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Si alza molto presto, appena sveglio. I primi movimenti, sempre uguali e a tempo,
col sottofondo di una musica talmente in sordina che la radio ne emette solo echi
flebili di violini. L'interruttore della luce in bagno fa un clic sonoro in quel
silenzio. Lo specchio abbaglia quel viso da raspare
come la lampada di un dentista, e non è bello. E quegli asciugamani ingrigiti
e ancora umidi, squallidi come il ricordo della doccia avara di ogni sera, con
quella pioggetta incerta che non lava non sciacqua non quieta.
L'orchestra che stride sottovoce ora è sepolta sotto il chioccolio del
caffè che spruzza tutt'intorno dalla moca annerita. Il cucchiaino si scontra
stupidamente contro l'orlo della tazzina, il vapore subitaneamente acceca gli
occhiali.
La finestra luccica contro il buio pesto delle sei di mattina, mattina di città,
periferia ma città. Peggio.
Il tappetino davanti al secchiaio è appallottolato come la cuccia di un
cane.
Si ficca delle cose nelle tasche, a caso, prendendole come manciate di sassi dalla
mensola sopra il termosifone. Si infila scarpe già allacciate, le punte
opache di fanghiglia metropolitana.
Le tapparelle sono incastrate da mesi, né su né giù. Lascia
perdere, il falegname ha la segreteria telefonica, non risponde mai.
Si tira dietro la porta, un giro di chiave che fa vibrare l'aria ferma della tromba
delle scale.
Ascensore a grata, cigola. La gente comincia solo ora a rigirarsi nel letto.
Scende a piedi. Luce plumbea.
La solita occhiata alla cassetta della posta, piena. Stasera quando torna dovrà
ricordarsi di vuotarla.
E' da pasqua che non lo fa.
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