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La password

A.Derain - Ritratto di Lucia Kanhweiler, 1913

Quello lì in prima fila è mio figlio, il professore. Brizzolatura perfetta, naso affilato, fisico da sessantenne moralista, igienista e digiunatore. Moglie tizianesca finta a fianco, con occhiali scuri da Gran Dolore, figli (i miei nipoti) in scala e in abito scuro con cravatta under 21. Un po' più in là, anzi un abisso più in là, mia figlia anche oggi incazzatissima, perso l'aereo, perso anche il cellulare, il marito mai più ritrovato. Dietro ci sono quelli che non ho invitato, i parenti dimenticati e gli amici trascurati, belle statuine di cera che non sanno cosa guardare e quindi guardano tutti lo stesso punto sfocato a qualche centimetro da me. Mozart non è venuto, la sua Messa da Requiem non me l'ha concessa. Ha mandato al suo posto i miei vecchi ragazzi dell'ultima maturità, guardali là, sono solo due o tre, quelli che in questi anni ancora mi hanno mandato gli auguri a Natale per buona creanza. Quello alto e grosso non riusciva mai a ricordarsi i verbi irregolari greci, e adesso fa il commercialista. La bionda era bravina ma furbetta, però nel '69 è uscita con sessanta sessantesimi e da allora ne è stata grata a me. L'altra era la sua compagna di banco. Gli ultimi anni mi telefonavano ogni tanto. I vicini di casa, gente di tutto rispetto con portoncini lustri e maniglie di ottone ; i discendenti dei miei colleghi insegnanti del Liceo Classico, ai quali sono sopravvissuta con grande spreco di energie ; la dolce ed enigmatica gazzella senegalese che mi ha dedicato ore lentissime di superflue passeggiate in carrozzella nel più confortante dei silenzi. Intorno drappi di porpora di Tyro a ramages oro vecchio, iris barbate olandesi mischiate a candide calle di fosso, nastri violacei con dediche austere e molli frange, vapori oppiacei all'aroma di incenso, organo che vaga armonie assorte in sordina, sovrastato ogni tanto da formule lapidarie sentenziate dalla voce celebrante del direttore di scena.
Preferisco le lunghe pause, sinceramente, perché mi danno agio per misurare l'imbarazzo degli astanti, per immaginare l'impellenza che devono trattenere. Eccola lì la faccia dell'obbligo, l'apparenza della compunzione, la magistrale sceneggiata. Eccolo lì il coro greco che mormora luttuoso un accompagnamento di giaculatorie. Tutti qui ai miei piedi, solo che a stare in piedi sono loro, io per sempre qui distesa e stretta anche, stretta in questa cassa della mia morte così come mi è stata stretta la stessa mia vita... Vorrei girarmi per guardare un'altra volta l'altare dalle colonne barocche e tutto il castello del tabernacolo intarsiato di marmi e dorature che da piccola mi dominava con terribile maestà, e là in fondo, nella prima cappellina, la vasca di pietra liscia del battistero, roba di novant'anni fa. Oggi questa è la chiesa della mia morte e del mio funerale.

Fuori, lungo il rio, mi aspetta il corteo di motoscafi che guiderò a San Michele, l'isola di tutte le nostre sepolture.
Fuori, oltre il ponte e sulla fondamenta, i balconi accostati della vecchia casa della mia famiglia dove sono nata e cresciuta, da cui sono uscita sposa, che ho visto vendere impotente, che ho sempre rimpianto negli anni di esilio in terraferma, che ho ricomprato come ultima follia (ma mamma è umida, ma mamma ci sono le scale, ma mamma se ti succede qualcosa sei sola...) per invecchiare come volevo io. Qui, caspita, qui a casa mia, tra i fantasmi dei gerani di generazioni di donne prima di me, tra le ombre di vecchie tappezzerie che riaffiorano di sotto le molteplici e vane mani di pittura che non cancellano le storie delle persone, e con sotto gli occhi e sotto il naso questo odore di dolce marciume del canale che impregna l'androne e i suoi muschi. Qui, a casa mia, la casa svenduta per un cielo di terraferma e un orizzonte di gru al posto di voli planati di gabbiani e profili nebbiosi di cupole rosa, qui dove i miei passi sempre più faticati sono tornati a tirarsi dietro il tempo sulla pietra d'Istria levigata dall'aria salsa e dagli altri passi di noi veneziani che di quest'aria viviamo.

E adesso basta, sbrigatevi con quel turibolo, mi avete già avvolta in nuvole di profumo per rendermi più accetta a quel dio che ha già deciso comunque cosa fare di me, se davvero gli interessa. Per i saluti c'è tutto il resto del tempo, ci saranno altre messe di suffragio e i telegrammi e gli articoli sul Gazzettino e le commosse commemorazioni della vecchia ed emblematica figura di quella venezianissima e longeva insegnante che sono stata io, la targa che mi ricorderà sulla parete del monumentale atrio del mio liceo, e magari i mazzi di fiori appoggiati sotto ad appassire dentro il cellophane.
Basta, dai, andiamo. Entro domani sarà tutto a posto, un po' di fumo si svolgerà pigramente nel grigiore di questo cielo lagunare e i residui della combustione... fatene quel che volete. Mi sono informata, pare non sia consentito disperderli dove capita, tipo nel mare o sopra i tetti della città. Sapete come la penso, quindi se riuscite a non farvi beccare cercate di disfarvene: non occorre che vi dica come, ci sono tanti modi semplicissimi. Ma non venite a trovarmi (a trovarli) dentro un loculo col mio nome sopra, perché non vi aprirò.

Ah bene eccovi qui, è una vita che vi aspetto. Come che fretta c'è? Ma non è adesso che finalmente mi spiegheranno tutto, il big bang, i dinosauri, i geroglifici, l'etrusco, chi ha veramente scritto l'Odissea, dove è veramente affondata Atlantide, di cosa è veramente morta la figlia che non mi è mai nata...?
Come sarebbe che devo prima inserire la password?

Io non ce l'ho, la password.
Lo sentivo che c'era una fregatura.


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