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Guardatela.
Impossibile non guardarla.
Con quell'abito rosso da flamenco, i pettini d'osso fra i capelli, le mani scintillanti
di pietre astrali, gli occhi fondi di nero inchiostro dove si riflette una luna
sempre in movimento, la bocca che trionfa con una smorfia di irritazione e compiacimento,
porta i suoi fianchi di fattrice - così
sorprendenti sotto il solco gentile della vita - fra i tavoli dei marinai.
Guardatela, mescere su quel banco di legno rancido, scheggiato da imprecazioni
e nomi di donne disamate, il suo vino che uccide, in quei cocci di vetro rozzi
e scompagnati.
Guardatela, chinarsi coi suoi gesti ondosi sul fuoco e smuoverne la sorgente con
un attizzatoio uncinato, quando langue.
Essi bevono, e i succhi si trasformano in segni sui loro visi di malfattori, come
cicatrici del troppo sole dei troppi oceani.
Si affrontano in risse di ingiurie e di inganni di carte.
Si sfidano a grattare sui muri fumosi versetti satanici e tatuaggi di amori, a
tinte forti, il nero della notte, il rubino fosco del sangue, l'acciaio delle
lame delle loro insistite vendette.
La chiamano in mezzo ai loro eccessi perché li domi, la pretendono al centro
del loro vizio, e lei - guardatela - salirà ora su quel tavolo, i suoi
piedi forti inizieranno il loro ritmo pulsante al tempo del cuore, in crescendo
estenuato, e danzerà il suo corpo raggiante di vita, danzerà dentro
un bolero lungo la notte trascinando nell'orlo della sua veste i sensi disseccati,
i brandelli di desideri di quei viandanti senza sonno.
Danzerà per loro ma dopo un po' sarà solo per sé che continuerà,
arresa lei stessa alla sua musica nascosta che le imprigiona le gambe ribelli.
Smetterà per dissipazione, quando li vedrà mortalmente stregati
dalle fiamme dei suoi sguardi, trafitti da quel pensiero dominante che qui cercavano.
Fuori. Fuori, ora andatevene, prima che la luce della brava gente entri a distruggere
i nostri peccati sognati, qui nella stamberga dei dèmoni fuggiaschi.
Fuori, i vostri mantelli, le pipe smozzicate, i coltelli chiazzati, le fusciacche
levantine, gli stivali mongoli.
L'odore tristo di sudore e salso, di corpi d'uomo avvezzi al fango e alle sentine,
di avanzi di cibo vomitato in pozze di escrementi.
Via tutti ora, prima che vi veda il sole e se ne urti.
Ed essi eccoli che si disperdono per i vicoli, non si conoscono, si guatano
un'ultima volta ridiventati nemici, e ognuno ha già un cantone, un abbaino,
un pisciatoio dove nascondere l'ansia di una poesia, un ritratto, una ballata.
Ora il fuoco è solo brace e il silenzio arriva piano con passi di ladro
fra i paioli bruciacchiati e le sedie rovesciate.
Guardatela, l'ultima volta: raccoglie il suo strascico, ora lo vedete bene quanto
è lacero, quanto ha raccolto di polveri e odori e rifiuti dalle scalette
che scendono al ripido mare, la veste è quella di una zingara, la Maddalena
di tutte le zingare, e i suoi gioielli sono vetro di bottiglia
attorcigliato alle sue dita, le unghie di smalto corrose dal salmastro, gli
occhi di incanto annebbiati dalla desolazione.
Raccoglie lo strascico e tutti i suoi stracci intrisi delle loro vite, e chiude
fino al prossimo buio lo spioncino del mondo.
Forse, sta in via del Campo.
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