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E' una locanda. A metà della strada bianca di pianura, sulla destra poco
prima del bosco. L'insegna scortecciata, di notte una lanterna sempre accesa.
Viaggiatori si fermano, a piedi o su carri; quello del Signore, domenica, era
infiocchettato, ci portava sua figlia come una sposa. Ma è al convento
che la conduceva. Dicono che ha guardato da una grata uno scudiero, ma era sudicio
e per giunta ammogliato.
I mercanti di nastri e perline mi rovesciano le sacche sull'impiantito perché
le custodisca fino al mattino, e mi pagano a volte in monete di paesi stranieri,
che qui non contano nulla.
Artisti di strada, affamati e figli di nessuno, mi cantano canzoni e poi mi rubano
il pane con magie da fanciulli; i cacciatori mi portano la selvaggina, i pescatori
i lucci, e io avvampo le mie braci e li arrostisco per loro ogni sera, che non
ne avanza nemmeno per i loro cani.
Vanno in città, dove c'è mercato sotto gli archi, e le luci e le
voci e l'allegria e il denaro, la Cattedrale del Vescovo, i Palazzi dei Principi
e le loro meraviglie.
Io mi ghiaccio le mani alla roggia, mi strino i capelli al focolare, mi imbianco
di piume di gallina e sbruffi di farina.
Sotto le unghie ho la terra dell'orto, sulla schiena il peso dei cesti.
Da ragazza fiorita pensavo: farò un buon matrimonio e lascerò questo
posto, non come mia madre e la sua e quella prima. Abiterò un castello
anche io, e avrò più di uno scudiero, ma pulito e di buone maniere,
e avrò anche chi lava e cucina per me. Avrò figli e domestici, feste
di amici in salone, un baule di vestiti da regina. Avrò tempo per guardare
le nuvole dai molti balconi, e nient'altro che mi assilli.
Ma già annotta, e i viandanti a quest'ora rallentano cercando dove sostare.
C'è la zuppa da rimestare, lo spiedo da girare, secchi d'acqua da portare.
Attese - le mie - da rammendare.
C'è da fare; da aspettare chi arriva, e si fermerà da me. Alla
locanda a mezza pianura.
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