Orientamenti
pastorali dell’Episcopato italiano
per il primo decennio del 2000
Capitolo I
Lo
sguardo fisso su Gesù, l’Inviato del Padre
«La
vita si è fatta visibile… la vita eterna,
che
era presso il Padre e si è resa visibile a noi» (1Gv 1,2)
10.
– La Chiesa può affrontare il compito dell’evangelizzazione solo ponendosi,
anzitutto e sempre, di fronte a Gesù
Cristo, parola di Dio fatta carne. Egli è «la grande sorpresa di Dio»[1],
colui che è all’origine della nostra fede e che nella sua vita ci ha lasciato
un esempio, affinché camminassimo sulle sue tracce (cf. 1Pt 2,21). Solo il
continuo e rinnovato ascolto del Verbo
della vita, solo la contemplazione
costante del suo volto permetteranno ancora una volta alla Chiesa di comprendere
chi è il Dio vivo e vero, ma anche chi è l’uomo. Solo seguendo
l’itinerario della missione dell’Inviato – dal seno del Padre fino alla
glorificazione alla destra di Dio, passando per l’abbassamento e
l’umiliazione del Messia –, sarà possibile per la Chiesa assumere uno stile missionario conforme a quello del Servo, di cui essa stessa è
serva. La Chiesa, come ha detto il Concilio, «mira a questo solo: a continuare,
sotto la guida dello Spirito Paraclito, l’opera stessa di Cristo, il quale è
venuto nel mondo a rendere testimonianza alla verità, a salvare e non a
condannare, a servire e non ad essere servito»[2].
Questa è la missione della Chiesa nella storia e al cuore dell’umanità.
Perciò essa medita anzitutto e sempre «sul mistero di Cristo, fondamento
assoluto di ogni nostra azione pastorale»[3].
Il
primo passo per riprendere vigore e motivazioni autentiche nel servizio che ci
è stato affidato, consisterà quindi nel rivolgerci all’itinerario del Verbo della vita, in tutta la sua interezza: egli è colui che è uscito dal Padre ed
è venuto nel mondo (cf. Gv 16,28) per rivelarci il volto del Padre e donarci lo
Spirito Santo, perché potessimo partecipare alla vita divina. Ci soffermeremo
anzitutto a guardare Gesù l’Inviato del Padre, poi Gesù in mezzo a noi,
quindi Gesù il Risorto e infine Gesù che viene
già ora e poi nella gloria, nel suo Regno eterno. Si tratta di quattro momenti di un’unica e indissociabile missione che dev’essere
contemplata quale fonte ispiratrice della nostra pastorale.
11.
– «Dio, che aveva già parlato nei tempi antichi molte volte e in diversi
modi ai padri per mezzo dei profeti, ultimamente, in questi giorni, ha parlato a
noi per mezzo del Figlio» (Eb 1,1-2). L’invio
del Figlio da parte del Padre avviene in
una storia, che ha inizio con la creazione
stessa dell’umanità. Non sorprenda se, parlando di Cristo, risaliamo fino
all’«in principio» (Gen 1,1). Lo ricorda san Paolo agli Efesini: «Dio,
Padre del Signore nostro Gesù Cristo,… in lui ci ha scelti prima della
creazione del mondo… predestinandoci a essere suoi figli adottivi» (Ef
1,3-5).
Nel
libro della Genesi ci viene rivelato che Dio crea l’uomo a sua immagine e
somiglianza (cf. Gen 1,26-27), gli affida un creato frutto della sua parola
benedicente e lo pone in un giardino, spazio di bellezza che racchiude
l’albero della vita e l’albero della conoscenza del bene e del male (cf. Gen
2,8-16). Il primo simboleggia la vocazione alla pienezza, alla comunione; il
secondo rappresenta la condizione fondamentale per godere pienamente del dono
della vita: saper discernere dietro al dono il Donatore, imparare che solo nel
riconoscimento del Creatore e di sé come creatura è possibile la comunione con
Dio, con l’altro, con la creazione. L’albero della conoscenza del bene e del
male raffigura il limite della creaturalità,
condizione indispensabile per un autentico esercizio
della libertà.
Il
cammino dell’uomo è però tragicamente messo
in crisi dal peccato (cf. Gen 3), perché – come commenta sant’Ireneo
– «l’uomo era bambino, e il suo senso del discernimento non era ancora
sviluppato. Così venne facilmente ingannato dal seduttore»[4].
È il dramma della storia, in cui la libertà ha saputo a volte declinarsi come
amore, ma spesso anche come negazione dell’altro e di Dio. E tale duplice
possibilità attraversa la vita di ciascuno di noi: nessuno è senza peccato, e
tuttavia nessuno di noi è totalmente estraneo all’esperienza del vero amore.
12.
– L’Antico Testamento narra i ripetuti tentativi di Dio per ricondurre la
creazione al fine per cui l’ha creata: essere spazio di vita e di bellezza.
Ma, per attuare questo disegno, Dio si serve sempre della libertà dell’uomo. Con ogni essere umano che viene al mondo è
immesso un potenziale di novità nella storia[5],
nel bene come nel male. L’uomo è creatura
responsabile, capace con la sua libertà di dare inizio a nuove vie,
di vita o di morte.
