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Interno nebbia |
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Più tardi, nella notte, la nebbia
si sarebbe infittita a muro, ma a quell'ora di fine pomeriggio era ancora
una filigrana di goccioline perlacee che la luce dei fanali accendeva
e sfumava, e ne rimandava alle finestre una luminosità con qualcosa
di morbido e dorato. "I miei cercarono una sistemazione
più comoda, più dentro la civiltà, quella dei condomini
con tanto di atrio a vetri e ascensore e portierato. Così andammo
a stare in un appartamentone da gran signori, da attori del cinema: smisurato,
con terrazza rovente tutt'intorno e servetta con crestina sommamente inefficiente
paragonata all'altra, sebbene molto più decorativa. Anzi, solo
quello. Lì in compenso di rumori se ne sentivano anche troppi.
Di continuo. Quella di sopra era una povera pazza che suonava il piano;
di sotto stava un piccolo diplomatico sudamericano che litigava ogni notte
in spagnolo con la moglie e la serva. Faceva scenate di gelosia a entrambe.
Lo sapevano tutti che il loro era un ménage à trois,
se sai cosa voglio dire". "I miei nascevano bene, da famiglie di una volta, famiglie benestanti con solide radici nell'ottocento vicino alla corte sabauda, per dirti, e con avi possidenti o capitani di industria. Ma anche quando i tempi erano cambiati avevano conservato atteggiamenti non solo mentali alquanto scaduti e controproducenti, come prima di tutto una cieca disinvoltura nei confronti del denaro e una anacronistica arroganza nei confronti dei domestici. La mancanza di realismo dell'uno, sommandosi a quella dell'altra, dava una somma esponenzialmente amplificata, e loro mai se ne avvidero. Io credo che mi salvai un po' senza nemmeno programmarlo: finito il liceo me ne andai a studiare fuori di casa, non so se te l'ho mai raccontato, da parenti trapiantati in Francia. A Parigi. Frequentavo la Sorbona insieme a due cugini studiosissimi, fratello e sorella, che godevano universale ammirazione e fiducia in tutti i rami della famiglia ma che poi, a quel che so, una volta conseguiti tutti i titoli accademici possibili e immaginabili presso le migliori sedi universitarie, non è che li abbiano messi a frutto in modo così altrettanto prestigioso. Diciamo che per loro, e per i loro genitori e miei zii, fu come aver raccolto uno scintillante bottino per poi limitarsi a incorniciarlo, o richiuderlo in un baule ornato di alloro e viverci sopra di rendita, passando ad altro, a cose più realistiche. Mio cugino è stato, come massimo di carriera, preside in un liceo di provincia; lei invece si è sposata e ha letteralmente mollato tutto per dedicarsi solo a pavimenti incerati e figli educatissimi. Cosa che peraltro, se si escludono i pavimenti a cera e i figli al plurale, ho fatto anche io. Ma nel mio caso perlomeno non ho buttato al vento fior di diplomi, dal momento che non sono mai arrivata alla laurea. Mi iscrivevo nel più esaltante disordine a corsi svariatissimi e anche spesso in contrapposizione tra loro solo perché mi interessavano incommensurabilmente più di quelli obbligatori, e intanto conoscevo un sacco di gente, persone arrivate a Parigi si può dire da tutto il mondo, incontri interessantissimi, esperienze magari fuori tema ma inestimabilmente efficaci. Io dico sempre che a Parigi si è realizzata veramente la mia educazione, e bada che non parlo di quella tradizionale o scolastica. Le cose che ho imparato in quei tre anni erano di tutt'altro genere e spessore di tutte le nozioni che nel frattempo apprendevano i miei coetanei più convenzionalmente allineati. Le letture; le discussioni; il teatro; tutta una serie di stimoli - e ripeto e ammetto: disordinati, ma di un disordine fertile - che mi hanno aperto la mente verso un concetto e una fruizione della cultura direi totali. Mi hanno cambiato e orientato la vita". Si fermò qualche istante, pensosa dentro immagini private di quei tempi che riaccarezzava con una specie di nostalgico orgoglio, quasi pentita di non aver saputo trattenere una rievocazione troppo sacra per essere sbandierata con leggerezza a un