L’ORIGINE DELL’UOMO

 

Evoluzione e creazione

 

DE ROSA GIUSEPPE S.J.

La Civiltà Cattolica 2005 II 3-14 – quaderno 3715 (2 aprile 2005)

vedi: www.corsodireligione.it

L’uomo è un essere «storico». Infatti la sua apparizione nella storia non è stata improvvisa e immediata, ma è avvenuta lentamente e per successive modificazioni, che hanno riguardato tanto la sua struttura biologica quanto la sua psiche. C’è stato infatti sia un processo di «ominizzazione», cioè il processo evolutivo che ha condotto l’uomo da forme pre-umane a forme umane sempre più perfette, fino a giungere all’uomo attuale; sia un processo di «umanizzazione», per cui dallo stato di natura l’uomo è passato allo stato di cultura, che ha mostrato la sua singolarità, tanto rispetto alle forme pre-umane, quanto rispetto ad altri esseri, a lui geneticarnente assai vicini, come alcuni primati, quali gli scimpanzè, i gorilla e gli orango.

 

L’evoluzione: il «fatto» e le «cause» o i «modi»

L’ominizzazione s’inserisce nel quadro assai più generale dell’evoluzione della vita sulla Terra, dopo la creazione da parte di Dio. Qui è necessario distinguere tra il «fatto» dell’evoluzione e le «cause» e i «modi» di essa. Il «fatto» dell’evoluzione della vita sul pianeta terra — cioè il passaggio per evoluzione, vale a dire per trasformazione degli organismi gli uni negli altri, nel corso dei tempi geologici — sembra scientificamente accertato, tanto che oggi non si qualifica più l’evoluzione dei viventi come una semplice «ipotesi», che dev’essere confermata e convalidata, ma si parla di «teoria dell’evoluzione biologica»: «Essa, infatti, si fonda su un insieme di fatti estremamente ampio e offre una spiegazione degli esseri viventi che rende ragione dell’insieme dei fatti biologici: spiega infatti perché i viventi sono quelli che sono nella diversità delle loro forme e nella comunanza della loro struttura. Così, allo stato attuale delle conoscenze, la teoria dell’evoluzione è la sola che possa rendere ragione della totalità dei fatti. Non può, perciò, essere ridotta allo stato precario dell’ipotesi» (1).

Se il «fatto» dell’evoluzione dell’uomo al pari dell’evoluzione di tutti gli altri esseri viventi può ritenersi avvenuto, non c’è accordo tra gli studiosi sui meccanismi dell’evoluzione: se cioè questa sia avvenuta gradualmente per piccole mutazioni genetiche trasmesse ereditariamente per selezione naturale, oppure se sia avvenuta per salti bruschi. Questa seconda teoria, detta degli «equilibri punteggiati» (la prima teoria è detta «sintetica») spiega l’evoluzione col fatto che le specie animali restano immutate per milioni di anni e poi vengono brutalmente rimpiazzate da nuove specie che presentano, rispetto alle prime, reali differenze morfologiche: in questa teoria, l’evoluzione è compresa come l’apparizione brusca di nuove specie dopo lunghissimi periodi di stasi evolutiva (2).

Questi modi differenti di spiegare il fatto dell’evoluzione non mettono in questione il principio dell’evoluzione e i suoi metodi, ma riguardano il ritmo — se lento e graduale oppure rapido e brusco — con cui l’evoluzione è avvenuta. Tuttavia incidono sul senso dell’evoluzione: nella teoria «sintetica» l’evoluzione è orientata verso la produzione di forme viventi «migliori», cioè di forme sempre più complesse in organismi sempre più sviluppati. Nella teoria degli «equilibri punteggiati» l’evoluzione è dominata dalla «contingenza»: non va verso il meglio, ma verso il disordine, poiché il mutamento brutale è dovuto a una rottura dell’equilibrio che assicurava la permanenza; rottura dovuta alla distruzione interna del genoma. Le forme aberranti o non vitali scompaiono immediatamente e il loro posto è subito preso da forme viventi geneticamente più forti.