Così,
Dio fa un’alleanza con Noè, quindi
con Abramo, e poi ancora con Mosè. Attraverso tali proposte, Dio chiama gli
uomini a riscoprire la loro dignità di figli e la loro vocazione alla santità
mediante l’ascolto della sua parola. Alle alleanze si aggiungono le incessanti
esortazioni alla conversione che Dio
fa al suo popolo Israele per mezzo dei profeti. Così si legge, ad esempio, nel
profeta Geremia: «Io inviai a voi tutti i miei servitori, i profeti, con
premura e sempre; eppure essi non li ascoltarono e non prestarono orecchio…
Questo è il popolo che non ascolta la voce del Signore suo Dio né accetta la
correzione» (Ger 7,25.28).
I
profeti mettono in guardia anche gli uomini più «religiosi»; il rischio
maggiore è stato ed è quello di cadere nell’equivoco di compiere atti
di culto al Signore senza che sia
coinvolto il cuore, senza permettere al Signore di entrare veramente nella
nostra vita e senza compiere poi il cammino imprevedibile a cui egli chiama (cf.
Os 6,6; Am 5,21; Is 1,12-17; Ger 7,1-15). Il salmista riconosce: «Sacrificio e
offerta non gradisci, gli orecchi mi hai aperto. Non hai chiesto olocausto e
vittima per colpa. Allora ho detto: “Ecco, io vengo”. Sul rotolo del libro
di me è scritto, che io faccia il tuo volere. Mio Dio, questo io desidero, la
tua legge è nel profondo del mio cuore» (Sal 40,7-9). E la volontà del
Signore è la pace, la giustizia, il bene, è soprattutto l’amore per i più
piccoli e indifesi; la sua volontà è che gli uomini vivano una vita piena, cioè
buona, bella e beata.
Ma
è l’incarnazione del Verbo
l’evento che rende visibile, tangibile e sperimentabile, da parte degli
uomini, l’intenzione eterna di Dio. Egli non parla più attraverso
intermediari. La sua Parola si fa carne, nascendo dalla Vergine Maria, e
nell’umanità che assume diventa completamente solidale con noi. Tutta la
storia era orientata a questo evento. L’apostolo Paolo esprime costantemente
questa intenzione: il nostro riferimento a Cristo non è qualcosa di secondario,
né tanto meno di casuale. A questa relazione noi siamo preordinati da sempre:
costituisce la nostra vocazione a quella pienezza di vita che è stata pensata
da Dio per noi sin dal principio e che ci sarà data nel Regno, quando tutte le
realtà saranno ricapitolate in Cristo (cf.
Ef 1,10)[6].
13.
– La storia della salvezza non è segnata solo dalle ripetute chiamate di Dio,
ma anche dai ripetuti rifiuti da parte
dell’uomo di accogliere la via della vita. Lo stesso Verbo di Dio, ci
ricorda l’evangelista Giovanni, «venne fra la sua gente, ma i suoi non
l’hanno accolto» (Gv 1,11). Gesù, nel Vangelo di Giovanni, indica la radice
profonda del rifiuto, dell’incredulità, e lo fa servendosi di un linguaggio
duro, che richiede di essere decifrato: «Io dico quello che ho visto presso il
Padre; anche voi dunque fate quello che avete ascoltato dal padre vostro!… Chi
è da Dio ascolta le parole di Dio: per questo voi non le ascoltate, perché non
siete da Dio» (Gv 8,38.47). La radice
della fede biblica sta nell’ascolto,
attività vitale, ma anche esigente. Perché ascoltare significa lasciarsi
trasformare, a poco a poco, fino a essere condotti su strade spesso diverse da
quelle che avremmo potuto immaginare chiudendoci in noi stessi. Le vie che Gesù
indica sono segnate dalla bellezza, perché bella è la vita di comunione, bello
lo scambio dei doni e della misericordia; ma sono vie impegnative. Di qui la
tentazione di non aprirgli la porta, di lasciarlo fuori dalla nostra esistenza
reale. La storia del peccato, infatti,
è sempre radicata nella storia del non
ascolto. Anche se – va detto con forza – nessuno di noi può giudicare
l’ascolto degli altri, neppure di coloro che si dichiarano lontani dalla fede.
14.
– Colui che è stato inviato per manifestarci in pienezza l’intenzione del
Padre, nel farsi vicino a noi segue l’unica traiettoria capace di fare breccia
nella nostra sordità, di parlare realmente al nostro cuore: la via della kènosis,
dell’abbassamento, dell’umiliazione. L’umiltà
è il tratto più caratteristico dell’amore di Dio rivelato dall’Inviato del
Padre. Scrive san Tommaso, riprendendo sant’Agostino: «Una così grande umiltà
di Dio [manifestatasi nell’Incarnazione, cioè nell’invio del Figlio] è in
grado di rimproverare e di guarire la superbia dell’uomo»[7].
La
discesa, l’umiliazione del Verbo
ci è spiegata da una pagina preziosa della lettera ai Filippesi, che non a caso
la liturgia della Chiesa ripropone in occasione delle maggiori feste
cristologiche: «Abbiate in voi gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù,
il quale, pur essendo di natura divina, non considerò un tesoro geloso la sua
uguaglianza con Dio; ma spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo e
divenendo simile agli uomini; apparso in forma umana, umiliò se stesso
facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce» (Fil 2,5-8). In
Cristo, Dio si è comunicato e si comunica mediante una profonda condivisione
dell’esperienza umana. Egli non ha rifuggito l’opacità della
storia, ma l’ha assunta per redimerla. Il Verbo, condividendo la condizione
umana, l’ha illuminata rivelando le profondità di Dio. Lui che da sempre era
presso Dio, per rivelare Dio si è posto accanto all’uomo. Anzi, si può dire
di più: ha mostrato il volto di Dio attraverso il dono di sé sino alla morte,
e alla morte in croce. La croce è
diventata la suprema cattedra per la rivelazione
della sua nascosta e imprevedibile identità: il
volto dell’amore che si dona e che salva l’uomo condividendone in tutto
la condizione, «escluso il peccato» (Eb 4,15). La Chiesa non lo dovrà mai
dimenticare: sarà questa la sua strada a servizio dell’amore e della
rivelazione di Dio agli uomini.
