolosamente" guarita da una
gravissima malattia toracica, che i medici avevano considerato
come inguaribile.
Le sue spoglie sono custodite presso la
cappella della Casa Madre delle suore salesiane in Lecce (Chiesa
della Madre di Dio e di San Nicolò)
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