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L'ultima pietà

M.Buonarroti, Pietà Rondanini - 1555-1562

Il ragazzetto aveva il muso sudicio ma l'animo riverente, e depose con devozione a terra il cesto delle vivande.
"Maestro - disse Tiberio - monna Lucia vi manda la cena..."
Scoprì la ciotola di zuppa, il cacio dall'odore aspro e il pane in fette rozze dalla crosta ben scura di forno. Lo stanzone aveva il pavimento nudo e cosparso di marmo in tocchi e in schegge; sopra il largo tavolo altra polvere e pochi attrezzi, uno o due scalpelli, un mazzuolo. Una brocca d'acqua. Niente fogli né disegni. Tiberio sospirò di impotenza nel richiudere la porta dietro le spalle del garzone, che fino all'ultimo allungava gli occhi verso l'angolo più buio. Un drappo di tela cremisi era teso a difendere il riposo del vecchio nel suo ultimo letto.
Gente importante aveva insistito perché accettasse una sistemazione più comoda, perché non mancasse nulla all'agonia dell'illustre vegliardo, ma inutilmente. Aveva rifiutato gli ultimi agi e non si era lasciato allontanare dal suo laboratorio, dove gli pareva di avere ancora qualcosa da finire. Eppure non sarebbe mai bastato il tempo, quel blocco di marmo là in mezzo era troppo informe e la vita non gli si era ancora accesa dentro per farlo parlare, per dargli la voce, il grido, l'ultimo lamento al cielo.
Il corpo greve del Maestro si girò pesantemente su un fianco, e Tiberio gli fu subito accanto. Il pitale conteneva poca urina rossastra, densa e faticata.
"Com'è oggi?"
"Uguale, maestro. La serbo per dopo, quando vien messere Federigo".
"Manda a dire a messer Donati che non si incomodi. A furia di spaccar il marmo mi ci è venuta una petraia nelle viscere. E l'acqua che n'esce è tinta di sangue e brucia lenta come foco".
L'ultimo chiarore livido della sera che avanzava lambì l'opera incompiuta in mezzo all'impiantito. Era nuda e sofferente, come l'anima e il corpo del vecchio. Era imponente e muta come il tempo che si andava svolgendo. Le ombre le si avvolgevano attorno senza trovare anfratti dove celarsi e le scivolavano sopra come un sudario pietoso. Il Maestro la guardava ancora dal suo giaciglio, con occhi d'affetto e rimpianto, ma senza trovare più la volontà di drizzare le membra stroncate dalla vecchiaia. Le spalle orgogliose e forti si erano piagate, il male aveva impietrato le reni, le gambe avevano smarrito il vigore con cui lo avevano sorretto su per le impalcature delle chiese dei Papi. E le mani, le larghe mani da scalpellino, ora tremavano dolcemente nella fiacchezza della morte.
"Riposate, Maestro. Non datevi pena. Se volete ci lavoro su un po' io. Guardate quanto c'è da fare..."
Tiberio rassicurava il vecchio affinché non si dolesse troppo ma non riusciva ad intuire che la sua mente era ben altrove, già guardava altre opere perfette oltre i confini del soffitto buio.
"Se non ve n'offendete vedrò di sistemarla quel che posso: qualche spigolo, qualche sbozzatura... che ne dite, un po' di scalpello, una levigatina dove la materia è di troppo, un niente di morbidezza ai tratti... ché così la mi pare cosa assai rozza, e poco appropriata alla vostra fama."

Uno scalpello per dare vita a un blocco di marmo già sgrezzato da un lavoro precedente e anch'esso incompiuto, ripudiato, un pezzo di marmo quasi di ripiego in cui cercare con la sua tenacia di fiorentino e la sua fede di cristiano i segni della creazione... uno scalpello per rendere più accettabile agli occhi dei gentili la crudezza di quel dolore estremo e ineffabile, quello strazio che invece solo la nuda materialità della pietra doveva saper trasmettere a chiunque. Il Figlio innocente fra le braccia stremate della Madre sua, lacrime asciutte sul sasso, grido di dolore ammutolito entro la roccia, la ribellione e poi la rassegnazione dei sentimenti umani usati come merce di scambio necessaria per il Disegno di un dio atrocemente esigente... uno scalpello per far meglio dell'opera stessa del creatore, che pure lui, l'artista orgoglioso, aveva tante volte sfidato in vita, fino a bestemmiare la propria impotenza davanti a quel Mosè maestoso e implacabile di San Pietro in Vincoli... uno scalpello per dire l'ultima parola di una vita lunga novant'anni e mille pene, trionfi e rovine, luce abbagliante e terribile tenebra, amori dannati e dubbi sublimi, grandezza e caducità del granello di senapa, falsità delle parole e estasi del pensiero che le supera in volo...

"Non c'è nulla da sistemare. Nulla. Neppure se n'avessi il tempo."
"Ma Maestro, con l'aiuto di Dio e di Nostro Signore domattina starete di certo meglio e più riposato vi rimetterete all'opera vostra..."

"Giunto è già 'l corso della vita mia
con tempestoso mar su fragil barca
al comun porto, ov'a render si varca
conto e ragion d'ogni opra trista e pia..."

Tiberio non udì mai quelle parole.


"e così che a dì 17 di febraio, l'anno 1563 a ore 23 a uso fiorentino, che al romano sarebbe 1564, spirò per irsene a miglior vita"
Giorgio Vasari: Vita di Michelagnolo Buonarruoti
(da Le vite dei più eccellenti pittori, scultori e architetti)


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