15.
– In tal modo l’abbassamento divino, manifestato dall’Inviato del Padre,
diviene rivelazione di ciò che regge
l’universo: l’amore di Dio, un amore tale da prevedere e superare anche
l’infedeltà dell’uomo, il cattivo uso che questi avrebbe fatto del dono
della libertà; in una parola, il peccato. L’Apocalisse di Giovanni,
spingendosi fino alle profondità ultime del mistero dell’Inviato del Padre,
arriva a riconoscere in lui l’Agnello immolato «fin dalla fondazione del
mondo» (Ap 13,8), Colui dalle cui piaghe siamo stati guariti (cf. 1Pt 2,25; Is
53,5).
16.
– La missione dell’Inviato del Padre diventa
visibile e udibile soprattutto dal giorno in cui Gesù dà inizio all’annuncio
del regno di Dio e lo manifesta in mezzo a Israele. Essa trova il suo vertice
nei giorni in cui, affrontando la passione e la croce, Gesù svela pienamente il
volto del Padre con il dono totale di sé e opera la nostra redenzione.
Tuttavia, non è soltanto la vita pubblica di Gesù a esprimerne la missione, ma
è tutta la parabola della sua esistenza.
È
significativo il gesto che Giovanni Paolo II ha voluto compiere durante il
Giubileo: uno speciale pellegrinaggio lungo la storia, «sostando in alcuni dei
luoghi che sono particolarmente legati all’Incarnazione del Verbo di Dio»[8].
Così facendo, il Papa ha dato evidenza a una regola fondamentale per la Chiesa:
tornare sempre alle proprie origini, ricavare linfa dalle proprie radici, ridare
evidenza all’essenziale. Tutto ciò che Gesù ha vissuto nella sua carne è
per noi un’occasione fondamentale di insegnamento, poiché «Cristo svela
pienamente l’uomo all’uomo»[9].
17.
– Gesù ha conosciuto come ogni uomo le tappe
della crescita fisica,
psicologica, spirituale. Emblematiche, al riguardo, sono le parole
dell’evangelista Luca, che descrivono la vita di Gesù a Nazaret con i suoi genitori e la partecipazione alla vita
religiosa del suo popolo (cf. Lc 2). Ciò significa che anch’egli, come ogni
uomo, ha dovuto accettare la famiglia in cui è nato, il contesto culturale in
cui è cresciuto, nonché le potenzialità e i limiti della propria corporeità.
Sono queste le condizioni umanissime per crescere in età e sapienza. Ma, come
ogni figlio di Israele, egli ha altresì letto e ascoltato le parole del Dio dei
padri, cogliendovi la propria storia e quella del suo popolo. Lo vediamo
pertanto frequentare le sinagoghe e il tempio, per pregare e per ascoltare e
interrogare i maestri del suo tempo. Luca riassume, in forma assai breve ma
efficace: «Gesù cresceva in sapienza, età e grazia davanti a Dio e agli
uomini» (Lc 2,52).
18.
– I Vangeli narrano poi il suo battesimo
(cf. Mt 3,13-17), evento denso di significati. Recandosi dal Battista, Gesù
mostra – come farà per tutta la vita – il proprio grande amore per i peccatori, facendosi solidale con loro; ma, soprattutto,
egli riceve la testimonianza dall’alto
di essere il Figlio, l’Amato, colui nel quale il Padre ha posto ogni
compiacimento. L’esperienza del battesimo segna una svolta decisiva nella vita
di Gesù: lascia la casa e si prepara
a svolgere un ministero pubblico, ad
assumere fino in fondo la propria missione di Inviato del Padre,
predicando l’avvento del regno di Dio.
19.
– A questo punto, i Vangeli sinottici narrano di un tempo vissuto da Gesù nel
deserto, a lottare contro Satana, armato soltanto delle Scritture e della
consapevolezza di essere amato dal Padre (cf. Mt 4,1-11). Egli ripercorre l’esperienza
della tentazione, come Adamo nel
giardino dell’Eden, come Israele nel deserto e come ciascuno di noi nella vita
quotidiana, uscendone però vincitore:
è lui il nuovo Adamo, l’uomo che ha saputo crescere nella propria libertà
fino a essere capofila di una nuova umanità,
condotta, al suo seguito, dal deserto del peccato alla terra promessa del Regno.
Ascoltare la Parola di Dio e lottare contro le tentazioni, contro i «pensieri
malvagi» (Mc 7,21) che allontanano dalla via della vita: è il cammino
necessario a ogni cristiano per imparare a usare la propria libertà amando Dio
e i fratelli.
20.
– Gesù inizia ad annunciare ciò
che in lui si è compiuto: l’instaurarsi della
regalità di Dio, della sua volontà che rende pienamente uomini (cf. Mc
1,14-15). Il «Figlio dell’uomo» invita a seguire il suo cammino, che è
quello del Regno, «e ne illustra le esigenze e la potenza attraverso parole e
segni di grazia e misericordia»[10].
