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Coppie di luci rossastre lasciano strisce incerte sul vetro, e i tir in fila sono
muri massicci che ostacolano la visuale. Non c'è percezione di movimento,
di velocità. Indaco tutt'intorno sulla Grande Volta; prime stelle, o solo
riflessi di aree di servizio. E' uguale.
Anche la radio suona uguale, dà fastidio, impedisce di contare i metri
di sicurezza e i cartelli per le uscite. Non c'è neanche rumore, o suono,
oltre quel ronzio perfetto di un motore a punto, ingranaggio futile e geniale.
Dal gelo e dal sereno nasce la nebbia leggera soffiata dai campi e attraversa
cieca la carreggiata, come un effetto speciale o un ponte. Ci si infila prudente,
fissa lo sguardo per penetrarla ma al primo sbatter di palpebre è già
improvvisamente svanita.
Torna nitido, ed è più buio.
Ora eccoli di nuovo, i campi che vanno verso la notte, inghiottiti i filari e
i rari alberi, più lucide le finestre di piccole case perse.
Chi abita quel buio, animali o ricordi, forse gli errori di cui vorrebbe liberarsi
come la cenere dal finestrino? Che meraviglie scivolano come mani sconosciute
in quelle oscurità che salgono dalla terra? Dove porta quel viottolo che
per un po' insegue caparbio l'autostrada e pare senza una meta, compagno ad un
fosso certamente gelato?
Si chiede; è inquietudine.
Ma la corsia di destra è occupata da tir che vanno verso paesi ignoti e
le loro targhe portano fango da lontano. Il buio si impadronisce delle ultime
ombre, è totale, e solo le luci degli altri viaggi lo fendono in scie,
si frammentano, si svolgono come serpenti, si ricompongono ogni volta in subitanee
immagini di caleidoscopio. Quel cartello si accende un istante folgorato dai fari,
ed è già risucchiato in un altro tempo, uno o due secondi fa, vicinissimi
ma irripetibili.
Passano una volta sola.
Come i campi, vasti, puliti, aperti; generosi e liberi, prima che il buio li cancelli.
Maledetto, maledetto guard-rail.
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Ragnatele
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