Storie e leggende chassidiche - Martin Buber

a cura e con un saggio introduttivo di Andreina Lavagetto
cronologia a cura di Massimiliano De Villa
Mondadori - Euro 55

Era diventato sempre più simile a uno gnometto benefico, capitato come per caso tra abbronzati studenti israeliani. Nelle fotografie degli anni d’insegnamento a Gerusalemme, Martin Buber appare come un maestro fuori dal tempo, uno degli ultimi rappresentanti di antiche dinastie di intellettuali mitteleuropei. In effetti, discendeva da un’illustre famiglia di ebrei galiziani, e Salomon Buber, suo nonno, era stato uno dei protagonisti della “Wissenschaft des Judentums”. Una tradizione tanto forte e venerabile da non poterne più.

Forse proprio per questo, Buber fece dell’insofferenza la propria bandiera, e finì nelle braccia del dissacratore per eccellenza: Friedrich Nietzsche. A soli diciassette anni, mentre frequentava la scuola di Leopoli, cominciò a tradurre “Così parlò Zarathustra” in polacco, tutto preso dal sogno di rinnovare il giudaismo secondo i principi del vitalismo nietzscheano.

Anche dopo essersi trasferito a Vienna, nel 1896-97, alle prese con le contraddizioni della metropoli, Martin proseguì, e anzi intensificò, la propria ricerca di un altro giudaismo, di cuore e non di testa. Tra le tentazioni dell’assimilazione e le strettoie della vecchia ortodossia, si costruì un ebraismo per metà vero e per metà immaginato, impersonato da taumaturghi intrattabili e da ingenui popolani. Per certi versi, a Buber si deve l’invenzione del chasidismo polacco, nel senso che fu lui a portare nella letteratura tedesca, e più in generale nell’Europa del Novecento, il mito di una cultura chasidica disarmonica certo, ma proprio per questo sorprendentemente ricca di energie.

Dell’avventura di Buber dà ora conto in italiano un ponderoso volume dei Meridiani, curato egregiamente da Andreina Lavagetto, e arricchito da una meticolosa cronologia di Massimiliano De Villa. Fine stilista in lingua tedesca, e con un talento naturale di cantastorie, Buber veste, in questo libro, i panni di aedo neoromantico. E’ lui l’ultimo dei chasidim, orgoglioso di appartenere “alla catena del racconto, per sangue e per spirito”. La sua intuizione geniale sta tutta qui, nell’inventarsi un giudaismo narrato, che dice se stesso, e anzi crea, attraverso parabole e apologhi, l’illusione di essere reale.

A partire dagli inizi del Novecento, Buber ammassò vecchi libri chasidici nella sua bottega di scrittore. I ferri del mestiere, però, non furono mai per lui quelli dello storico e del filologo; piuttosto, tagliò e ricucì i materiali originali, traspose le frasi goffe e sgrammaticate degli agiografi del chasidismo in un periodare nervoso, a volte quasi oracolare, pervaso da un estetismo di scuola tutta Jugendstil.

Se fosse stato un traduttore, lo si sarebbe potuto accusare d’infedeltà, ma la sua via fu più audace, e scelse ostentatamente la riscrittura. E’ naturale che i filologi, primo fra tutti Gershom Scholem, avessero molto da ridire, eppure la popolarità grandissima del chasidismo buberiano vive serenamente del proprio anti-filologismo. Del resto, come non lasciarsi irretire da questi rabbi che, a tratti, parlano come Zarathustra, o si atteggiano quasi a maestri zen, oppure cadono in estasi, con un trasporto degno degli eroi del romanticismo tedesco?

E’ facile sorridere oggi, a un secolo di distanza, delle illusioni d’allora, e accorgersi come questa riscoperta del giudaismo chasidico tradisse una civetteria da dandy di buona famiglia. Proprio il colto e benestante Buber, e i suoi amici della borghesia ebraica, vollero trasformare in eroi gli umili maestri delle campagne polacche. Ma bisogna ricordare che Buber fu uno dei protagonisti della Judische Renaissance, e che il suo fu un progetto di reinvenzione del passato: il nuovo umanesimo ebraico tedesco decise di riportare in vita, anziché l’antichità classica, questi mistici dimenticati, e li vide come padri fondatori di un’epopea nazionale e popolare.

La riscrittura buberiana rimane una vetta della prosa ebraico-tedesca del Novecento, monumento di un mondo che si sarebbe inabissato di lì a poco. Durante la Prima guerra mondiale, mentre studiava e narrava le gesta dei suoi chasidim, Buber fu un acceso interventista, e convinto sostenitore della missione universale della Germania.

Ma erano solo illusioni, e di un genere pericoloso. Anch’egli, nel 1938, fu costretto a fuggire dal Paese in cui aveva tanto creduto, e a portarsi in Israele la sua galleria di santi paradossali e trasgressivi.

Buber amava ripetere che “il chasidismo è qabbalah divenuta azione”, come per dire che il pathos dei suoi eroi era l’antidoto migliore all’anemia che minacciava l’ebreo assimilato. Irrazionali e incolti quanto si vuole, i maestri chasidici avevano almeno il pregio di gettarsi a capofitto nella mischia del mondo e di non arretrare nemmeno davanti alla lotta col divino. Del resto, l’impazienza di Buber non cercava l’annullamento nel mistero del trascendente, ma aspirava piuttosto un dialogo col sovrumano, che assumeva spesso i toni di una polemica. La ricompensa assomigliava alla tappa finale di un viaggio pieno di pericoli: “L’estasi – scriveva – è solo un mezzo per liberare le anime erranti”.

Giulio Busi

Il Sole 24ORE -13/10/2008


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