Dalla Galilea, in cui è cresciuto, risuona così il Vangelo, la buona notizia per i poveri, i prigionieri, gli
oppressi: Gesù proclama e inaugura l’anno di grazia del Signore (cf. Lc
4,14-21), annuncia che saranno i piccoli e gli umili a «regnare» (cf. Mt
5,3-12).
L’opera
di evangelizzazione da parte di Gesù è così riassunta nella predicazione di
Pietro: «Dio consacrò in Spirito Santo e potenza Gesù di Nazaret, il quale
passò beneficando e risanando tutti coloro che stavano sotto il potere del
diavolo, perché Dio era con lui» (At 10,38). Gesù è passato facendo il bene: ha condotto una vita buona, nel senso che ha
aiutato gli altri a far emergere il potenziale di bene e di vita che li abitava,
liberandoli dal potere del demonio e risanandoli dalle contraddizioni di cui
erano prigionieri. Egli è stato anche un ascoltatore attento del suo
tempo, capace di valorizzare tutto il bene disseminato in Israele e nella
cultura del suo popolo.
21.
– Ma in che cosa consiste la via verso
il Regno che Cristo illustra? Essa è fatta di ascolto della volontà del Padre, di pratica della misericordia
e della giustizia, di servizio umile e amoroso per i fratelli; tutto per poter giungere a
condividere con ogni essere umano il banchetto escatologico, segno di quella comunione
che è la vita stessa di Dio.
A
questa missione Gesù associa i Dodici
e li rende partecipi del suo annuncio e della sua autorità sulle forze del
male (cf. Mc 3,13-15). Egli li istruisce, li chiama a stare con lui, a imparare
dalla sua umiltà e mitezza (cf. Mt 11,29).
È
molto significativo anche il linguaggio
scelto da Gesù per fare entrare i suoi interlocutori nella comprensione del
Regno. Egli parla in parabole, ricorre
cioè all’esperienza di ogni figlio del suo popolo: nelle parabole e nelle
similitudini impiegate da Gesù troviamo allusioni alla vita di ogni giorno. In
tal modo si svela una profonda capacità di trarre lezione e consolazione da
ogni creatura e da ogni evento. Gesù sa discernere e far comprendere la
bellezza della vita attraverso i simboli che si celano dietro alle esperienze
umanissime della vita quotidiana. E fare appello all’esperienza significa
coinvolgere la libertà di colui che ascolta.
Sì,
la sua è stata una vita bella,
vissuta in pienezza: è stato un uomo sapiente, capace di vivere tutti i
registri delle relazioni umane, compreso quello dell’amicizia; le pagine evangeliche sulla «casa di Betania» sono tra
le più affascinanti di tutta la Scrittura (cf. Lc 10,38-42; Gv 11,1-44;
12,1-8). Se non comprendiamo come tutta l’esistenza di Gesù sia stata
manifestazione di una vita vissuta nell’amore di Dio e degli uomini e nella
libertà integrale, rischiamo di fraintendere anche l’esito drammatico della
sua storia.
22.
– Tutti i Vangeli concordano nel narrare una crescente tensione nei confronti di Gesù. Egli ne porta il peso
sempre più da solo, fino all’abbandono da parte di tutti (cf. Mc 14,50) di
fronte alla sua fine «ingloriosa». Sulla croce,
come un «maledetto da Dio» (cf. Gal 3,13), egli non ha più attorno a sé
alcun segno tangibile dell’amore del Padre, neppure la voce dall’alto che
aveva dato inizio alla sua missione al Giordano e che lo aveva confermato
nell’ora della Trasfigurazione (cf. Mt 3,17; 17,5). Anche quegli evangelisti
che ricordano la presenza sotto la croce di persone a lui care, ce le presentano
mute: solo Gesù parla e conforta. Egli aveva instancabilmente insegnato che la
via verso la pienezza della vita consiste nel sacrificare la propria vita
liberamente e per amore: ora,
nonostante l’estrema solitudine, rimane totalmente
fedele alla missione ricevuta, amando sino alla fine, continuando a
perdonare anche dalla croce (cf. Lc 23,34)[11].
È
importante, però, sottolineare che Gesù si mostra capace di giungere a questa
estrema libertà perché ha coltivato una vita interiore, un dialogo con il Padre. I Vangeli ci dicono come egli amasse
ritirarsi in preghiera prima di iniziare le sue giornate, soprattutto nelle ore
più decisive della sua vita: prima di iniziare il suo ministero pubblico, di
fronte alla crescente popolarità in Galilea e ancora quando ormai si profila
evidente l’ostilità che porterà al «fallimento» umano della sua missione.
Come non ricordare, poi, la preghiera al Padre nel Getsemani, prima dell’ora
decisiva della sua morte in croce? Per quanto immerso nella paura e
nell’angoscia, egli si rivolge a Dio con la tenerezza e la fiducia del Figlio
amato: «Abbà, Padre! Tutto è possibile a te, allontana da me questo calice!
Però non ciò che io voglio, ma ciò che vuoi tu» (Mc 14,36).
23.
– L’intima relazione con il Padre fa sì che Gesù sappia amare i suoi «sino alla fine»
(Gv 13,1). E non solo i suoi: tutti gli evangelisti ci raccontano i gesti di
amore, le parole che egli rivolge a tutti coloro che gli sono accanto e a tutti
coloro che incontra, fino alla morte. Alla luce dei suoi gesti e delle sue
parole, rivolti soprattutto ai peccatori che rappresentano un po’ tutta
l’umanità, è possibile leggere la croce
stessa come una parola d’amore di
Dio in Gesù, come l’estremo appello della misericordia divina affinché ci
convertiamo alla volontà del Padre.