Così alla base dell’evoluzione, nella teoria sintetica, c’è il principio che la natura non è invariata e fissista, ma è dotata di una reale iniziativa e di un potere di innovazione e di trasformazione, cioè di un dinamismo interno, in forza del quale essa è in movimento verso il meglio, cioè verso la produzione di forme di vita sempre più complesse e più perfette. Ciò significa che la Natura (ormai con la maiuscola) può, per virtù propria, passare dalla materia inerte alla materia vivente, e questa può auto-organizzarsi in forme sempre più nuove e perfette e differenziarsi in forme sempre più diverse, ma legate le une alle altre attraverso l’ereditarietà. Per tale motivo l’evoluzione designa una «storia della vita» che, procedendo per gradi di complessità sempre più elevati, conduce dai primi organismi pluricellulari all’uomo, passando per la vertebralizzazione, l’omeotermia, la protezione della discendenza mediante la gestazione e l’allattamento, la bipedia.

I tipi di cambiamenti successivi sono due: il primo va nel senso della complessità crescente, ed è quindi di natura propriamente evolutiva; il secondo va nel senso della diversificazione e della ramificazione di uno stesso livello di complessità. Ciò significa che l’evoluzione della vita non procede in maniera lineare e continua secondo un asse unico, ma è discontinua e i cambiamenti avvengono in maniera imprevedibile e aleatoria, senza però che l’aleatorietà sia assoluta: perciò nell’evoluzione è presente il caso, ma non tutto è opera del caso. Così «la storia del mondo organico non è stata né quella di un caso assoluto, cieco, né quella di uno stretto determinismo, di un regno delle leggi» (3).

 

L’apparizione dell’uomo: l’ominizzazione

«L’apparizione dell’uomo non deve essere considerata come una rottura con le leggi della natura: la teoria dell’evoluzione è competente per descrivere e spiegare come l’uomo è apparso. Per questa ragione, l’uso della nozione di «emergenza» è pertinente. Non vi si può rinunciare, anche se il termine resta legato a una filosofia materialista. Il termine di emergenza in senso stretto riconosce che l’uomo è un animale fra gli altri e che si pone alla sommità di una ramificazione di animali simili. Esso dice che l’apparizione dell’uomo è avvenuta al termine di un lungo cammino che le ricerche condotte grazie alla teoria dell’evoluzione permettono di descrivere e di spiegare in base alla paleontologia e alla genetica. Se non si può più dire, come si faceva nell’Ottocento, che l’uomo discende dalla scimmia, appare chiaramente che egli intrattiene con le scimmie una relazione (di cui la sperimentazione medica si serve largamente e fruttuosamente). La nozione di emergenza si basa sul fatto che la sola interpretazione possibile dei dati biologici e paleontologici che concernono la “famiglia” in cui l’uomo ha il suo posto, è quella di un passaggio continuo tra specie che si sono separate» (4). Perciò, non si può descrivere l’apparizione dell’uomo come una linea continua e armoniosa che andrebbe dal Proconsul all’uomo moderno (Homo sapiens sapiens). La comparsa dell’uomo sulla Terra appare molto tardiva nel corso dell’evoluzione. Circa 63 milioni di anni fa appaiono le pri­me forme di primati nell’ambito dei quali si designa, 3-4 milioni di anni fa, una linea particolare che conduce all’uomo, attraverso forme sempre più evolute, che però si sono estinte. Questa linea non è ancora ben conosciuta e nel suo percorso storico «appare piuttosto multilineare e reticolata, anche se sembra svilupparsi, specialmente dopo la comparsa della prima forma umana, su un ceppo africano (monofiletismo)» (5).

I più antichi «ominoidi» — gli australopitechi — vissero nella savana africana a est della «valle del Rift» (oggi Kenya e Ciad) circa 4-5 milioni di anni fa. Essi si erano separati dalle scimmie antropomorfe, la cui linea avrebbe condotto alle scimmie attuali, 5-7 milioni di anni fa, e forse anche assai prima. Gli australopitechi erano, sia pure imperfettamente, bipedi, e le dimensioni della loro scatola cranica non erano superiori a quelle delle attuali scimmie antropomorfe africane. Si conoscono molte forme — alcune gracili, altre robuste — di australopitechi, che formano un vero cespuglio di specie, succedutesi fino a un milione di anni fa e che poi si sono estinte. A una di queste forme di australopitechi è collegata la linea degli ominidi, che si distinguono da essi per una maggiore cerebralizzazione, per una più marcata tendenza al bipedismo e per alcune forme di abilità manuale: di qui la designazione di Homo habìlis data a questi ominidi, apparsi 2,5-2 milioni di anni fa e di cui sono stati trovati reperti nell’Africa orientale (Tanzania, Etiopia, Kenya) e nel Sud Africa.

