Il racconto sotto riportato si è classificato al primo posto
nel concorso
indetto dall'Azienda Soggiorno e Turismo "Comelico",
nell'ambito delle manifestazioni
per l'VIII Festival Nazionale del Fiore di Montagna
- S. Stefano di Cadore (BL) - Estate 1983 -

IL "CADON" DI DVANE

Nevicò oltremodo quell'inverno a Vissada.
I "cadógn", le caratteristiche baite che decoravano in estate la verde valle, scomparvero.
"Sette metri di neve a Vissada! -commentava stupita la gente di Costalta sulle informazioni dei bracconieri che si avventuravano sulla salita di Pisandui alla ricerca di camosci- La prossima stagione sarà in ritardo!".
E quella "möda" (1) sopra le rocce, quella "meda" che in agosto tutti guardavano ammirati per la sua altezza, per la sua perfetta regolarità, quella "möda" che ora sembra una collinetta nel degrado del pendio bianco? Quando a dicembre le "liode"(2) si inerpicarono come una processione per il recupero del fieno di monte, dopo la prima nevicata, era rimasta solo quella "meda" lassù sopra le rocce, la più bella, la più regolare.
Dvane aveva falciato il suo "colnél" (3) e si era arrampicato anche sulle cengie dello Schiaron, sulle "pale" (4) del Sandaniele: la sua "möda" era ammirata e invidiata.
Dvane, il più strano montanaro di Costalta; quello che viveva ai margini del paese, che non andava a messa neppure alla sagra di Sant'Anna, non frequentava i balli di carnevale nelle "stue" (5), raramente rispondeva al buongiorno. Dvane che conosceva meglio i sentieri dei boschi che le scorciatoie del paese. Dvane che era innamorato di Gigia, la moglie di Marco, quello dei trenta fienili, dei grandi campi di orzo, di segala e patate. Marco della casa di pietra, della stalla piena, dei tre pasti al giorno.
Gigia aveva trascorso una povera infanzia in una casa di legno sovraffollata, accanto a quella di Dvane. Con le adolescenti coetanee era un gioco ricorrente passare vicino alla casa di pietra e sognare di entrarvi come sposa di Marco, I'unico figlio dei "Marches", la famiglia più benestante del paese. Come ricorrenti erano i giochi nella annerita soffitta di Dvane, l'amico disponibile e buono: dividersi un pezzo di pane, rubare di nascosto rape e fave negli orti, ridere a crepapelle al passaggio di Tone con le "tarale" (6) ai piedi sempre sporche di "borba" (7).
Quando Marco pose gli occhi su Gigia, ci fu sorpresa ed irritazione in paese, soprattutto tra le comari che avevano previsto altra donna di altra famiglia, per il "bacan" (8) Marco. Fu sorpresa anche per Gigia, che pure aveva sognato l'ingresso nella casa dalle innumerevoli stanze. Sorpresa e paura di un passo che la toglieva all'adolescenza, ai sogni ed ai giochi. Era bella e formosa a diciott'anni, Gigia, degna sposa di Marco dei "Marches".
I giochi di bambini, le promesse d'amore, l'intimità consueta della annerita soffitta, non aveva dimenticato, Dvane, nemmeno l'ultima volta che scese in piazza, davanti alla chiesa, per ammirare la fresca bellezza della sposa di Marco, un sabato di febbraio. Grande festa quella sera nella "stua" della casa di pietra. Tutti i paesani erano invitati a brindare alla salute di Marco e di Gigia al loro avvenire alla ricca progenie. Venne anche Dvane ad assopire nel vino speranze deluse, la profonda e bruciante ferita del cuore. "Ma tu da lui non avrai figli" osò vaticinare, improvvisatosi stregone, sotto l'effetto del vino. Venne cacciato a spintoni ed a calci da paesani forzuti, tra i commenti esterefatti dei parenti e degli amici degli sposi.
Da quella sera il paese divenne estraneo a Dvane. Chiuse con una fitta staccionata l'orto ed il sentiero che portava alla sua casa, sbarrò la porta d'ingresso e ne aprì una verso i prati del nord, verso i boschi che divennero la sua dimora abituale. Anche in invemo con le "ciaspe" (9) ai piedi, sulle tracce di lepri, a scovarne le tane.