uditorio così poco all'altezza. Ma la sera scendeva troppo piano, il tempo da riempire prima di lasciarsi in-carcerare dalla notte non passava mai, e parlare continuava a essere il modo meno doloroso per tenere lontani gli spettri, una volta evocati. "Poi ci si è messa la guerra a scombinare tutto, e me ne sono tornata di corsa a casa appena in tempo - si può dire - per sorbirmela tutta. Anche allora, solita storia: scendo dal treno e mio papà mi viene incontro, ma stavolta mi porta in una strada mai vista prima, e quando ci fermiamo e guardo in su vedo per la prima volta la casa dove i miei avevano traslocato mesi prima senza neanche dirmelo. Era così naturale, per la mia famiglia, da non meritare nemmeno di parlarne. Non ti dico Dorina in quante case diverse ho abitato prima di questa qua di adesso. Di solito ci restavamo in media tre o quattro anni, non di più. Un sistema, tra l'altro, piuttosto collaudato per gettare soldi dalla finestra. Abbiamo girato tanto, provato un po' tutti i tipi diversi di case, dalla città alla campagna, la villa, il condominio, il quartiere anonimo e quello chic. Si traslocava di qua e di là secondo gli improvvisi umori di mio padre o i suoi litigi con mia madre, e a volte anche senza nessuno di questi motivi né nessun altro motivo plausibile. Il preavviso di un trasloco imminente ci veniva dall'immagine di mia madre che si calava nel ruolo anche fisicamente: i capelli dentro un fazzoletto e le maniche rimboccate al gomito, cominciava a girare per casa con un notes in una mano e un metro da falegname nell'altra. Apriva armadi, misurava, sospirava, prendeva appunti. Gli armadi erano la sua croce: non avevano mai le misure giuste, e a ogni casa nuova toccava comprare nuovi anche quelli; i vecchi finivano regalati o a pezzi in qualche caminetto, oppure smembrati e accatastati in cantine e soffitte per poi tornare alla luce come una palla al piede al prossimo trasloco. Si cambiava così, per noia o per urgenza, comunque sempre per via di una certa instabilità d'animo che deve essere proprio un tratto familiare, dato che ne soffro anche io da tutta la vita. Quando ho cominciato a vivere per conto mio, ho cominciato anche la mia personale collezione di case, e ho continuato dopo il matrimonio, trascinando mio marito, pover'uomo, in tutta una serie di trasferimenti, o diciamo pure fughe. Lui lasciava fare perché in fondo facevo tutto io: ero diventata un'esperta di traslochi, ero in grado di vuotare un appartamento e arredarne completamente un altro nel giro di una settimana col minimo disagio per la famiglia. Si entrava in casa nuova la mattina, e la sera stessa si andava a letto stanchi morti ma in stanze con i soprammobili già al loro posto, i quadri appesi, i vestiti in ordine negli armadi. Tutta questione, ti dirò - aggiunse quasi a schermirsi - di programmazione". Dietro i vetri il buio aveva assunto un
altro spessore; ora le faville dei lampioni si andavano spegnendo entro
la coltre di una nebbia più densa e vincente che allontanava anche
i pochi e ovattati rumori della strada. Una sirena afona attraversò
a fatica quella nebbia, richiamo di un rimorchiatore che annunciava l'arrivo
o forse chiedeva l'indicazione dell'approdo. Caterina ogni volta si rallegrava
che almeno la sua finestra fosse accesa, quasi che la piccola luce fosse
utile a guidarlo verso la salvezza. "Piuttosto, Dorina - attaccò - guarda che ti sei fatta imbrogliare un'altra volta dall'ortolano: le patate erano verdi, e non riesco proprio a capire come non te ne sia accorta. Dalle tue parti è pieno di campi di patate, ci sono patate dappertutto, anche tu coltivavi patate prima di venire in Italia. No, non capisco proprio. Io il paese tuo me lo immagino tutto a campi di patate, e casolari e mucche e contadini con gli aratri a mano; la mia sarà anche un'iconografia stereotipata, forse mi rifaccio con un po' troppa disinvoltura a modelli obsoleti di un certo tipo di comunismo divulgato qua in occidente, ma non credo di essere troppo lontana almeno dalla realtà del tuo paesello, della tua famiglia. Non credo perché qualcosa, il minimo, me lo devi aver raccontato tu stessa". Di nuovo si era lasciata prendere dai suoi