La designazione di Homo habilis è dovuta a una maggiore capacità cranica (700 cc) e al fatto che insieme con i reperti sono stati trovati anche ciottoli scheggiati lungo il margine di una o delle due facce della pietra. Non si può dire con certezza, ma è probabile che questa lavorazione della pietra, che è la più antica che si conosca, sia intenzionale. Se così fosse, con l’Homo habilis si sarebbe raggiunto il livello umano, anche perché, insieme con la lavorazione della pietra, sarebbe attestata anche una certa organizzazione del territorio e la costruzione di capanne a scopo abitativo.

Osserva, a questo proposito, I. Tattersal: «Non c’è dubbio che con l’invenzione degli strumenti litici si sia verificato un cambiamento di grandi proporzioni nel modo di vita degli ominidi (appartenenti alla specie Homo habìlis) , oltre a innovazioni cognitive di immense conseguenze. Tuttavia sarebbe profondamente fuorviante pensare a questi costruttori di strumenti come a una semplice versione “primitiva” di noi stessi. E dubito molto che, se per un miracolo potessimo incontrarli in carne e ossa, li descriverem­mo intuitivamente come esseri funzionalmente “umani”» (6).

Tra 1,9 e 1,7 milioni di anni fa apparve una nuova specie detta Homo ergaster o Homo erectus (7), che presentava una cerebralizzazione più ampia (da 800 cc a 1.100 cc), una lavorazione simmetrica bifacciale degli strumenti litici, l’uso del fuoco, l’organizzazione dello spazio abitato sia all’aperto sia nelle grotte, un’economia fondata sulla caccia (compito dei maschi) e sulle raccolte (compito delle femmine). Questa specie dall’Africa centrale (Kenya e Tanzania) si diffuse prima nel Sud e nel Nord dell’Africa, poi in Europa e in Asia.

Il passaggio da Homo ergaster, e dal suo discendente Homo erectus, all’Homo sapiens fu graduale: esso viene collocato tra i 200.000 e i 100.000 anni fa. Le forme più antiche dell’Homo sapiens — che non sono più viventi — sono gli «uomini di Neandertal», vissuti tra 100.000 e 37.000 anni fa. Essi sono stati rimpiazzati, a partire da 33.000 anni fa, dall’Homo sapiens sapiens. Con la comparsa di questa specie, la forma umana è ben definita nelle caratteristiche che si trovano oggi nei diversi gruppi umani, cosicché si può affermare che l’evoluzione somatica si è compiuta. Ciò che caratterizza questa specie umana è il raggiungimento della «soglia» umana vera e propria. Questa è rappresentata dalla capacità di «progettazione», e quindi dall’autocoscienza, dall’autodeterminazione e dalla libertà; dalla capacità di «simbolizzazione», e quindi dalla capacità di comunicazione mediante il linguaggio; dalla capacità artistica e dal senso religioso.

In realtà ciò che distingue l’Homo sapiens sapiens dai primati più evoluti (scimpanzé, gorilla, orango) è la «cultura»: sul piano biologico, le differenze sono assai modeste; invece, sul piano cul­turale, sono massime: infatti i primati non progettano, non inno-vano, non hanno storia, non sono capaci di simbolismo, cioè di attribuire a un segno un significato che vada al di là del segno stesso e perciò non parlano, essendo il linguaggio frutto di una simbolizzazione. Inoltre non hanno capacità artistiche né sentimenti religiosi. Tutto ciò si riscontra invece nell’Homo sapiens sapiens: con lui perciò è certamente raggiunta la «soglia» umana.

