IL "CADON"
DI DVANE
Nevicò oltremodo quell'inverno a Vissada.
I "cadógn", le caratteristiche baite che decoravano
in estate la verde valle, scomparvero.
"Sette metri di neve a Vissada! -commentava stupita la gente
di Costalta sulle informazioni dei bracconieri che si avventuravano
sulla salita di Pisandui alla ricerca di camosci- La prossima
stagione sarà in ritardo!".
E quella "möda" (1) sopra le rocce, quella "meda"
che in agosto tutti guardavano ammirati per la sua altezza, per
la sua perfetta regolarità, quella "möda"
che ora sembra una collinetta nel degrado del pendio bianco?
Quando a dicembre le "liode"(2) si inerpicarono come
una processione per il recupero del fieno di monte, dopo la prima
nevicata, era rimasta solo quella "meda" lassù
sopra le rocce, la più bella, la più regolare.
Dvane aveva falciato il suo "colnél" (3) e si
era arrampicato anche sulle cengie dello Schiaron, sulle "pale"
(4) del Sandaniele: la sua "möda" era ammirata
e invidiata.
Dvane, il più strano montanaro di Costalta; quello che
viveva ai margini del paese, che non andava a messa neppure alla
sagra di Sant'Anna, non frequentava i balli di carnevale nelle
"stue" (5), raramente rispondeva al buongiorno. Dvane
che conosceva meglio i sentieri dei boschi che le scorciatoie
del paese. Dvane che era innamorato di Gigia, la moglie di Marco,
quello dei trenta fienili, dei grandi campi di orzo, di segala
e patate. Marco della casa di pietra, della stalla piena, dei
tre pasti al giorno.
Gigia aveva trascorso una povera infanzia in una casa di legno
sovraffollata, accanto a quella di Dvane. Con le adolescenti
coetanee era un gioco ricorrente passare vicino alla casa di
pietra e sognare di entrarvi come sposa di Marco, I'unico figlio
dei "Marches", la famiglia più benestante del
paese. Come ricorrenti erano i giochi nella annerita soffitta
di Dvane, l'amico disponibile e buono: dividersi un pezzo di
pane, rubare di nascosto rape e fave negli orti, ridere a crepapelle
al passaggio di Tone con le "tarale" (6) ai piedi sempre
sporche di "borba" (7).
Quando Marco pose gli occhi su Gigia, ci fu sorpresa ed irritazione
in paese, soprattutto tra le comari che avevano previsto altra
donna di altra famiglia, per il "bacan" (8) Marco.
Fu sorpresa anche per Gigia, che pure aveva sognato l'ingresso
nella casa dalle innumerevoli stanze. Sorpresa e paura di un
passo che la toglieva all'adolescenza, ai sogni ed ai giochi.
Era bella e formosa a diciott'anni, Gigia, degna sposa di Marco
dei "Marches".
I giochi di bambini, le promesse d'amore, l'intimità consueta
della annerita soffitta, non aveva dimenticato, Dvane, nemmeno
l'ultima volta che scese in piazza, davanti alla chiesa, per
ammirare la fresca bellezza della sposa di Marco, un sabato di
febbraio. Grande festa quella sera nella "stua" della
casa di pietra. Tutti i paesani erano invitati a brindare alla
salute di Marco e di Gigia al loro avvenire alla ricca progenie.
Venne anche Dvane ad assopire nel vino speranze deluse, la profonda
e bruciante ferita del cuore. "Ma tu da lui non avrai figli"
osò vaticinare, improvvisatosi stregone, sotto l'effetto
del vino. Venne cacciato a spintoni ed a calci da paesani forzuti,
tra i commenti esterefatti dei parenti e degli amici degli sposi.
Da quella sera il paese divenne estraneo a Dvane. Chiuse con
una fitta staccionata l'orto ed il sentiero che portava alla
sua casa, sbarrò la porta d'ingresso e ne aprì
una verso i prati del nord, verso i boschi che divennero la sua
dimora abituale. Anche in invemo con le "ciaspe" (9)
ai piedi, sulle tracce di lepri, a scovarne le tane.
