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Musa

E.Degas - Al caffè-concerto Les Ambassadeurs, 1877

Guardatela.
Impossibile non guardarla.
Con quell'abito rosso da flamenco, i pettini d'osso fra i capelli, le mani scintillanti di pietre astrali, gli occhi fondi di nero inchiostro dove si riflette una luna sempre in movimento, la bocca che trionfa con una smorfia di irritazione e compiacimento, porta i suoi fianchi di fattrice - così sorprendenti sotto il solco gentile della vita - fra i tavoli dei marinai.
Guardatela, mescere su quel banco di legno rancido, scheggiato da imprecazioni e nomi di donne disamate, il suo vino che uccide, in quei cocci di vetro rozzi e scompagnati.
Guardatela, chinarsi coi suoi gesti ondosi sul fuoco e smuoverne la sorgente con un attizzatoio uncinato, quando langue.
Essi bevono, e i succhi si trasformano in segni sui loro visi di malfattori, come cicatrici del troppo sole dei troppi oceani.
Si affrontano in risse di ingiurie e di inganni di carte.
Si sfidano a grattare sui muri fumosi versetti satanici e tatuaggi di amori, a tinte forti, il nero della notte, il rubino fosco del sangue, l'acciaio delle lame delle loro insistite vendette.
La chiamano in mezzo ai loro eccessi perché li domi, la pretendono al centro del loro vizio, e lei - guardatela - salirà ora su quel tavolo, i suoi piedi forti inizieranno il loro ritmo pulsante al tempo del cuore, in crescendo estenuato, e danzerà il suo corpo raggiante di vita, danzerà dentro un bolero lungo la notte trascinando nell'orlo della sua veste i sensi disseccati, i brandelli di desideri di quei viandanti senza sonno.
Danzerà per loro ma dopo un po' sarà solo per sé che continuerà, arresa lei stessa alla sua musica nascosta che le imprigiona le gambe ribelli.
Smetterà per dissipazione, quando li vedrà mortalmente stregati dalle fiamme dei suoi sguardi, trafitti da quel pensiero dominante che qui cercavano.

Fuori. Fuori, ora andatevene, prima che la luce della brava gente entri a distruggere i nostri peccati sognati, qui nella stamberga dei dèmoni fuggiaschi.
Fuori, i vostri mantelli, le pipe smozzicate, i coltelli chiazzati, le fusciacche levantine, gli stivali mongoli.
L'odore tristo di sudore e salso, di corpi d'uomo avvezzi al fango e alle sentine, di avanzi di cibo vomitato in pozze di escrementi.
Via tutti ora, prima che vi veda il sole e se ne urti.
Ed essi eccoli che si disperdono per i vicoli, non si conoscono, si guatano un'ultima volta ridiventati nemici, e ognuno ha già un cantone, un abbaino, un pisciatoio dove nascondere l'ansia di una poesia, un ritratto, una ballata.
Ora il fuoco è solo brace e il silenzio arriva piano con passi di ladro fra i paioli bruciacchiati e le sedie rovesciate.
Guardatela, l'ultima volta: raccoglie il suo strascico, ora lo vedete bene quanto è lacero, quanto ha raccolto di polveri e odori e rifiuti dalle scalette che scendono al ripido mare, la veste è quella di una zingara, la Maddalena di tutte le zingare, e i suoi gioielli sono vetro di bottiglia attorcigliato alle sue dita, le unghie di smalto corrose dal salmastro, gli occhi di incanto annebbiati dalla desolazione.
Raccoglie lo strascico e tutti i suoi stracci intrisi delle loro vite, e chiude fino al prossimo buio lo spioncino del mondo.
Forse, sta in via del Campo.


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