Anche
il pensiero di Gesù, nei giorni della sua passione, rivolto al futuro
della sua comunità e del suo messaggio è il frutto dell’amore «sino
alla fine». Nel Vangelo di Giovanni, questa sollecitudine ci è narrata nelle
figure di Maria e del discepolo amato, affidati da Gesù l’uno all’altra,
affinché prosegua e si realizzi nella storia la vocazione filiale di ogni uomo
(cf. Gv 19,25-27). Ma, ancor più chiaramente, tale compito di trasmissione del
Vangelo del Regno è affidato da Gesù ai suoi discepoli nell’ultima
cena consumata con loro, quando egli consegna loro un memoriale, un racconto
e dei gesti capaci di trasmettere il senso della sua vita e della sua morte per
ogni uomo. Nell’istituzione dell’Eucaristia, egli spiega e rende presente la
Nuova Alleanza che sta per siglare con il suo sangue: non più i sacrifici di un
tempo, bensì il totale dono di sé, il totale affidamento alla volontà del
Padre, l’amore «sino alla fine», sul suo esempio. Commenterà san Paolo: il
«culto spirituale» dei cristiani consiste nell’offrire a Dio tutta la vita (cf.
Rm 12,1-3), per farne una narrazione dell’amore di Dio per gli uomini.
24.
– Se il racconto terminasse qui, non sarebbe sufficiente a suscitare e
sostenere la nostra fede. Il Messia che annunciava l’imminenza del regno di
Dio è morto come un maledetto, appeso al legno della croce. I discepoli si
smarriscono, hanno paura (cf. Gv 20,19); alcuni, come i due di Emmaus, lasciano
Gerusalemme (cf. Lc 24,13). Il pastore è stato colpito e le pecore sono
disperse. Gesù stesso l’aveva annunciato: «Voi tutti vi scandalizzerete per
causa mia in questa notte
Qui
interviene invece un’esperienza decisiva per la comprensione del significato
della morte di Gesù, per l’origine della Chiesa, per il raduno dei figli di
Dio in Cristo e per l’annuncio della parola definitiva di Dio sulla storia: la
Risurrezione. È la Risurrezione il fondamento
della nostra fede e della nostra speranza,
come ricorda l’apostolo Paolo: «Se Cristo non è risorto, è vana la vostra
fede» (1Cor 15,14). La Risurrezione è infatti la conferma
che, davanti agli uomini, Dio dà alla missione portata a compimento dal Figlio;
è l’elevazione del Messia
crocifisso a Signore del cosmo e della storia, la sua esaltazione a redentore e
giudice dell’umanità intera. Così canta l’inno della lettera ai Filippesi,
dopo aver sottolineato l’abbassamento di Cristo Gesù fino alla morte di
croce: «Per questo Dio l’ha esaltato e gli ha dato il nome che è al di sopra
di ogni altro nome; perché nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi nei
cieli, sulla terra e sotto terra, e ogni lingua proclami che Gesù Cristo è il
Signore, a gloria di Dio Padre» (Fil 2,9-11). La Chiesa, professando la
risurrezione di Gesù e la sua ascensione alla destra del Padre, riconosce che l’umanità intera è ormai con
Cristo in Dio (cf. Col 3,1-4). Infatti Dio «nella sua grande misericordia
ci ha rigenerati, mediante la risurrezione di Gesù Cristo dai morti, per una
speranza viva, per una eredità che non si corrompe, non si macchia e non
marcisce» (1Pt 1,3-4).
25.
– La Risurrezione è altresì accompagnata dall’effusione dello Spirito Santo, che rende possibile anche a noi di
seguire l’itinerario di abbassamento e di innalzamento del Figlio: è
l’evento che ci dischiude la possibilità di diventare «partecipi della
natura divina» (2 Pt 1,4), di essere figli
nel Figlio.
La
nostra speranza si fonda unicamente sul fatto che la via tracciata da Gesù
di Nazaret è quella che conduce anche noi alla vita piena ed eterna: «Dio, che
ha risuscitato il Signore, risusciterà anche noi con la sua potenza» (1Cor
6,14). Noi possiamo comprendere, di giorno in giorno, che vivendo cristianamente
si fa il bene – lo si fa emergere nella storia –, che la vita cristiana è
bella, degna di essere vissuta; possiamo anche sperimentare umanamente che vale
la pena di vivere offrendo la vita per amore. Ma, senza l’intervento divino
che risuscita il Figlio, senza l’azione potente dello Spirito, l’orizzonte
della nostra speranza si farebbe labile e nell’ora della prova e della
debolezza non potremmo far altro che venire meno. Grande «prova» della
risurrezione del Signore è proprio l’immensa schiera di uomini e donne che
hanno trovato la forza per rimanere fedeli
al Vangelo fino alla morte. Mostrando che c’è una ragione per cui vale la
pena di dare la vita – cioè l’amore di Dio e dei fratelli –, essi hanno
svelato di essere abitati da una ragione per cui valeva la pena di vivere: hanno
trovato il senso della vita, della storia, del mondo, riconoscendo, con
l’apostolo Paolo, che la potenza di Dio si manifesta nella debolezza (cf. 2Cor
12,9) e che la nostra fede non è fondata sulla sapienza umana ma sulla potenza
di Dio (cf. 1Cor 2,3-5).