Chissà se tornava la notte a dormire nella casa ai margini del paese? La gente non vedeva mai il fumo salire dal camino, nè il chiarore del fuoco illuminare le finestre alla sera ma più di tanto il fatto non la preoccupava. Dopo i primi tempi di stupita meraviglia per la vita randagia e romita di quel paesano altezzoso, Dvane passò agli archivi della pubblica fama come matto ed i suoi gesti e le sue stranezze vennero considerate coerenti con il personaggio.
Nessuno sapeva che ogni notte Dvane passava sotto le finestre di Marco e di Gigia, lanciandovi sguardi più col cuore che con gli occhi, prima di raggiungere la sua casa ormai spenta al calore di ogni incontro.
In estate, quando fervevano il lavoro dei campi ed il taglio dell'erba, Dvane attendeva la fine di luglio per falciare il suo unico prato: quando Gigia guidava lo stuolo di donne al seguito dei segantini assoldati da Marco. Per Gigia era l'ultimo fienile da riempire; per Dvane i giorni più intensi di sguardi rubati a fatica, ma senza rimorsi. Ogni anno più bella, rifioriva col profumo del fieno.
Dvane raccontava il suo dramma agli abeti ed ai larici che conosceva a memoria, ai cespugli di "giadne" (10) di cui si cibava in estate, e più in alto ai rododendri, alle genziane, ai mughetti, all'arnica mite. Osservava dall'alto di "Paze" alla sera il paese abbracciarsi con la notte e sognava anche lui caldi abbracci e tenere carezze. I boschi dei Giavi risuonano ancora di echi dei silenzi d'amore urlati con gli occhi da Dvane il matto, Dvane l'eremita, Dvane innamorato di Gigia.
I primi anni passati nella casa dei "Marches" furono una continua novità per Gigia: tre pasti al giorno, la carne di maiale e di gallina, le lenzuola felpate in invemo, le fatiche divise con i numerosi "fameis" (11), la cura con cui anche i suoceri seguivano ogni mese l'evolversi della sua fecondità.
Ma passati cinque anni dalle nozze, ormai tutti sapevano che Gigia era sterile. Essa portava questa maledizione, che avverava il vaticinio di Dvane, con la sofferenza della donna chiamata a consolidare la stirpe di Marco ed incapace ad assolvere il compito: un corpo fiorente ma non fruttificante. Nemmeno i consulti delle esperte anziane di Costalta, accorse disponibili e prodighe di consigli, di ricette e di intrugli, ottennero risultati. Gigia la sterile veniva compianta, spesso evitata, a volte derisa. Come quel giorno di luglio, che sul prato una giovane donna osò confrontare la sua repentina fecondità con la sterilità di Gigia, ridendo divertita. L'udì Dvane nel prato vicino. Abbandonò la falce, corse verso la giovane e la schiaffeggiò ripetutamente. Poi si avvicinò a Gigia e le sussurrò: "Vieni con me a Vissada in agosto: nel mio "cadón" troverai la fertilità". E se ne andò verso il bosco, lasciando nei paesani il ricordo dell'ennesima mattana.
Dvane attese Gigia quell'agosto a Vissada, scrutando ogni sera la salita di Pisandui, sperando di intravedere una sagoma, quella figura salire il sentiero. Aveva preparato la "meda" più bella, più alta, più regolare, da cui togliere il fieno per rendere accogliente il giaciglio del "cadón" per Gigia. Ma lei non venne. E nemmeno gli agosti successivi, anche se Dvane si appostava cocciuto ogni sera a scrutare il sentiero; e ogni anno preparava la "meda" più bella. Nessuno era in grado di gareggiare con Dvane nell'inerpicarsi sui prati più impervi, per falciare l'erba tenera di altura. Per questo la "möda" di Dvane era ammirata ed invidiata. Anzichè otto "liode", a dicembre, Dvane ne portava dieci al fienile: il fieno di monte, il più buono, il più morbido, che procurava il latte più ricco.
