Percorsi di Fede

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BIBBIA: LE DOMANDE SCOMODE

 

a cura di Mons. Gianfranco Ravasi

 

La smania di possesso ci rende schiavi

 

Il periodo pasquale è contrassegnato dal punto di vista del lezionario liturgico da un uso abbondante della seconda opera di Luca, gli Atti degli Apostoli. Essa, infatti, rappresenta in modo incisivo la comunità del Risorto, animata dalla Parola e dallo Spirito Santo, sostenuta da una forte comunione fraterna, ma non priva di difficoltà e persino di tensioni che riflettono il realismo dell’incarnazione anche per la stessa Chiesa. E proprio in quest’ultima linea di fatica e di lacerazione che vogliamo isolare nello scritto lucano, fitto di personaggi, due figure di impronta negativa, Anania e Saffira, la cui vicenda è narrata nel cap. 5 degli Atti. La lettura di questa pagina non può non generare una reazione di sorpresa: i due cristiani citati, infatti, cadono stecchiti dopo un fiero rimprovero dell’apostolo Pietro. Qualche studioso ha fatto notare un’incongruenza a prima vista sconcertante: come fa la “buona novella” cristiana a presentarsi alla ribalta nei suoi primi passi con un miracolo di morte, procedendo in senso contrario rispetto all’agire di Cristo che faceva risorgere i morti?

È indubbio che — almeno a livello di narrazione — Luca, autore degli Atti degli Apostoli, voglia allusivamente evocare qualche scena antico-testamentaria, ad esempio, quella della rivolta di Core, Datan e Abiram, destinata a sfociare in un esito macabro in seguito alla maledizione di Mosè: «Il suolo si sprofondò sotto i loro piedi, la terra spalancò la bocca e li inghiottì [...]; scesero vivi agli inferi essi e quanto a loro apparteneva e la terra li ricoprì» (Num 16,32-33; si legga tutto il cap. 16). Ma torniamo alla nostra coppia di giudeo-cristiani gerosolimitani, Anania — nome ebraico comune portato da almeno dieci personaggi biblici (il cui significato “Il Signore mi ha concesso la sua grazia” suona quasi ironico nel nostro racconto) — e Saffira, un nome che rimanda allo zaffiro o al lapislazzulo. Che cosa avevano fatto di tanto infame da meritare una simile fine tragica? Per capire la gravità della loro colpa, descritta nel capitolo 5 degli Atti degli Apostoli, bisogna ricostruire il fondale della vita della prima comunità cristiana di Gerusalemme. Poche righe prima, infatti, si legge che «la moltitudine di coloro che erano venuti alla fede aveva un cuore solo e un’anima sola e nessuno diceva sua proprietà quello che gli apparteneva, ma ogni cosa era fra loro comune [...]. Nessuno tra loro era bisognoso perché quanti possedevano campi o case li vendevano, portavano l’importo di ciò che era stato venduto e lo deponevano ai piedi degli apostoli; poi veniva distribuito a ciascuno secondo il bisogno» (4,32-35). Era quella che lo stesso Luca chiama in greco la koinonia, “la comunione fraterna” dei beni, la condivisione che cancella ogni proprietà privata e personale.

Ora, i nostri due sposi avevano venduto un loro podere e avevano tenuto per sé una parte del ricavato, mentre il resto era stato consegnato da Anania a Pietro per la comunità. L’apostolo s’accorge dell’inganno e reagisce con veemenza: «Anania, perché mai Satana si è così impos­sessato del tuo cuore che tu hai mentito allo Spirito Santo e ti sei trattenuto parte del prezzo del terreno?» (5,3). E a quel punto scatta la condan­na terrificante, sul modello appunto di certi giudizi divini anticotestamentari: «Anania cadde a terra e spirò» (5,5). La stessa vicenda si ripete anche per la moglie Saffira che, ignara, dell’accaduto, si presenta tre ore dopo, ribadendo la medesima versione data dal marito e ricevendo un’identica condanna da parte di Pietro che la lascia morta sul terreno (cf 5,7-10). Di per sé la scena può avere un suo nucleo di verità storica: forse Luca ha narrato, interpretandolo in senso religioso, il dramma della morte improvvisa, avvenuta a distanza ravvicinata, di due coniugi cristiani “chiacchierati” per un loro comportamento egoistico. Tuttavia, se stiamo allo stile biblico e all’uso delle particolari modalità espressive tipiche dei racconti scritturistici, dobbiamo sottolineare che Luca vuole soprattutto esaltare il significato profondo e simbolico di quella vicenda. Chi viola, per smania di possesso e per egoismo, il precetto della carità operosa nei confronti del prossimo, è uno “scomunicato”, è come se fosse morto per la comunità, si è posto fuori del cerchio vitale della comunione ecclesiale e della grazia divina. Qualcosa del genere dichiarerà anche san Paolo condannando un incestuoso della comunità di Corinto (cfr. 1Corinzi 5,1-5). E, dunque, un racconto esemplare di giudizio sul male che, però, non cancella la costante certezza della Bibbia riguardo alla conversione-rinascita e al perdono-risurrezione.

Gianfranco Ravasi, La smania di possesso ci rende schiavi, in Vita Pastorale, periodici S. Paolo n. 5 2006 p. 56.

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