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Maggio era già avanti, caldo e brillante,
quando la Dina, che era una gran lavoratrice e fremeva nel vedere le faccende
rinviate, prese in mano la situazione e forzò mia madre a riporre
la roba della nonna. Davanti al mio armadio comparvero degli scatoloni
di cartone, e io fui mandata fuori dai piedi per un po' mentre loro due,
una energica, l'altra che si trascinava tetra, sgomberavano vestiti, cappotti,
biancheria. La Dina li staccava dagli appendini e li appoggiava sul letto
- il mio letto, perché lì era morta, la nonna, ed era febbraio
e non pioveva né nevicava e il gelo stringeva ancora di più
- dove la mamma angosciata li piegava con pesantissima lentezza, poi li
dispiegava infelice e ricominciava meglio, incapace di staccarsene. Non
diede via niente, né alla Dina né ai poveri, ma neanche
agli zii, così, per ricordo; e loro del resto non chiesero, perché
avevano poco posto in casa, così poco che la nonna malata era venuta
a morire da noi, che stavamo larghi in campagna. Gli scatoloni finirono
nello scantinato, e più avanti ci seguirono per decenni in tutti
i nostri frequenti traslochi; dovevamo cercare ogni volta una casa con
almeno una cantina o dei ripostigli abbastanza ampi per conservare tutto
ciò che, morto e sepolto o comunque inservibile, mia madre non
rinunciò mai a portare con sé.
La Dina, in casa, faceva tutto lei. Puliva con l'ammoniaca. Mia madre, recitando
un aristocratico ribrezzo, fuggiva di sopra e si rifugiava a leggere giornali
e gialli, e lei, con le nocche e i gomiti arrossati, rideva sonoramente: "Ma
li guardi, che bei puliti, i vetri!". Nel cucinino lampeggiava un riflesso
di sole da far pizzicare gli occhi, e lei era lì, sul secchiaio schiumoso,
e ne estraeva piatti e pentole, intere batterie di pentole di tutte le forme che
metteva a sgocciolare su uno strofinaccio. "Asciuga un po', eh?"
mi diceva. In giardino, dietro, dove suo marito la domenica veniva a tenerci un
po' di orto, sbatteva le lenzuola con formidabile energia. "Passami
le mollette, dai" mi diceva.
Noi passavamo l'estate a rincorrerci coi figli dei vicini, marmaglia, secondo
mio padre. Si andava di nascosto in strada, e rasentando i muretti si arrivava
di corsa all'angolo, alla casa del dottore, che aveva il giardino più
grande e folto della via. Da fuori pareva un bosco, si vedeva solo fogliame fitto.
Si scavalcava la rete da dietro, con mio fratello piccolo di guardia che frignava
per la paura, ma ci stava lo stesso. Si andava strisciando sotto le siepi e in
quel misterioso sottobosco a cercare le due tartarughe del dottore, a vedere se
c'erano davvero. Era una leggenda, che le avesse: qualcuno della banda si
vantava di averle viste (addirittura toccate) e che erano grandi e marroni, con
occhi gialli cattivissimi. Uno giurava che quando si arrabbiavano soffiavano forte.
Come i draghi, proprio. Ma la Dina si buttava via dal ridere, perché era
stata a servizio anche là e sapeva benissimo che le due tartarughe erano
una sola, e che era morta da anni.
un autorevole commento:
Il confronto fra due donne.
Una che non butta via niente e si trascina sotto il peso di ciò che non
butta via.
L'altra capace di sonori vaffanculo - cioè di far pulizia sul serio - e
di dire che non ci sono due tartarughe-drago ma una sola, e che è anche
morta.
Il coraggio di buttar via ciò che costringe solo a trascinarsi senza restituire
nulla. Fantasmi. Un doloroso niente.
(Queffe - it.arti.scrivere)
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