Bisogna però tener presente che la «soglia» umana è superata pienamente soltanto con l’apparizione dell’Homo sapiens moderno (i Cro-Magnon), non con l’«uomo di Neandertal». Osserva I. Tattersal: «Arte, pensiero simbolico, musica, sistemi di notazione, linguaggio, senso del mistero, padronanza di materiali diversi e pura abilità: tutti questi attributi, e altri ancora, erano estranei ai Neandertaliani» (8).

 

La «creazione» dell’anima spirituale da parte di Dio

Ma che cosa comporta per l’Homo sapiens sapiens il raggiungimento della «soglia» umana? Comporta una continuità e una discontinuità. Una continuità, nel senso che l’Homo sapiens sapiens è in continuità evolutiva con le forme umane precedenti a livello somatico e culturale; una discontinuità a livello spirituale. Tale discontinuità è radicale riguardo al mondo animale e anche alle diverse specie di primati, come gli scimpanzé e gli australopitechi; è relativa rispetto alle forme umane primitive (Homo habilis, Homo ergaster-erectus, Homo sapiens), poiché, mentre nei primati e negli australopitechi non ci sono segni di cultura, nelle forme umane primitive ci sono segni di vita intelligente, come la costruzione di strumenti litici, l’«addomesticazione» del fuoco, una certa organizzazione del territorio, la sepoltura dei defunti.

Questa discontinuità a livello spirituale — che raggiunge il punto più alto nell’Homo sapiens sapiens con la sua capacità di progettazione del futuro, la sua autocoscienza, la sua capacità di simbolizzazione e quindi di parlare, di comunicare, di esprimersi con raffigurazioni pittoriche di uomini e di animali, di cui sono esempi mirabili le pitture delle grotte di Altamira (Spagna) e di Lascaux (Francia), 15-11.000 anni fa, con il senso della bellezza, con le prime, seppure incerte, espressioni di sentimento religioso —esige che nell’Horno sapiens sapiens ci sia un principio spirituale, capace di spiegare la presenza in lui di attività che trascendono l’ordine puramente materiale. Questo principio spirituale, in grado di unificare tutte le attività umane, sia fisiche e sensoriali, sia propriamente intellettuali, è l’anima spirituale.

Questo principio spirituale — che costituisce un fatto «nuovo», irriducibile ai precedenti — non è il frutto o il prodotto del processo evolutivo, che è di ordine biologico e quindi materiale. Esso emerge per evoluzione, dopo un lunghissimo e niente affatto lineare cammino evolutivo, ma non è un risultato delle forze che dirigono e determinano il processo evolutivo, tanto che è un unicum in tutta la storia dell’evoluzione, non riscontrandosi in nessun’altra delle innumerevoli forme viventi, neppure in quelle che per la struttura biologica e morfologica sono vicinissime alla forma umana, come gli scimpanzé e i babbuini. Questo significa che l’anima spirituale, come principio delle attività spirituali dell’Homo sapiens sapiens, rappresenta un «salto» ontologico, e quindi qualitativo, nel processo evolutivo che la scienza può riconoscere e constatare, ma che non può spiegare in base alle leggi che regolano l’evoluzione dei viventi.

Perciò — poiché le forze della materia non possono produrre lo spirito — l’apparizione dell’anima spirituale nel processo evolutivo può essere spiegata soltanto facendo ricorso all’intervento di un Essere spirituale che, insieme, trascenda e diriga il proces­so evolutivo: in altre parole, per un intervento creativo di Dio, in forza del quale si ha una continuità filetica e nello stesso tempo una rottura irreversibile tra l’uomo e l’animale. Così — come afferma Pio XII nell’enciclica Humani generis (12 agosto 1950) —si può ammettere che il corpo umano abbia origini «da una materia già esistente e vivente», e quindi per evoluzione; ma «la fede cattolica ci impone di pensare (nos retinere iubet) che le anime siano create immediatamente da Dio (animas a Deo immediate creari)» (Denz. -Schönm. 3896).