monologhi slegati. Non era sua intenzione né umiliare né
ossessionare, eppure le capitava spesso di accorgersi troppo tardi di
averlo fatto. Dorina, dalla penombra in cui si muoveva, alzò lo
sguardo e le fece grazia di un'espressione appena interrogativa, ma di
una curiosità subito messa da parte con indifferenza. "Anch'io, sai, da giovane ero inesperta, non sapevo niente. Le patate, non solo non sapevo sceglierle ma neanche pelarle, cucinarle. Quando mi sono sposata, subito dopo la guerra, non avevo la minima idea di come si conducesse una casa; in cucina non avevo mai messo piede; ero stata abituata a trovare sempre tutto fatto da altri, e a vedere mia madre svolgere un compito di padrona di casa che consisteva solo nel dare disposizioni vaghe a qualche cameriera e subito dopo disinteressarsene. Ero tornata da Parigi con un'idea molto diversa, che trovava immorale sfruttare dei rappresentanti di classi sociali più deboli ai fini di coltivare il proprio ozio, cosicché all'inizio rifiutavo per principio qualsiasi aiuto domestico benché, tanto per cambiare, mio marito mi avesse condotta a vivere in una ca-sa grande e fittamente arredata. Ma giorno dopo giorno vedevo che ne soccombevo, completamente in balia della mia impreparazione. Ai fornelli, dopo uno slancio di euforia, mi prendeva il panico del vuoto, il vuoto delle mie conoscenze culinarie, che era un vuoto pressoché assoluto. Mia madre, invece di venirmi in aiuto, si era giusto in quel periodo infatuata insieme a mio padre di un rivoluzionario progetto, quello di - per la prima volta - disegnare e far costruire la casa dei loro sogni (sogni che, inutile ignorarlo, ciascuno dei due aveva sempre coltivato sostanzialmente diversi) invece di traslocare un'ennesima volta in una casa già abitata da altri, già vissuta da altri prima di loro. Una casa che avrebbe dovuto rispecchiare tutte le infinite esigenze e infiniti capricci accumulati in tutta la loro vita, quasi che, col trascorrere del tempo e l'assottigliarsi della cerchia familiare, questi e quelle, anziché ridursi, fossero aumentati e divenuti ormai quasi un'emergenza. Cominciarono a stendere progetti e elenchi e a consultare architetti e geometri; si riempivano di rotoli, mappe, piantine, calcoli, planimetrie, bozzetti, un marasma euforico senza capo né coda. E la cosa, la giostra, andò avanti per anni, passando per la scelta tormentatissima del terreno, le trattative per l'acquisto (secondo chiunque, condotte in modo suicida e concluse con un contratto in odore di truffa di cui invece andavano orgogliosi come se l'affare lo avessero fatto loro) e poi tutta una serie di maneggi, contatti, colpi di testa, idee luminose e impraticabili, rettifiche altrettanto burrascose, un passo avanti e dieci indietro, a momenti tutto pareva concluso e un momento dopo tutto andava a rotoli e si imponevano nuove modifiche, si cambiava architetto, si ricusava l'impresa ancora prima che la prima ruspa avesse piantato i denti nel terreno per la fondazione, tutto sempre sul filo della tensione emotiva più intensa quanto inconcludente, in balia di un'immaginazione più irresponsabile che velleitaria". Netto e rugginoso, dalla strada venne il
gracchio di una serranda metallica. Entrambe le donne alzarono la testa
verso la finestra prima e poi verso l'orologio sul cassettone, che confermava
e batteva le sette di sera. Caterina cacciò rapidamente il pensiero
prima ancora che Dorina, la quale aveva una sua puntualità negli
automatismi, formulasse la domanda che era di rito ogni sera a quell'ora,
e disse senz'altro: "Lo zabaione, me lo ha insegnato quella
formidabile tiranna di mia suocera. Donna Aurelia, discendente di militari
molto ma molto gallonati nonché vedova di uno di essi. Di lei si
diceva sarcasticamente che si credesse dotata dell'infallibilità
di un papa, ma io ero tra quelli, e non pochi, che conoscendola avevano
dovuto ammettere che, se pretendeva di avere sempre ragione, era perché
in realtà l'aveva. Mai fatto uno sbaglio, mai perso un colpo. Le
cose che metteva in piedi, o che si metteva in testa di fare, le portava