Le
apparizioni del Risorto riguardarono solo la prima generazione di testimoni;
anche a noi tuttavia, come a loro, è possibile fare un’esperienza della Risurrezione, anzitutto nell’adesione alla
testimonianza apostolica e poi nel dono vicendevole dell’amore e del perdono:
è in vista di questi doni, infatti, che è stato effuso dal Risorto lo Spirito
sulla Chiesa, come testimoniano i racconti evangelici delle apparizioni (cf. Gv
20,19-23). Dono della comunione, testimonianza sino alla fine, remissione dei
peccati: sono i segni grandi della presenza dello Spirito del Risorto nella
storia.
26.
– La Risurrezione fa della storia umana lo spazio
dell’incontro possibile con la grazia di Dio, con quell’amore gratuito
che fin dall’inizio ha creato l’uomo per vivere in comunione con lui e
donargli la vita eterna. Questo è il progetto di Dio, questa la sua volontà,
per tutti! Ed è bene che torniamo a insistere, nella predicazione e in altre
forme di comunicazione, sul fondamento e sul significato di questa speranza per
la vita dei cristiani e degli uomini tutti.
Dio
ci ha fatti venire all’esistenza con la sua parola, ci ha pensati e amati da
sempre e chiama ciascuno per nome. Qui sta la ragione profonda della nostra vita
sulla terra e qui sta il fondamento della nostra speranza in una vita oltre la
morte: Dio ci ama «di amore eterno»
(Ger 31,3). Va aggiunto che la vita eterna
non scaturisce dall’esistenza isolata e autosufficiente dell’uomo, né dalla
sua propria forza, ma unicamente dalla vita di relazione con il suo Creatore: tale relazione è costitutiva
del suo essere più profondo. Dio stesso non è solitudine, ma relazione sussistente: «Dio è amore» (1Gv 4,8).
Ma relazione, amore, significano vita: Dio ha fatto esistere l’uomo per
renderlo partecipe della sua stessa vita.
27.
– Attraverso Gesù Cristo, suo inviato nel mondo, il Padre ha manifestato
definitivamente il suo desiderio di una
vita piena ed eterna per gli uomini
e ha attuato tale disegno nella storia (cf. Ef 3,11). Ancora una volta ritornano
alla mente le parole della prima lettera di Giovanni che abbiamo scelto come
icona biblica per questi nostri orientamenti: noi annunciamo il Verbo della vita
che abbiamo udito e contemplato, «poiché la vita si è fatta visibile, noi
l’abbiamo veduta e di ciò rendiamo testimonianza e vi annunziamo la vita
eterna, che era presso il Padre e che si è resa visibile a noi» (1Gv 1,2). Con
la sua vita Gesù ci ha mostrato come vivere e come morire, con la sua
risurrezione ci ha svelato qual è il cammino nel quale la parola del Padre
introduce colui che lo ascolta ed entra pienamente in relazione con lui.
Il
primo passo per aprirci al dono della
vita è aprire l’orecchio del nostro
cuore alla parola di Dio, è affidarci
ad essa, lasciando che la nostra assiduità con Gesù Cristo e con il suo
Vangelo illumini e sostenga ogni istante delle nostre esistenze. Gesù è
l’Inviato del Padre che ci chiama alla pienezza della vita: è aderendo a lui
– questo significa «credere» – che anche noi potremo partecipare
pienamente al dialogo che non ha fine tra il Figlio e il Padre, imparando a dire
in verità: «Abbà, Padre!».
28.
– Gesù ci ha insegnato a dire «Abbà», a pregare il Padre nel segreto (cf.
Mt 6,6). Ci ha consegnato anche una preghiera che noi tutti recitiamo ogni
giorno e che inizia con le parole «Padre nostro»: essere
in Cristo significa riconoscere l’unica fonte della vita, il Padre di
tutti, e significa riconoscere il
Corpo di Cristo che è la Chiesa. Non potrebbe essere altrimenti: se la vita
che Dio ci ha dato trova un senso e una pienezza nella relazione, se Gesù
Cristo l’ha manifestata agli uomini attraverso relazioni concrete d’amore
per i fratelli e le sorelle con cui è vissuto, anche noi possiamo pregustare la
vita eterna soltanto attraverso i tangibili e quotidiani rapporti di amore che
riusciamo a intessere con tutti gli altri figli dell’unico Padre. Ogni forma
di amore – il perdono, il dono di sé, la condivisione, e mille altre ancora
– è il luogo in cui trapela per ognuno di noi qualche raggio dell’eternità.
Perché la vita eterna è l’amore (cf. 1Cor 13,8; 1Gv 3,14).
Chi
è assiduo nell’ascolto del Signore e si apre all’ascolto dei fratelli,
diventerà capace a poco a poco di vincere
la paura della morte. Solo i profondi rapporti d’amore con Dio e con chi
ci è accanto, infatti, sanno indicarci con forza un «al di là», una verità
verso la quale siamo incamminati e che sta sotto il segno dell’eternità.
Allora anche il lento declino del nostro corpo potrà lasciar spazio ad altre
certezze interiori, come ricorda san Paolo: «Se anche il nostro uomo esteriore
si va disfacendo, quello interiore si rinnova di giorno in giorno» (2Cor 4,16).
