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Quel filo

Non era un loft, non di quelli di città.
Era uno stanzone lungo e vuoto che prendeva luce da una serie di finestre tutte su un solo lato e senza imposte. Fuori, la campagna color giallo maturo dell'estate e le fronde scure di alberi affollati intorno. Il sole che da sempre era entrato aveva impedito ogni umidità, cosicché le assi di legno del pavimento erano piane, e le fessure trattenevano una lanugine chiara.
Di legno era anche la porta, che lo stesso sole in molte stagioni aveva scolorito; era stata tagliata male, c'erano due buone dita d'aria sotto, e nell'entrare si era smossa e disfatta una striscia di foglie secche incastrate sulla soglia.
"Sa, qui una volta ci tenevano i bachi da seta - aveva spiegato il tipo dell'agenzia - però guardi quanta luce. Basta metterci qualche tramezzo, delle porte scorrevoli... può venirne fuori qualcosa di carino. Spartano, ma carino".
Sì, pensò, spartano. Ma niente tramezzi, e niente porte. Perfetto così com'è.
Per firmare l'assegno lo appoggiò sulla ringhiera della scala che saliva dal pianterreno. Poi tornò dentro la stanza dei bachi da seta e da una delle finestre rimase ad osservare l'auto che si allontanava sul viottolo traballando fra sbuffi di polvere.
Qui, pensava, qui. Questo è il posto.
Laggiù un letto, o una branda, o una rete. Un sacco a pelo. Una stuoia magari. Laggiù, contro quel muro cieco.
In mezzo, un tavolo da rigattiere per i barattoli e i pennelli. Per una caraffa di acqua di pozzo e una radio bruciata con solo musica dentro.
Una poltrona ma che sia sfondata, per pensare. Se non la trovo, basterà una sedia. Oppure mi costruirò uno sgabello.
Il cavalletto, quello si sposterà seguendo i passi del sole, e i miei seguiranno i loro. Lo spazio c'è tutto.
E le tele in attesa, appoggiate contro la parete lunga, che sembra lì apposta.
Dabbasso, la vasta cucina scura aveva luce solo sul tardi da una finestrella a ovest sopra l'acquaio di pietra. Molta altra luce si ritagliava, bianca di calcina, nel rettangolo della porta, ma non entrava: accecava di fuori la terra seccata del cortile coronato dai gelsi.
Qui, è il posto. Qui verrò, ogni volta che potrò. Col caldo d'estate, col freddo in inverno. Non farò nulla per camuffare le stagioni o per contare il tempo. Qui nulla cambierò. Qui c'è il cuore del mio unico desiderio. Qui dipingerò e basta, un mondo, come ce l'ho dentro e come non è.
Ma prima lo sgabello, e il vecchio tavolo e le tele e i colori e l'acqua ragia. Prima la brocca, l'acqua e il pozzo. Prima, una radio sventrata che sappia suonare da sola. E intanto, e prima ancora, pensare costantemente e solo a come far perdere le mie tracce, a come dimenticare tutte le altre.
Soltanto dopo comincerò a dipingere. Comincerò.

Una sera precoce, che finiva l'agosto e non c'era luna ma solo stelle in bilico e dappertutto, portò l'auto adagio all'argine, lo scavalcò fino al centro del greto asciutto e lì la incendiò.
Da settimane non pensava più ai volti delle persone che si erano sedute accanto a lui, alle voci che lo avevano distolto ai suoi silenzi. Ormai era sicuro di aver confuso tutte le tracce che lo ossessionavano. Era stata la sua impresa, mancava il suggello, ed era tempo.
Nomi e cognomi e le mani e gli echi e la voglia di riaverli bruciarono nella prima fiamma come carta straccia, ma era buio e non vide che quel rapido fumo gli stava lasciando dei segni sul viso. Seduto sul ciglio, aspettò che anche quel rogo fosse inghiottito dalla notte, e intanto succhiava more di rovo e dai palmi ne leccava il succo insieme al sangue dei graffi.
Solo un attimo, il tempo forse di un volo di Perseidi, si chiese perché da bambino gli avessero raccontato tante prudenti falsità sulla velenosità delle bacche raccolte in campagna. Quelle rosse, le più belle perché nascoste, che trovarle frugando era un gioco miracoloso. Un batticuore, era.

Mentre più tardi risaliva verso la casa dei bachi da seta, qualcosa di addormentato dentro si sgrovigliò d'improvviso e si girò a guardare quel che restava dell'inferno Lo riconobbe, e se ne innamorò: somigliava troppo al desiderio impossibile del suo impossibile cuore.
Così si staccò per sempre dal suo corpo e tornò per sempre indietro e per sempre lo raggiunse e per sempre si lasciò divampare e si concedette, finalmente e per sempre, di appartenere.

[... sì, si sapeva che avevano venduto ma noi non s'è mai visto a chi. Pareva sempre disabitata, come prima. Non doveva essere uno di città come hanno scritto i giornali, uno di città avrebbe fatto sistemare, messo su l'acqua e la luce' perché qui non c'era niente, e anche adesso, come ben si vede, non c'è niente...]


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