a termine, e lo faceva esattamente come aveva decretato e previsto. Se
si imponeva agli altri, è perché sapeva farlo. Sapersi imporre
è una dote, e lei l'aveva. Io ammiravo questo in lei, anche quando
un po' mi urtava la sua presenza ingombrante: ammiravo la personalità,
e ammiravo la coerenza. Strumenti che a me difettavano, e che intuivo
necessari, auspicabili. Quel ricordo ancora la faceva sorridere. Avrebbe voluto spiegare anche a Dorina che la sua ammirazione per quella donna terribile ma efficiente aveva resistito a tutto, anche a un certo numero di non piccole incomprensioni; la sua mansueta sudditanza nei confronti dell'altra era stata tale che fino alla fine, sul letto di morte - ineccepibile anch'esso, il letto, e ineccepibile del resto la sua morte stessa - mai si era sognata di rivolgerlesi in altro modo che dandole del lei e chiamandola Signora. A questa persistenza di rispetto non po-teva essere estranea una quota di mai confessato affetto, pensava Caterina; ma lo pensava solo da qualche tempo, dopo essere diventata vecchia a sua volta e forse, ma molto più pallidamente, un po' tiranna anche lei. "Anche la nascita di mio figlio - riprese con un piccolo sbuffo di riso - si può dire che l'ha programmata lei. Lo fece quando le sembrò che fossi uscita dal tirocinio. Come se avesse appurato un dato di fatto matematico, mi annunciò "Adesso sei pronta per un figlio"; così, laconica e diretta, assolutamente non volgare. Era il suo stile. Io, che onestamente non mi ero sentita mai visceralmente portata né per il ruolo di padrona di casa né per quello di madre, non avevo tuttavia mai neanche escluso la possibilità di un figlio, ma era un'evenienza che collocavo in un futuro ancora rinviabile. Forse inconsciamente aspettavo una spinta dall'esterno, e si può dire che lei me la diede dall'alto, mi decretò idonea. Il suo mi suonò come un placet, ed ebbe in effetti l'esito desiderato: nacque Francesco. E io, da quel momento, seppi di essere uscita dal bozzolo". Un altro ricordo la faceva sorridere, e lo ripescò al volo prima di perderne l'effetto nel groviglio del discorso che si andava prolungando oltre il suo controllo: quello del cantiere fallito, mai finito - anzi, mai aperto -, della casa perfetta che i suoi avevano sognato e disegnato nei minimi e più stravaganti particolari fino a farne un faraonico labirinto di uto-pie sempre più implausibili e traballanti. "... utopie e stravaganze che avevano avuto di volta in volta, e alternativamente o a cicli ricorrenti, l'aspetto di loggiati, bovindi, abbaini, torrette ardite, aggiunte di ali di servizio dalla destinazione tutta da definirsi, su pagine e pagine di continue modifiche, ora ampliamenti ora ridimensionamenti, spesso gaiamente in barba a elementari regole di geo-metria o staticità, comunque sempre e ancora più spensieratamente a dispetto di ogni minimamente realistico limite di spesa. Budget, si direbbe oggi. Avevano finito per trovarsi a un tal punto di sovrapposizioni e ingarbugliamenti, e insomma di inestricabile confusione, che per un po' avevano deciso di staccare la spina e lasciar decantare quel po po' di calderone ribollente, anche perché architetti e impresari a cui avevano fatto girare la testa si erano tutti prima o dopo spazientiti e eclissati. I bollori appunto si erano poco per volta sopiti, era sopraggiunto un riposantissimo oblio; e quando, a distanza ormai di diversi mesi, erano tornati, ancora con tutte le loro idee vaganti e incerte, a riguardarsi il terreno per vedere di riordinare i fili, lo avevano trovato brullo e depresso, quasi rimpicciolito, assediato tutt'intorno da una selva di palizzate oltre le quali altri più determinati di loro avevano avviato costruzioni intensive e vistosamente speculative, il cui primo e già evidentissimo effetto consisteva nell'aver privato il povero lotto inutilizzato di gran parte della luce diretta del sole e della totalità del panorama originario". Mio Dio, rifletté improvvisamente,
utopie, oblio, speculative... sto usando termini impossibili. E prima
cos'è che avevo detto? Ah sì, iconografia, addirittura.