E’ importante però rilevare che l’affermazione della creazione immediata dell’anima umana da parte di Dio non è di ordine scientifico, ma di ordine filosofico e teologico. La scienza può soltanto rilevare che, a un certo momento della storia dell’evoluzione, appare l’uomo come essere pensante, dotato di autocoscienza, di capacità di progettazione e di simbolizzazione, di creatività e di linguaggio; ma non può affermare che l’essere pensante uomo derivi, per un caso fortuito, dall’evoluzione biologica. Se lo facesse, uscirebbe dal campo della scienza e farebbe un’affermazione filosofica di tipo riduzionistico e materialistico, ispirandosi cioè a una filosofia che riduce tutto ciò che esiste alla materia e nega per principio l’esistenza di ogni realtà spirituale trascendente la materia: facendo quindi del pensiero una produzione del cervello, una volta che questo sia giunto per evoluzione alla sua forma perfetta. In realtà l’affermazione che l’anima dell’uomo, che lo costituisce essere pensante, non è un prodotto del processo evolutivo della materia, ma è fatta in base a un ragionamento di ordine filosofico, secondo il quale se c’è un effetto di natura spirituale, cioè trascendente la materia, deve esserci una causa di natura spirituale che lo ha prodotto. Tale causa trascendente la materia non può essere che Dio Creatore mediante un atto creativo.

 

Non c’è opposizione tra evoluzione e creazione

Come dev’essere compreso tale atto creativo? Bisogna dire anzitutto che esso non può essere compreso come un atto di ordine puramente evolutivo, ma come un atto trascendente che si inserisce nel processo evolutivo, nel senso che quando questo, attraverso successive nuove e più perfette forme nella linea degli ominidi, ha raggiunto una forma umana in possesso di un grado di cerebralizzazione tale da costituire un supporto adatto al pensiero riflesso e all’autocoscienza, Dio è intervenuto dotando tale forma umana di un’anima spirituale. In tal modo, l’evoluzione ha preparato la forma umana capace di ricevere l’atto divino creatore dell’anima; ma è in forza di questo atto divino che l’uomo è «uomo».

In altre parole, nell’apparizione dell’uomo, il processo evolutivo — che si è svolto secondo le proprie leggi di continuo perfezionamento, sia pure tra insuccessi e fallimenti, come mostra la scomparsa di molte forme viventi, anche di tipo umano, come l’«uomo di Neandertal» — si è incontrato, per così dire, con l’atto divino creativo dell’anima umana. Come ciò sia avvenuto è im­possibile dire, trattandosi di un atto propriamente divino e trascendente, che va quindi al di là di quanto la scienza e la ragione possano percepire. Mostra tuttavia un fatto estremamente importante: che cioè tra evoluzione e creazione non c’è nè contrasto ne opposizione. In realtà, l’opposizione esiste tra una visione dell’evoluzione puramente materialistica — che cioè vede l’evoluzione come un processo in cui agiscono unicamente le forze cieche della materia, dotata di una capacità dinamica che le consente di passare dal meno al più per virtù intrinseca, e in cui domina incon­trastato il caso, per cui «tutto avviene per caso» — e una visione dell’evoluzione non riduttivamente materialista, ma aperta alla trascendenza. La visione dell’evoluzione che qui viene proposta, da una parte, contro il «creazionismo fissista» (9), ammette che ci sia stata un’evoluzione che ha condotto dalla materia inerte agli esseri viventi, dapprima semplicissimi e poi sempre più complessi e sempre più diversi, ma filogeneticamente uniti: questa evoluzione si è svolta secondo le leggi della materia, a noi in gran parte ancora sconosciute, e ha comportato la casualità e l’aleatorietà. Ma, dall’altra parte, ritiene che essa sia stata voluta da Dio, creatore e provvidente, e si sia svolta secondo un suo progetto: sia stata cioè finalizzata all’apparizione dell’uomo come essere pensante, che dà senso al processo evolutivo svoltosi sul nostro pianeta.

Questa finalizzazione dell’evoluzione all’uomo come essere pensante non esclude dal processo evolutivo la caoticità, la casualità e la contingenza, e quindi non obbliga a ritenere che un progetto evolutivo abbia dovuto svolgersi secondo una linea di progresso costante e lineare dai primi esseri viventi all’uomo; soprattutto non esclude l’apparizione di ominoidi e di ominidi, cioè di forme di esseri viventi non ancora pienamente «umane», quindi non dotate di autocoscienza e di linguaggio simbolico. Questo perché l’azione creativa e finalizzante di Dio è azione di Dio in quanto «Causa prima»: come tale, essa non fa numero e non interferisce con l’azione delle «cause seconde». Ciò significa che l’azione di Dio non sopprime la contingenza, il fortuito e il caso che sono propri delle cause seconde, ma nella sua provvidenza li dirige al fine dell’apparizione dell’uomo. Non bisogna infatti dimenticare che l’azione creatrice e finalizzatrice di Dio è trascendente, e non immanente alla natura, la quale è lasciata ai suoi determinismi, da un lato, e, dall’altro, alla sua casualità e alla sua contingenza.