Questo
è l’annuncio cristiano sulla vita
eterna: esso si fonda sulla Risurrezione di Cristo, ma già fin d’ora
ognuno di noi può intuire e pregustare la vita eterna nella Chiesa, nella communio sanctorum, così come in ogni relazione umana segretamente
trasfigurata dall’amore di Dio, in ogni esperienza di perdono accolto e
donato. Testimoniando e predicando tutto questo, noi svolgiamo il nostro
servizio alla missione di Cristo.
29. – Noi viviamo tra il giorno della risurrezione di Cristo e quello della sua venuta. Egli è colui che verrà alla fine dei tempi, per portare a compimento in tutto il creato la volontà del Padre. Per questo il cristianesimo vive nell’attesa, nella costante tensione verso il compimento; e dove tale attesa viene meno c’è da chiedersi quanto la fede sia viva, la carità possibile, la speranza fondata.
Gesù è
colui che è venuto, viene e verrà. È venuto nell’Incarnazione, verrà
nella gloria e nel frattempo non ci lascia soli: egli continua a venire a noi
nei doni del suo Spirito, nella predicazione della parola di verità, nella
liturgia e nei sacramenti, nella comunione attorno ai pastori nella Chiesa,
nell’esperienza della sua misericordia che a ciascuno è possibile fare, per
grazia, nell’intimo della coscienza. San Bernardo di Chiaravalle parla, con
termini assai indovinati, di un medius
adventus[12], di un dolce e misterioso
venire a noi già oggi del Verbo, che ci visita per confortarci e darci forza
nel cammino della vita. Così dice la liturgia: «Ora egli viene incontro a noi
in ogni uomo e in ogni tempo, perché lo accogliamo nella fede e testimoniamo
nell’amore la beata speranza del suo regno»[13].
Dire
che Gesù è colui che viene, significa rimandare soprattutto, come ricorda il
Credo, al giorno in cui egli «verrà nella
gloria a giudicare i vivi e i morti».
Dio, infatti, ha l’iniziativa: egli chiama all’esistenza, ama di amore
preveniente, elargisce con totale gratuità i suoi doni agli uomini. L’uomo,
tuttavia, resta libero di accogliere o di rifiutare il dono della figliolanza
divina in Cristo. È qui che si radica il tema del giudizio, così difficile
oggi da esprimere senza dar luogo a malintesi, eppure così urgente. Si tratta,
infatti, di una realtà presente nelle Scritture e nelle parole stesse di Gesù:
la Chiesa non può dimenticarla, né può smettere di annunciarla per
conformarsi alle attese mondane. Ma come parlare oggi del giudizio di cui Gesù
è portatore? Come proclamare oggi le verità circa la vita eterna in modo che
suscitino un profondo interesse negli uomini alla ricerca di «che cosa
sperare» e siano capaci di scuotere le coscienze e di provocare conversione?
Anzitutto,
dobbiamo osservare come la morte sia
per ciascun uomo il momento della verità,
della caduta delle maschere. Ciò che noi siamo realmente si esprime nello
spazio tra l’inizio e la fine della nostra vita terrena. In termini umani, in
questo svelamento finale, che ci rende responsabili di quanto abbiamo espresso
nell’arco dell’unica vita a noi data, consiste il giudizio per ognuno di
noi.
In
questo spazio che è l’esistenza terrena, Dio parla all’uomo, gli indica in
mille modi la via che porta alla vita. Come ricorda il Concilio: «La vocazione
ultima dell’uomo è effettivamente una sola, quella divina, perciò
dobbiamo ritenere che lo Spirito Santo dia a tutti la possibilità di venire a
contatto, nel modo che Dio conosce, con il mistero pasquale»[14].
Ma
il giudizio non è solo un fatto personale: esso è anche la risposta di Dio alle domande di giustizia degli uomini. Alla fine
dei tempi si rivelerà la giustizia e la verità del Signore e troveranno
risposta i tanti perché, le tante sofferenze patite ingiustamente dagli uomini.
Il regno di Dio è compimento della giustizia vera per tutti coloro che nel
mondo hanno subìto afflizione e hanno atteso l’epifania del Signore; è
incontro e riconciliazione tra ogni essere umano, e tra gli uomini e il Padre
che è nei cieli.
30. – Gesù ha annunciato in vari modi il giudizio e la vita eterna. Lo
ha fatto con parole di rivelazione e di esortazione, nei discorsi escatologici
dei Vangeli sinottici, e ponendo la carità come criterio del giudizio con cui,
al suo ritorno glorioso, chiederà conto a ognuno dell’uso fatto del dono
della vita (cf. Mt 25,31-46). Come ha ammonito san Giovanni della Croce, «alla
sera della vita, saremo giudicati sull’amore»[15].
Ma
proprio perché il fine ultimo delle nostre vite è l’amore e la comunione,
non possiamo, in una visione veramente conforme al Vangelo, restare indifferenti
nel vedere altri che rifiutano l’accesso al regno della vita, siano pure
nostri nemici o persecutori. Gesù non è venuto a condannare, ma a salvare: «Se
qualcuno ascolta le mie parole e non le osserva, io non lo condanno; perché non
sono venuto per condannare il mondo, ma per salvare il mondo» (Gv 12,47).