Gigia intristiva nella casa di pietra. Le vuote stanze echeggiavano spesso delle urla di Marco, che non mancava occasione per rinfacciarle quella che tutti ritenevano una colpa: la sterilità. "Un giorno me ne andrò" pianse Gigia una notte, quando Marco uscì per un'avventura d'amore. "Vattene ora, per non aspettare domani" rispose gelido Marco, sbattendo la porta. A Gigia risuonarono dolci le parole di Dvane: "Vieni con me a Vissada in agosto: nel mio "cadón" troverai la fertilità".
Fu una notte di dicembre, quando gli uomini preparavano le "liode" per partire al mattino presto verso Vissada per recuperare il fieno di monte. La luna rischiarava il paese riflettendosi sulla bianca distesa nevosa. L'immacolato silenzio delle notti d'inverno sovrastava Costalta assopita. Le "liode" appoggiate alle pareti di legno attendevano l'alba. Anche la fontana di Villa aveva racchiuso nel ghiaccio il suo canto. Gigia lasciava le orme sul sentiero ancora intoccato: quasi un segnale per chi aveva imparato a conoscere ogni traccia lasciata sulla neve. Arrivò a Vissada quando albeggiava e le sembrò che sorridessero di gioia le crode del Longerin, mentre il Sandaniele e lo Schiaron la accoglievano in un abbraccio protettivo.
Vide subito la "meda" di Dvane ed accanto il "cadón". Quando Dvane, percorrendo per primo il sentiero e ricalcando ogni orma, aprì la porta del "cadón", nessuna parola ruppe l'incantato silenzio di Vissada: un sorriso, un abbraccio, l'amore.
Nevicò oltremodo quell'inverno a Vissada.
Qualche paesano commentò la stranezza di Dvane che, dopo aver fatto la "möda" più grande, quell'anno s'era preso in ritardo, e a causa della grande nevicata, non aveva potuto recuperare il fieno di monte. Marco non pianse la fuga di Gigia né i paesani si preoccuparono dove ricercarla.
Nessuno seppe mai che quell'inverno a Vissada, dove il vento e le nubi si danno appuntamenti d'amore, Dvane e Gigia trovarono la pace. Sulle travi annerite del "cadón" furono scritte pagine di sogni. Il vento e le nubi li protessero facendo nevicare sette metri quell'inverno lassù nella valle.
Quando la successiva primavera i contadini di Costalta salirono, come ogni anno, per rinsaldare i "cadógn" e prepararli efficienti per il taglio di agosto, li trovarono tutti schiacciati sotto l'enorme massa di neve. Nessuno più ricostruì il "cadón" di Dvane e la sua "möda" venne spartita.
Ma la prima notte di agosto ogni anno una voce intona sul costone di Vissada un canto melodioso, che ormai tutti i contadini di Costalta conoscono. Lo chiamano "Il canto del pastore di Vissada" né si curano di sapere di chi è quella voce che intona la prima notte d'agosto quel canto che echeggia da conca a conca, da un ghiaione all'altro, fino a sfumare nelle chiare acque del torrente Pisandui.
Solo per i mistici dell'amore e per quelli che sperano contro ogni speranza, il Sandaniele e lo Schiaron raccontano la storia di Dvane e di Gigia nei limpidi autunni a Vissada; e nelle travi del "cadón", per i cercatori di tesori, sedimentano scoperte sublimi.

Lucio Eicher Clere
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1. Grosso covone di fieno lasciato in agosto in montagna
2. Slitta per trasporto di fieno e legna
3. Quota di prato assegnata in sorte ai contadini della Regola
4. Pendio molto ripido
5. Sala di soggiorno rivestita in legno
6. Calzature di legno
7. Sterco delle mucche
8. Contadino con grosse proprietà
9. Racchette da applicare agli scarponi per camminare sulla neve
10. Mirtilli neri
11. Servitori



La Val Vissada oggi (vista dai Piani di Vissada)

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"D'estate, mezzo secolo fa,
Vissada era New York!"

(rievocazione di Maria Stella Casanova Fuga)

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