 

La rivelazione cristiana e l’origine dell’uomo

Che cosa dice la rivelazione cristiana circa l’origine dell’uomo? Essenzialmente quattro cose. Dice anzitutto che «l’uomo è stato creato da Dio» (Gn 1,27). Questo significa che egli esiste perché Dio nella sua infinita bontà e nel suo infinito amore lo ha voluto liberamente e per amore, e nella sua libertà e provvidenza ha tutto disposto perché potesse esistere come essere intelligente e libero. E importante però notare che, dicendo che Dio ha «creato» l’uomo, non si deve intendere che Dio ha «fatto» l’uomo come un falegname «fa» un tavolo, ma nel senso che Dio «fa essere» l’uomo, fa cioè che l’uomo «sia» in quanto «dipende» da lui, dalla sua volontà d’amore. Inoltre, dicendo che Dio ha «creato» l’anima umana, s’intende dire che Dio «ha fatto essere» l’anima non da un essere o una sostanza precedente, ma «dal nulla». Questo vale non soltanto per il primo uomo, ma per tutti gli uomini, nel senso che le persone umane derivano la loro struttura biologica dai loro genitori, ma derivano il principio spirituale che «informa» la loro struttura biologica, cioè l’anima, da un intervento creatore di Dio. Così nel concepimento dell’essere umano c’è una sinergia di Dio e dei genitori, che però non si colloca sullo stesso piano, perché l’atto generativo dei genitori è immanente alla natura materiale e si svolge secondo le sue leggi, mentre l’atto creativo di Dio trascende la natura materiale.

Perciò la persona umana è l’unico essere dell’universo che porti l’impronta di Dio, in quanto Spirito. Questo vuol significare la Sacra Scrittura quando afferma che l’essere umano, unico tra tutti gli esseri viventi, è creato «a immagine» di Dio (Gn 1,26). E’ infatti l’essere creato «a immagine» di Dio che rende l’uomo una «persona», cioè un’essere pensante, intelligente e libero, capace di conoscersi ed essere autocosciente, capace di possedersi e quindi di essere libero e sui iuris, capace di entrare in comumone con gli altri attraverso il linguaggio simbolico; capace, soprattutto, di conoscere Dio e di mettersi in contatto con lui, anzi di essere chiamato da Dio, per grazia, a stringere un’alleanza con lui e a dargli una risposta di fede e di amore che nessun altro essere può dargli.

In terzo luogo, la rivelazione cristiana afferma che la persona umana è immagine di Dio non solo per la sua anima, ma anche per il suo corpo. Questo perché il corpo di una persona è un corpo «umano» in quanto è animato da un principio spirituale, l’anima, creata immediatamente da Dio. La persona umana non è cioè formata da due princìpi distinti, che sarebbero il «corpo» materiale e l’«anima» spirituale, i quali si uniscono in maniera accidentale, come pensavano i «dualisti» quali furono Platone, i neoplatonici e, più tardi, Cartesio, Malebranche e Leibniz. Al contrario, la persona umana è un essere unico, in cui l’anima è la «forma del corpo» (forma corporis) (10), cioè è il principio che organizza la materia e la fa essere un corpo «umano». Così, nella persona umana, il corpo partecipa della dignità dell’anima spirituale e pone la sua impronta su ogni attività dell’anima spirituale, per cui l’anima non può pensare se i sensi non le forniscono le immagini. Per tale motivo, tutto ciò che l’uomo compie è sempre nello stesso tempo spirituale e materiale. Di qui la dignità del corpo umano, che non può essere trattato alla stregua di un corpo animale. «Non è lecito all’uomo disprezzare la vita corporale; anzi, egli è tenuto a considerare buono e degno di onore il proprio corpo, appunto perché creato da Dio e destinato alla risurrezione nell’ultimo giorno» (11).

