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A volte mi siedo a quel tavolino laggiù, sotto il tendone del caffè,
in quel sole allungato a forma di angolo sempre più acuto mano a mano che
la terra gli gira attorno con tutto il suo autunno dietro, a far strisciare foglie
ruvide e ritorte sui selciati lucidi della piazzetta.
Mi faccio portare una tazza di calore dolcissimo e rovente e ci lacrimo sopra
la condensa del freddo, che anche lui ha pur bisogno di girare queste strade di
città piene di lampadine accecanti perfino in pieno giorno.
Le due del pomeriggio, un po' dopo. Per gli impiegati e le commesse è l'ultimo
caffè, le ultime sigarette di sghembo e mal fumate ma appassionatamente
inghiottite prima di richiudersi fuori da questo fuori.
A me piace così, quando gli altri lasciano i loro posti in fretta, le donne
ritoccandosi i rossetti senza smettere un attimo di parlare e sgranare gli occhi,
i loro uomini già due passi avanti, bavero rialzato e mani in tasca a lasciare
che lo spolverino di armani sventoli morbido dietro i loro passi predatori.
Vanno loro, e arrivo io. Nessuno sa che sono qua, quando sono qua. Quando non
sono dove sono di solito.
E' il mio posto privato, e non è sempre lo stesso.
Lo diventa però ogni volta quando sistemo in ordine attorno alla mia tazza
bollente i miei averi segreti, su cui nessuno mette mai altre impronte.
Un libro da cominciare.
Un accendino scarico ma il colore mi piaceva tanto.
Il notes piccolo a quadrettini per gli appunti, ma è vuoto, e il giorno
che ci trovassi scritto sopra qualcosa dubiterei di averlo fatto io.
Il cellulare senza scheda, così posso solo ricevere ma non chiamare, e
comunque non oltre il prossimo giovedì mi pare. Poi, fine. Isolata grazie
a dio. E che non mi venga la tentazione.
Matita senza punta.
Busta di kleenex vuota, sacchettino ormai impiastricciato di briciole e tabacco
di tanti anni fa.
Elenchi.
Opere e omissioni, mescolate.
Elenchi di cosa farò da grande, cosa farò da vecchia, come crescerò
i miei figli, come si fa la millefoglie per il compleanno della colf.
Soldi scaduti, fuori corso. Lire, addirittura.
Ma allora con cosa pagherò questo
tè fumante che butto giù con gratitudine come fosse amnios
materno o materno come plancton, madre e mare che chissà dove mi
hanno rigettato a riva quella volta che per prima nuotai qualche bracciata,
e nel voltarmi per ottenere l'approvazione ero già lontana, al
largo, e i pesci che ruotavano con indifferente fluire le loro code allungate
attorno alla mia acqua manco si scomponevano nel vedermi tra loro, una
scia silenziosa fra bollicine che subito si scioglievano in un non-movimento
generale, e infinito.
Stavo bene, laggiù.
Colore e temperatura, anche il tatto era avvolto da quella pelle in continuo
cambiare e rinnovare, e nulla doleva.
Ero allo stato monocellulare, all'inizio, al niente-prima e tutto-davanti.
Non c'era sforzo per nuotare perché nuotare non era richiesto. Bastava
restare lì e la chimica dell'idrogeno avrebbe fatto lentamente e perfettamente
il resto insieme a quella dell'ossigeno e del carbonio, e poi sarebbero nati
tanti altri figli di tutti i colori e i vettori, e anche gli odori sulfurei
e iodati e quelli momentanei di alga di fango e un po' dopo la clorofilla e
il verde della costa finalmente formata.
Prima che compaia l'uomo sulla crosta terrestre, userò un rettangolino
di plastica rigido e sopra-naturale per far felice una cassiera in fuseaux tigrati
e non lascerò altra orma che uno scontrino di cellulosa appallottolato
nell'ombra che corrode ogni giorno meglio l'angolo di un tavolino vuoto.
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Ragnatele
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