Chissà se tornava la notte a dormire nella casa ai margini
del paese? La gente non vedeva mai il fumo salire dal camino,
nè il chiarore del fuoco illuminare le finestre alla sera
ma più di tanto il fatto non la preoccupava. Dopo i primi
tempi di stupita meraviglia per la vita randagia e romita di
quel paesano altezzoso, Dvane passò agli archivi della
pubblica fama come matto ed i suoi gesti e le sue stranezze vennero
considerate coerenti con il personaggio.
Nessuno sapeva che ogni notte Dvane passava sotto le finestre
di Marco e di Gigia, lanciandovi sguardi più col cuore
che con gli occhi, prima di raggiungere la sua casa ormai spenta
al calore di ogni incontro.
In estate, quando fervevano il lavoro dei campi ed il taglio
dell'erba, Dvane attendeva la fine di luglio per falciare il
suo unico prato: quando Gigia guidava lo stuolo di donne al seguito
dei segantini assoldati da Marco. Per Gigia era l'ultimo fienile
da riempire; per Dvane i giorni più intensi di sguardi
rubati a fatica, ma senza rimorsi. Ogni anno più bella,
rifioriva col profumo del fieno.
Dvane raccontava il suo dramma agli abeti ed ai larici che conosceva
a memoria, ai cespugli di "giadne" (10) di cui si cibava
in estate, e più in alto ai rododendri, alle genziane,
ai mughetti, all'arnica mite. Osservava dall'alto di "Paze"
alla sera il paese abbracciarsi con la notte e sognava anche
lui caldi abbracci e tenere carezze. I boschi dei Giavi risuonano
ancora di echi dei silenzi d'amore urlati con gli occhi da Dvane
il matto, Dvane l'eremita, Dvane innamorato di Gigia.
I primi anni passati nella casa dei "Marches" furono
una continua novità per Gigia: tre pasti al giorno, la
carne di maiale e di gallina, le lenzuola felpate in invemo,
le fatiche divise con i numerosi "fameis" (11), la
cura con cui anche i suoceri seguivano ogni mese l'evolversi
della sua fecondità.
Ma passati cinque anni dalle nozze, ormai tutti sapevano che
Gigia era sterile. Essa portava questa maledizione, che avverava
il vaticinio di Dvane, con la sofferenza della donna chiamata
a consolidare la stirpe di Marco ed incapace ad assolvere il
compito: un corpo fiorente ma non fruttificante. Nemmeno i consulti
delle esperte anziane di Costalta, accorse disponibili e prodighe
di consigli, di ricette e di intrugli, ottennero risultati. Gigia
la sterile veniva compianta, spesso evitata, a volte derisa.
Come quel giorno di luglio, che sul prato una giovane donna osò
confrontare la sua repentina fecondità con la sterilità
di Gigia, ridendo divertita. L'udì Dvane nel prato vicino.
Abbandonò la falce, corse verso la giovane e la schiaffeggiò
ripetutamente. Poi si avvicinò a Gigia e le sussurrò:
"Vieni con me a Vissada in agosto: nel mio "cadón"
troverai la fertilità". E se ne andò verso
il bosco, lasciando nei paesani il ricordo dell'ennesima mattana.
Dvane attese Gigia quell'agosto a Vissada, scrutando ogni sera
la salita di Pisandui, sperando di intravedere una sagoma, quella
figura salire il sentiero. Aveva preparato la "meda"
più bella, più alta, più regolare, da cui
togliere il fieno per rendere accogliente il giaciglio del "cadón"
per Gigia. Ma lei non venne. E nemmeno gli agosti successivi,
anche se Dvane si appostava cocciuto ogni sera a scrutare il
sentiero; e ogni anno preparava la "meda" più
bella. Nessuno era in grado di gareggiare con Dvane nell'inerpicarsi
sui prati più impervi, per falciare l'erba tenera di altura.
Per questo la "möda" di Dvane era ammirata ed
invidiata. Anzichè otto "liode", a dicembre,
Dvane ne portava dieci al fienile: il fieno di monte, il più
buono, il più morbido, che procurava il latte più
ricco.
