Mi hanno sfasciato e detto di provare come va.
Qualcosa tipo in un negozio di abiti o scarpe con la commessa che insiste: "Come
se le sente?".
Sentire.
Camminare, cammino.
Mattonelle, ghiaia, asfalto, una pozzanghera, altra ghiaia, erba, altre mattonelle.
Gradini, una scala.
Toccare, tocco.
Corrimano, maniglia, miscelatore, sapone; cuscino; un gatto.
Vedere, ci vedo.
Un semaforo, un cortile, delle terrazze; cavalli al maneggio, cavalli alle giostre.
Persone che si girano, facce, mani, bocche, geometrie. Punti e linee. Un muro.
Uno specchio, e dentro una.
Respiro.
Aria; fumo; odore di casa, smog di un treno. Effluvi di un'erboristeria.
Ascoltare, ho ascoltato.
Doremifasolasi poi si rimescolano e si spezzettano e si riuniscono, e tornano
ad essere doremifasolasi, 7 e non più di 7. Il che vuol dire che anche
contare, ho contato.
Mangiare, mangio.
Pane, limone, nutella. Questo qui ha un'etichetta che dice yogurt alla
fragola. E io mangio: iogurt alla fragola.
Bere, bevo.
Acqua. Vino. Coca. Che altro c'è? Diazepam. Paroxetina. Assenzio.
Bevuto tutto.
Dormire. To', dormire.
Dormo di sasso. Non saprei dire di più, sul dormire.
Funziona.
Ha funzionato.
Le funzioni funzionano.
Sì però adesso basta con questo scherzo.
Ridatemi subito, e prima che io mi spenga nel tuttuguale, ridatemi subito quel
ganglio stellato, bitorzoluto, tentacolato, inquieto, invasivo e invadente,
insinuante e bastardo e metastatizzato che mi avete tolto mentre ero sotto la
vostra melliflua anestesia - che neanche l'ho chiesta, io -
perché quel ganglio è mio e mi serve e so benissimo cosa farne.
Ci sento lo scivolìo lucido dei pavimenti alla veneziana rosso amaranto,
il soffio rovente dell'asfalto sui marciapiedi crepati da erbacce infestanti,
il crepitio del ghiaino la notte fonda sotto il plenilunio tra le frasche delle
acacie carezzanti, il naso umido del mio cane bizzarro con quel suo sguardo
da delfino, le vibrisse amorose dei miei gatti che tentano soavi di sedurmi
il collo mentre dormo.
E giusto: mentre dormo ridatemi i miei sogni tutti quanti, che me li voglio
risognare, anche quelli che mi hanno svegliata gridando incubi.
Con quel maledetto ganglio ad anse e spine ci sento il tepore del legno delle
porte, la tenacia sicura delle maniglie brunite, la potenza pungente dello scroscio
dell'acqua sul mio corpo (che sente, che sentiva tutto, il mio corpo,
maledetti voi), il brivido delle lenzuola fresche di buio e solitudine, l'aspro
degli occhi che addentano frutti rossi e arancione morbidi di sole spalancato,
il tuffo caldo di una tirata di sigaretta dentro tutti i miliardi di alveoli
scoppiettanti, l'acre dolce delle braci d'inverno nel caminetto
estivo, la polvere d'oro e olio paglierino dei miei tarli (i miei
tarli, perdio), e l'acido zuccherato e salato del formaggio greco e lo
scrocchiare del pane tostato con le bucce dell'allegro pomodoro che mi
leccano la bocca, e l'acqua trasparente e il vino violaceo che scivolano
giù nel rombo del sangue come un orgasmo, sì un orgasmo, che anche
quello me lo volevate togliere, vero?
E la musica, dai forza, ridatemela tutta intera.
E' dentro quel ganglio che avete meticolosamente enucleato come un cancro
mortale e invece... bastardi, era la mia cassa di risonanza.
Che io ascolti ancora l'erba e i tetti notturni; i pesci d'argento
che guizzano in fondo alla diga; i tonfi del Tempo dentro il cuore, insidiati
da un oboe che mi fa l'amore.
Che ascolti i miei tanti e sconosciuti figli chiamare il mio nome dall'altalena,
e mia madre - anche lei sconosciuta - che canta stonata tra i risucchi
dell'acquaio e lo scorrere cauto e goloso del cassetto con gli spaghi
dorati per i regali di natale.
Ridatemi insomma, lo volete capire, il ganglio con cui sono nata, magari per
sbaglio ma io che colpa ne ho?
E non provateci mai, mai più, a sfasciarmi così.
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Ragnatele
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