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Da qualche mattina sono gli uccelli a
svegliarmi, nell'ora rosa dell'alba.
Per mesi abbiamo avuto notti lunghe
e fatte di un pesante silenzio nevoso, che solo una civetta attraversava,
e giornate che cadevano nel piombo di un imbrunire sempre più precoce.
Ora invece da un po' sembrano farsi via via più leggere, come abiti
estivi di donna.
Quando sono arrivato qua - ricordo, di ritorno da una città
di grandi spazi e temperatura dolce - stavo valicando l'appennino
verso il mio nord e il suo inverno imminente; era metà pomeriggio
quando entrai nella nebbia e mi persi. La strada era senza uscita, ma
non me ne avvidi, e fu qui che mi trovai, davanti a un cancello aperto,
a un cortile spoglio e a questa vasta casa di pietra.
Mi vennero incontro senza sorprendersi, come avvezzi ai viaggiatori smarriti,
e mi offrirono riparo dalla stanchezza e dall'oscurità come
fosse la scelta più naturale.
Ricordo la prima cena, tutti insieme a un tavolo spartano, ma c'erano
zuppa e vino e pane bianchissimo. Non erano monaci, ma lo erano stati.
Monaci caduti in disgrazia, scomunicati, rinnegati. Maldicenze di paese,
si giustificarono con grande semplicità, e passarono oltre.
"E lei, è scrittore?"
"Come lo sapete?"
"I libri in macchina - spiegò brevemente qualcuno, il pratico Servazio
- Se vuole glieli porto di sopra".
Dormii tra lenzuola tiepide e gonfie trapunte in un buio assoluto; la
lampada a gas accanto al mio letto, avrei imparato a usarla solo più
avanti.
Col giorno, vidi stendersi sotto le finestre una valletta disabitata,
di boschetti foschi e pendii incolti.
"Siete fuori dal mondo, qui. Di cosa vivete?"
"Siamo fortunati, ognuno di noi sa fare qualcosa. Chi cura l'orto, chi
intaglia il legno, chi ripara il tetto. Non ci manca nulla, mi creda:
uno sa perfino di elettricità, e possiamo ascoltare la radio".
Cacciati dal convento, non si erano divisi ma piuttosto rinsaldati qui,
nella vecchia dimora di uno di loro, che al secolo era di famiglia possidente.
Si sostentavano della loro stessa pace e della laboriosità che
nessuna scomunica aveva scalfito.
"Ma pregate ancora?"
"Sempre. Insieme, ma più spesso da soli. Preghiamo per i
campi, per le piante, per le nostre galline e le uova che ci nutrono,
per le vacche e il loro latte, per la salute della natura".
"E Dio, i santi?"
Sorrise, il decano, il possidente, Leonio di nome.
"Mi creda - ripeté - è la stessa cosa.
La stessa cosa".
"Francescani? - azzardai.
A questo non rispose.
A volte cantavano. Mi dissero che uno
di loro componeva musica, un altro - Cipriano - versi. Li lessi. Bellissimi,
come vetri scintillanti al sole. Con lui parlavo a volte di libri, la
notte, mentre fuori l'inverno avanzava con passi pesanti e sbuffi di nevischio.
Quando mi ritiravo in camera mia a scrivere, pensavo al suo genio limpido
e alla sua invidiabile clausura.
Rimasi.
Rimasi e passai l'inverno scrivendo finalmente il vecchio libro
che avevo in mente da una vita.
A volte, affacciandomi, scrutavo le cime delle montagne indistinte per
misurare il tempo dalle chiazze di neve, e scoprivo che ne avevo ancora;
giravo lo sguardo allora sulle pareti bianche della mia stanza nuda e
serena, e sentivo che era anche il tempo migliore che avessi mai conosciuto.
Giusto di temperatura e di densità.
Negli ultimi tempi si è unita a noi una ragazza: la vedo occuparsi
delle galline avvolta in uno scialle che la svela incinta.
"E' mia sorella - mi ha spiegato intenerito Bellosguardo,
il giovane che governa la stalla - Non avrei mai dovuto lasciarla
sola. Ora partorirà qua, penseremo noi a tutto".
E' lei, ora, che la sera riscalda la zuppa. Poi siede tra noi e
mangia sorridendo in silenzio.
Ho saputo che si chiama Rododendro, ma parla solo agli animali del cortile.
Il mio, di nome, non me l'ha mai chiesto nessuno.
La neve si è sciolta, i pendii si sono inverditi, il cielo è
di smalto nuovissimo. Ho sei mesi di più, e oggi parto. Il libro
è finito. Il mio lavoro, il lavoro della vita, è finito.
Ma questo indirizzo, il nome di questo sogno, lo terrò per me.
O forse, meglio, lo dimenticherò.
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