Infine la rivelazione cristiana afferma che Dio creò gli esseri umani come maschio e femmina: «Maschio e femmina Dio li creò» (Gn 1,27). Questo significa che l’uomo e la donna sono della stessa natura e della stessa dignità, in quanto l’uno e l’altra hanno un anima spirituale e un corpo da essa animato; ma sono diversi sotto il profilo sessuale nel loro essere rispettivamente maschio e femmina e nell’avere quindi una funzione diversa nella procreazione di altri esseri umani. Con ciò si afferma che la sessualità e il suo esercizio sono realtà volute da Dio e quindi per loro natura buone; che l’uomo e la donna sono nella stessa misura immagini di Dio, non per la loro sessualità, perché Dio non è né maschio né femmina, ma per il fatto che l’essere-uomo e l’essere-donna hanno perfezioni proprie che in diversa maniera riflettono l’infinita perfezione di Dio.

Ma la diversità tra l’uomo e la donna non deve essere vista come «opposizione», bensì come «complementarità», per cui l’uomo e la donna sono fatti l’uno per l’altra. Perciò ogni «dominio» dell’uomo sulla donna e ogni idea di «inferiorità» della donna rispetto all’uomo sono contrari alla volontà di Dio e frutto del peccato, che fin dalla sua origine ha segnato l’uomo e ha reso la storia umana così tragica e dolorosa. Ma il peccato dell’uomo non ha reso vano il disegno che Dio ha avuto creando l’essere umano: quello di predestinarlo ad essere «conforme all’immagine del Figlio suo» (Rm 8,29), e, per l’opera creatrice e redentrice di Cristo, di innalzarlo alla dignità di figlio di Dio e alla partecipazione della sua stessa natura divina.

 

NOTE

(1) M. MALDANÉ, «Evolution et création», in Revue Thomiste 96 (1996) 580. Nel suo discorso per il 600 anniversario della rifondazione della Pontificia Accademia delle Scienze (22 ottobre 1996), Giovanni Paolo Il affermò: «Tenuto conto dello stato delle ricerche scientifiche a quell’epoca e anche delle esigenze proprie della teologia, l’enciclica Humani generis considerava la dottrina dell”’evoluzionismo” un’ipotesi seria, degna di una ricerca e di una riflessione approfondita al pari dell’ipotesi opposta [...]. Oggi, circa mezzo secolo dopo la pubblicazione dell’enciclica, nuove conoscenze conducono a non considerare più la teoria dell’evoluzione una mera ipotesi. È degno di nota il fatto che questa teoria si sia progressivamente imposta all’attenzione dei ricercatori, a seguito di una serie di scoperte fatte nelle diverse discipline del sapere. La convergenza, non ricercata né provocata, dei risultati dei lavori condotti indipendentemente gli uni dagli altri, costituisce di per sé un argomento significativo a favore di questa teoria». Una critica serrata alla teoria dell’evoluzione è condotta invece da D. RAFFARD DE BRJENNE, Per finirla con l’evoluzionismo. Delucidazioni su un mito inconsistente, Roma, Il Minotauro, 2003.

(2) La teoria «sintetica» risulta dall’incontro di tre discipline: la paleontologia (G. G. Simpson), la genetica (T. Dobzhansky) e la sistematica (E. Mayr). Questo incontro av­venne a partire dal 1930; verso il 1945-50 la teoria sintetica si è imposta progressiva­mente nella comunità scientifica. La teoria degli «equilibri punteggiati» (punctuated equilibria) è proposta da N. Eldredge e da S.J. Gould in numerose opere. Cfr 5. S.J. Gould - N. ELDREDGE, «Punctuatedequilibria: the tempo e and mode of evolution re­considered», in Paleobiològy, 1977, n. 3,115-151; S.J. Gould, «L’evoluzione della vita sulla terra», in Scienze, 1994, n. 316, 65-72. Un’esposizione dell’evoluzione umana da un punto di vista della genetica molecolare si trova in A. SERRA, «Le origini biologiche dell’uomo», in Civ. Catt. 1998 iv 16-30.