Gesù,
nella sua vita, non ha condannato nessuno, ma ha mostrato in ogni recesso della
nostra tenebra vie di luce, in ogni luogo della nostra disobbedienza la strada
dell’adesione alla volontà del Padre. Le sue ultime parole dalla croce sono
state di perdono verso i suoi persecutori. La croce stessa è stata lo svelamento di una verità che è misericordia,
che apre alla speranza invitando l’uomo fino all’ultimo istante alla
conversione. La croce è lo svelamento di un Dio che ha voluto condividere le
nostre sofferenze facendosi solidale fin dove ha potuto con noi peccatori, cioè
portando il suo amore al cuore della nostra stessa inimicizia. Dice san Paolo:
«Dio dimostra il suo amore verso di noi perché, mentre eravamo ancora
peccatori, Cristo è morto per noi» (Rm 5,8). Si ricordino le parole di un
Padre della Chiesa: «Il più grande peccato è non credere nelle energie della
Risurrezione»[16],
ovvero disperare della misericordia divina.
31.
– Contemplando le realtà ultime nelle Scritture e soprattutto nelle parole di
Gesù, la Chiesa ha sempre riconosciuto che Dio rispetta a tal punto l’uomo
da lasciarlo libero di accogliere o non accogliere la grazia. Per questo, la
Chiesa ritiene che sia possibile sottrarsi allo spazio della figliolanza divina,
operando in tal modo da se stessi un giudizio sulla propria vita.
Inoltre,
la tradizione cattolica sottolinea come lo svelamento della nostra verità alla
fine della vita comporti l’esigenza di
una purificazione per poter
accedere al banchetto del Regno, alla comunione con tutta l’umanità radunata
attorno all’Agnello. Perché solo ciò che è stato in noi sotto il segno
dell’amore non avrà mai fine, come ricorda l’apostolo Paolo, mentre ciò
che è imperfetto è destinato a scomparire (cf. 1Cor 13,8-10). Davanti a Dio
proveremo disgusto di noi stessi (cf. Ez 20,43) e il suo amore misericordioso
compirà in ciascuno di noi la necessaria purificazione affinché possiamo
entrare a far parte della Gerusalemme celeste.
Infine,
il tema del giudizio è stato assunto con profonda serietà a partire dal
pressante invito di Gesù alla vigilanza:
«Vegliate!» (Mc 13,37). Ogni uomo è chiamato a prestare attenzione in ogni
momento al rivelarsi gratuito di Dio, della sua misericordia che purifica e
risana; è chiamato a scorgere la presenza della grazia divina attraverso
persone ed eventi. Solo custodendo il timore di non riconoscere Colui che passa
tra noi e rimane con noi[17],
potremo realmente vivere una vita degna dell’eternità.
L’unico
timore che si addice a un cristiano maturo è quello di ferire l’amore con cui
Dio continuamente vuole beneficarci[18],
non il timore di un castigo. Soltanto così l’annuncio del giudizio può
essere «Vangelo», buona notizia, appello alla conversione, parola che
dischiude un orizzonte di vita e di speranza, che non chiude le porte, ma le
apre. La Chiesa non deve mai dimenticare di essere chiamata a un ministero di misericordia. A ciascuno di noi spetta, poi, la scelta
di entrare o di rimanere fuori, usufruendo di quella libertà che Dio ha dato
all’uomo e che Cristo non ha mai contraddetto, preferendo piuttosto la via
della croce. È la sua grande debolezza, ma anche la sua più grande forza: «Quando
sarò elevato da terra, attirerò tutti a me» (Gv 12,32). L’uomo ha la
possibilità di rifiutare Dio e il suo amore, ma le braccia di Gesù restano sempre
spalancate, pronte ad accogliere chi si lascia attrarre da lui.
[1] Cf. Ibidem, 4: OR, 8-9 gennaio 2001, 2.
[2] Concilio Ecumenico Vaticano II, Cost. past. Gaudium et spes, 3: AAS 58 (1966) 1027; cf. Giovanni Paolo II, Lett. ap. Tertio millennio adveniente, 56: AAS 87 (1995) 39.
[3] Giovanni Paolo II, Lett. ap. Novo millennio ineunte, 15: OR, 8-9 gennaio 2001, 3.
[4]
Sant’Ireneo
di Lione, Demonstratio
praedicationis apostolicae, Prol., 12.
[5] Cf. Sant’Agostino, De civitate Dei, 12, 20, 4.
[6] Cf. Sant’Ireneo di Lione, Adversus haereses, 3, 16, 6.
[7]
San
Tommaso d’Aquino, Summa
theologiae, III, q. 1, a. 2; cf. Sant’Agostino,
De Trinitate, 13, 17, 22.
[8]
Giovanni
Paolo II, Lettera sul
pellegrinaggio ai luoghi legati alla storia della salvezza, 1: OR,
30 giugno-1 luglio 1999, 8.
[9] Concilio Ecumenico Vaticano II, Cost. past. Gaudium et spes, 22: AAS 58 (1966) 1042.
[10] Giovanni Paolo II, Lett. ap. Novo millennio ineunte, 18: OR, 8-9 gennaio 2001, 3.
[11] Cf. Ibidem, 27: OR, 8-9 gennaio 2001, 4.
[12]
San
Bernardo di Chiaravalle, Sermo
V in Adventu Domini, 1.
[13] Messale Romano, Prefazio dell’Avvento I/A.
[14]
Concilio
Ecumenico Vaticano II, Cost. past. Gaudium
et spes, 22: AAS 58 (1966) 1043.
[15] San Giovanni della Croce, Avisos y sentencias, 57.
[16]
Sant’Isacco
di Ninive, Sermones ascetici,
Collatio prima, 5.
[17] Cf. Sant’Agostino, Sermo 88, 14, 13.
[18] Cf. San Giovanni Cassiano, Conlatio 11, 13.