di
ALESSANDRO BONGIORNI

 
"CAPITALE MORTALE" è il primo romanzo del giovane scrittore.
Alessandro è nato a Milano, ma vanta ascendenti... costaltesi:
è figlio di Fabio e nipote di Mariuccia, sorella del pittore Luigi Regianini.

Vuoi rimanere... col fiato sospeso?
Ecco, di seguito, in anteprima, il primo capitolo del libro.

Per scoprire come va a finire... non resta che comprarlo!



1.
Sarà stato che un giudice gli aveva tolto il permesso di vedere suo figlio solo perché non aveva un reddito sufficiente per prendersi cura di lui; sarà stato che al lavoro stavano tagliando il personale e lui era l’ultimo arrivato. Oppure sarà stato che il caldo torrido di quel giovedì mattina aveva dato alla testa a un uomo, il quale, appena sveglio, aveva avuto la brillante intuizione di recarsi a casa dell’ex moglie e di avvisarla del fatto che di lì a poco lo avrebbe visto su tutti i telegiornali, almeno così avrebbe potuto essere finalmente orgogliosa di lui.
Fatto sta che quella mattina di fine giugno, seduto con le gambe a penzoloni dal tetto della lussuosa casa di via Sant’Orsola 15, più o meno a diciotto metri da terra, c’era Tommaso Mari.
Ad avvistarlo per prima era stata la portinaia, la quale, nello svolgere minuziosamente il suo compito di ripulitura del marciapiede, aveva visto riflessa nel cemento una strana ombra, di quelle che prima non c’erano.
La signora Maria era una donna attenta e scrupolosa, sempre ligia al dovere. Se una cosa era in un modo, doveva restare in quel modo. Non c’era motivo di cambiare. Quell’ombra strana, che solitamente non era così, attirò la sua attenzione. Alzando gli occhi al cielo vide Tommaso Mari.
La polizia arrivò nel giro di cinque minuti, visto che il tutto si stava svolgendo a pochi passi dal commissariato di piazza San Sepolcro. Per fare prima alcuni agenti andarono a piedi, portandosi appresso la brioche con cui stavano facendo colazione.
Peccato che il cappuccio non sia asportabile.
Poi arrivarono i vigili del fuoco muniti di quei bianchissimi mega meterassoni con la “x” nel mezzo, come a indicare con precisione il punto in cui il proiettile umano di turno dovrebbe colpire.
Inesorabile, arrivò anche la stampa.
Il commissario Fenisi giunse sul posto in un baleno, tanto che il suo alito portava ancora le tracce delle grosse e soddisfacenti russate di pochi minuti prima. I suoi occhi avevano l’espressione dei sogni andati via per sempre e le guance provavano che il cuscino era stato maltrattato. I grossi baffi, al contrario, erano ordinatissimi. Dopotutto, sono pur sempre un commissario.
Appena arrivò i giornalisti capirono che quell’ometto tarchiato, coi baffi e un’espressione tra l’assonnato e lo scazzato era ciò che più si avvicinava al capo. Lo assediarono e iniziarono a tempestarlo di domande, ma lui tirò dritto dandosi un certo tono, di quello che adesso sistema tutto, vedere per credere.
«Achilli, che succede?»
«Dottore, minaccia di buttarsi.»
«Grazie, mi hai aperto un mondo. Pensavo che volesse fare una passeggiata su un cornicione e che fossimo noi i cattivoni a volerglielo impedire.» Poi aggiunse: «Ci avete già parlato?»
«Ci ha provato l’ispettore capo Esposito, ma non ne vuole sapere.»
«Pelide, passami il megafono.»
“Pelide” era il soprannome dell’ispettore Enea Paride Achilli. I suoi genitori dovevano aver accolto la sua discesa sulla terra come un qualcosa di miracoloso e divino. Volevano che in paese - una comunità della Valsassina in cui tutti si conoscono dalla nascita - si sapesse che loro figlio sarebbe diventato qualcuno di importante, non come loro, poveri contadini. Lo amavano a dismisura. È così che erano giunti ad affibbiargli non uno, ma bensì due nomi epici. Oltre al cognome, dal quale è tratto il soprannome. A inventare il nomignolo era stato un vecchio centralinista appassionato di letteratura, che qualche anno prima aveva appeso la divisa per indossare in maniera permanente e quasi spasmodica le pantofole, dopo anni di duro servizio in difesa dello Stato.
Fatto sta che per tutti Enea Paride Achilli era semplicemente Pelide.
«Tommaso Mari, sono il commissario Fenisi» urlò quest’ultimo.
«E a me che cazzo me ne frega?»
Nella sua ottica non faceva una grinza.
«Non fare stupidate, dai. Vieni giù che ne parliamo. Ti posso aiutare.»
«Non me ne frega un beato cazzo di parlare con te! Mettiti quel maledetto megafono su per il culo!»
Un vero filosofo.
Poi riprese a urlare: «Ora sono famoso, ci sono le telecamere e sono famoso! Mia moglie e mio figlio mi stanno guardando?»
Fenisi fissò Esposito alla sua destra e disse con tono sconsolato: «Questo è matto da legare.»
«Magari è solo un po’ esaurito» rispose l’ispettore capo.
«Allora, mi stanno guardando?»
«Può essere quello che vuole, fatto sta che oggi non voglio rotture.»
Il commissario esitò un momento, guardò la ressa che andava via via ingrossandosi, poi riprese: «Dov’è Brambilla? Con questi stronzi è più bravo lui di me».
«Oggi è di riposo.»
«Ehi, tu col megafono! Mi stanno guardando sì o no?»
Fenisi guardò in alto, borbottando qualcosa.
«Oggi era di riposo, caro il mio ispettore capo. Tiralo giù dal letto che è un’emergenza. Lo voglio qui tra un quarto d’ora. Non un minuto di più.»


(Notizie tratte da Facebook, gruppo "Capitale Mortale" di Alessandro Bongiorni)

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