(3) CH. DEVILLERS -  H. TINTANT, Questions sur la théorie de l’évolution, Paris, PUF, 1996, 92.

(4) I.-M. MALDANÉ, «L’émergence de l’homme comme événement de l’âme», in Revue Thorniste 101 (2002) 98.

(5) F. FACCHINI, «Uomo, identità biologica e culturale», in G. TANZELLA-NITTI - A. STRUMIA (edd.), Dizionario interdisciplinare di Scienza e Fede, vol. II, Città del Vaticano, Roma, Urbaniana University Press - Città Nuova, 2002, 1.464. Raccomandiamo questo Dizionario sia per il suo valore culturale e scientifico, dovuto al fatto che all’elaborazione, assai ampia, delle singole voci hanno collaborato specialisti delle singole materie, sia perché è la prima volta, a quanto ci consta, che in un Dizionario vengono affrontati i problemi sotto l’aspetto sia scientifico sia filosofico e teologico, in forma unitaria, smentendo l’idea, ancora oggi assai diffusa in certi ambienti, di una opposizione radicale tra scienza e fede. A proposito dei meccanismi dell’evoluzione, E Facchini osserva giustamente che «se l’evoluzione come evento viene suffragata da molti elementi, una spiegazione pienamente soddisfacente delle cause e dei meccanismi con cui è realizzata non è stata però ancora raggiunta. Spesso il darwinismo viene presentato come sinonimo di evoluzione o di teoria evolutiva. In realtà, il darwinismo, anche nella

sua versione (o sintesi) moderna che vede nella casualità delle mutazioni genetiche e nella selezione naturale il meccanismo di tutta l’evoluzione, rappresenta soltanto una possibile spiegazione dei momenti del processo evolutivo. Essa appare ben fondata a livello microevolutivo, ma non viene ritenuta soddisfacente per rendere ragione dell’evoluzione nel suo insieme, specialmente per le dimensioni privilegiate che in essa si individuano, per cui si vanno ricercando anche altri meccanismi» (ivi).

(6) L. TATTERSAL, Il cammino dell’uomo, Milano, Garzanti, 2004, 122.

(7) L’aggettivo erectus non significa che la stazione eretta sia stata raggiunta con questa specie, perché già l’Homo habilis aveva la stazione eretta. Il termine è un ricordo del nome dato agli antichi fossili ritrovati a Giava alla fine del secolo XIX: Pithecanthropos erectus.

(8) Ivi, 156.

(9) Il «creazionismo» è una teoria, nata in ambiente anglosassone alla fine dell’Ottocento, in opposizione all’«evoluzionismo» materialista e ateo: esso interpreta in maniera letterale i primi capitoli del libro della Genesi, che parlano della creazione del mondo in sei giorni e della formazione del primo uomo dal fango della terra. Perciò i «creazionisti» ritengono che Dio abbia creato tutte le forme viventi così come sono attualmente (fissismo), negando per conseguenza ogni evoluzione delle specie viventi. Negli ultimi decenni del secolo XX in alcuni Stati degli Stati Uniti, come il Kansas, ci sono state dispute legali fra «creazionisti» ed «evoluzionisti», per ottenere che nei programmi scolastici non si inserisse l’«evoluzionismo» come materia d’insegnamento. Si deve però notare che il termine «evoluzionismo» non indica la teoria dell’evoluzione in senso stretto, che è una teoria «scientifica», ma indica una visione filosofica che fa dell’universo un processo in continuo mutamento, senza che sia possibile riconoscere in esso né la presenza di un soggetto stabile né l’esistenza di un fine, né tanto meno l’idea di una creazione da parte di Dio, essendo l’ateismo un presupposto essenziale e irrinunciabile della filosofia evoluzionistica.

(10) La concezione dell’anima spirituale come forma corporis appartiene alla fede cristiana. Essa è stata definita dal Concilio di Vienne (Francia) il 6 maggio 1312, per cui chi asserisce che «l’anima razionale o intellettiva non sia, per se stessa ed essenzialmente, forma del corpo, si deve ritenere eretico» (DENZ.-SCHÒNM. 902).

(11) Gaudium et spes, n. 14, i.

Torna a Bibbia approfondimenti

Torna all'Archeologia biblica