Gigia intristiva nella casa di pietra. Le vuote stanze echeggiavano
spesso delle urla di Marco, che non mancava occasione per rinfacciarle
quella che tutti ritenevano una colpa: la sterilità. "Un
giorno me ne andrò" pianse Gigia una notte, quando
Marco uscì per un'avventura d'amore. "Vattene ora,
per non aspettare domani" rispose gelido Marco, sbattendo
la porta. A Gigia risuonarono dolci le parole di Dvane: "Vieni
con me a Vissada in agosto: nel mio "cadón"
troverai la fertilità".
Fu una notte di dicembre, quando gli uomini preparavano le "liode"
per partire al mattino presto verso Vissada per recuperare il
fieno di monte. La luna rischiarava il paese riflettendosi sulla
bianca distesa nevosa. L'immacolato silenzio delle notti d'inverno
sovrastava Costalta assopita. Le "liode" appoggiate
alle pareti di legno attendevano l'alba. Anche la fontana di
Villa aveva racchiuso nel ghiaccio il suo canto. Gigia lasciava
le orme sul sentiero ancora intoccato: quasi un segnale per chi
aveva imparato a conoscere ogni traccia lasciata sulla neve.
Arrivò a Vissada quando albeggiava e le sembrò
che sorridessero di gioia le crode del Longerin, mentre il Sandaniele
e lo Schiaron la accoglievano in un abbraccio protettivo.
Vide subito la "meda" di Dvane ed accanto il "cadón".
Quando Dvane, percorrendo per primo il sentiero e ricalcando
ogni orma, aprì la porta del "cadón",
nessuna parola ruppe l'incantato silenzio di Vissada: un sorriso,
un abbraccio, l'amore.
Nevicò oltremodo quell'inverno a Vissada.
Qualche paesano commentò la stranezza di Dvane che, dopo
aver fatto la "möda" più grande, quell'anno
s'era preso in ritardo, e a causa della grande nevicata, non
aveva potuto recuperare il fieno di monte. Marco non pianse la
fuga di Gigia né i paesani si preoccuparono dove ricercarla.
Nessuno seppe mai che quell'inverno a Vissada, dove il vento
e le nubi si danno appuntamenti d'amore, Dvane e Gigia trovarono
la pace. Sulle travi annerite del "cadón" furono
scritte pagine di sogni. Il vento e le nubi li protessero facendo
nevicare sette metri quell'inverno lassù nella valle.
Quando la successiva primavera i contadini di Costalta salirono,
come ogni anno, per rinsaldare i "cadógn" e
prepararli efficienti per il taglio di agosto, li trovarono tutti
schiacciati sotto l'enorme massa di neve. Nessuno più
ricostruì il "cadón" di Dvane e la sua
"möda" venne spartita.
Ma la prima notte di agosto ogni anno una voce intona sul costone
di Vissada un canto melodioso, che ormai tutti i contadini di
Costalta conoscono. Lo chiamano "Il canto del pastore di
Vissada" né si curano di sapere di chi è quella
voce che intona la prima notte d'agosto quel canto che echeggia
da conca a conca, da un ghiaione all'altro, fino a sfumare nelle
chiare acque del torrente Pisandui.
Solo per i mistici dell'amore e per quelli che sperano contro
ogni speranza, il Sandaniele e lo Schiaron raccontano la storia
di Dvane e di Gigia nei limpidi autunni a Vissada; e nelle travi
del "cadón", per i cercatori di tesori, sedimentano
scoperte sublimi.
Lucio Eicher Clere
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1. Grosso covone di fieno lasciato in agosto
in montagna
2. Slitta per trasporto di fieno e legna
3. Quota di prato assegnata in sorte ai contadini della Regola
4. Pendio molto ripido
5. Sala di soggiorno rivestita in legno
6. Calzature di legno
7. Sterco delle mucche
8. Contadino con grosse proprietà
9. Racchette da applicare agli scarponi per camminare sulla neve
10. Mirtilli neri
11. Servitori
La Val Vissada oggi (vista dai Piani di Vissada) |