La gente normale non parla così, non almeno nel suo salottino privato,
in vestaglia e pantofole, e rivolgendosi a una badante slava scarsamente
alfabetizzata. Non posso che recriminare con me stessa se Dorina non mi
segue: è colpa mia, mi sto rendendo una volta di più inafferrabile. "Per mio marito ho tenuto case a specchio, perfette per la sua immagine. Posso dire senz'altro di aver contribuito alla sua scalata al successo allestendogli sempre le case giuste, presentabili, ineccepibili. Non nascondo che usavo questo obiettivo un po' come scusa per assecondare quello che era invece, sotto sotto, un mio congenito bisogno, una esigenza potrei dire, di continuo cambiamento, di continuo stravolgimento in cerca di emozioni forti. Lui, soprattutto nel periodo della politica e quindi di maggiore visibilità, amava porsi come personaggio indipendente e perciò fuori dai clichés ricorrenti; aveva scelto in realtà un altro cliché, per nulla originale neanch'esso, quello dell'uomo estraneo alla mischia e alla pubblicità, equilibrato, realista; e perciò invitava a casa i giornalisti che volevano intervistarlo e si faceva trovare nel suo ambiente domestico, ossia nel suo studio o nel salotto coi bei quadri di famiglia o spesso anche in giardino, dove rispondeva alle domande passeggiando con cinematografica serenità sotto pergolati o tra rosai. Anche per le foto sulla quarta di copertina dei suoi saggi di economia pretendeva suoi ritratti alla scrivania di casa, con libreria oppure caminetto sullo sfondo. E stava a me fare in modo che ogni particolare di quella cornice avesse sempre il tono giusto e più favorevole. Abbiamo sempre avuto case scelte in base a criteri scenografici; case che manifestassero ai visitatori uno stile di vita improntato a una raffinatezza sobria, a una confortevolezza esente da pompe. L'immagine di sé che mio marito voleva trasmettere era quella di un benessere non immeritato ma ottenuto con il lavoro, e si spendeva molto nel tentare di far dimenticare che le sue origini benestanti e ottimamente ammanigliate erano state invece determinanti nel raggiungere la posizione che occupava". Dorina era sparita nella penombra di un angolo; non sapendo più cos'altro rassettare, si era ritirata su uno sgabello imbottito, e lì sgrovigliava e lisciava una a una le impalpabili frange di una tovaglietta sopra la toilette. La signora l'aveva vista con la coda dell'occhio, e ora evitava di tornare a guardarla, tenendo per sé lo scoramento che le procurava tanto inutile zelo. "In questo quadro ovviamente non andava trascurato il posto che occupavo io in quanto Moglie di Grand'Uomo. Avevo già fatto la mia parte, si può dire, mettendo al mondo un figlio - e maschio, per di più - che veniva opportunamente a completare il ritratto di famiglia, ma, anche perché pareva che altri figli non volessero arrivare, questo non poteva ba-stare. Mi inventai una professione che tale non era: mi misi a occuparmi di un campo che in realtà non aveva un nome né confini ben precisi, ma che si potrebbe ben definire quello delle relazioni, in senso più che lato, onnicomprensivo. Che poi, si sa, è l'ambito tipico in cui le Mogli dei Grandi Uomini meglio esprimono il loro ruolo pubblico. Io, intendiamoci, lo facevo più che altro per svagarmi da una vita che comportava le sue belle noie e ripetitività; e anche perché mano a mano vedevo che mi veniva bene, che i miei risultati erano apprezzati e riuscivano determinanti. Mi occupavo dei retroscena di congressi e manifestazioni, dei quali organizzavo soprattutto gli aspetti alberghieri a beneficio degli ospiti di riguardo che venivano da tutto il mondo. Mi aiutavano molto la conoscenza di tre lingue e gli antichi e molteplici agganci familiari con gli ambienti adatti. Individuavo le collocazioni più opportune per i conferenzieri, presso i migliori alberghi o anche in prestigiose dimore del patriziato, e poi concertavo tempi e modi dei vari banchetti e riunioni conviviali, e con ciò intendo proprio la redazione dei menu, l'allestimento degli addobbi, la distribuzione dei posti a tavola. Di più ancora mi piaceva organizzare i servizi culturali, a cominciare da quelli di interpretariato e di proiezione di filmati; più volte sono stata io stessa traduttrice simultanea in cabina, e vi andavo già in abito da cocktail o da sera per essere pronta, una volta chiusa la conferenza, a raggiungere gli invitati nel salone da me predisposto e unirmi ai rinfreschi di cui, senza darlo a vedere, tenevo costantemente d'occhio l'andamento. Fungevo, si potrebbe dire, da padrona di casa, mettendo in pratica su larga scala l'esperienza che mi ero fatta imbastendo incontri mondani e piccoli pranzi ele-ganti in casa mia per propiziare la carriera di mio marito. Avevo dalla mia, oltre a una certa capacità organizzativa, anche la fluidità nei rapporti inter-linguistici, e - diciamo pure - un nome, un aspetto e una presentabilità all'altezza. Bisogna pensare che non disponevo di titoli specifici, né accademici né professionali né altro: dietro ogni mia riuscita c'erano solo doti naturali e impegno da autodidatta. Oggi non sarebbe più possibile. Oggi quel mondo lì è in mano a agenzie ferratissime e collaudatissime che dispongono di personale variamente specializzato e organizzano al computer tutto ciò che io coordinavo al telefono o con iniziative personali e spesso improvvisate, fortemente creative". Le venne, così, per caso e con tenerezza, da guardarsi le mani in grembo, tormentate da grosse vene e qualche deformità malgrado la passata bellezza che ancora rivelavano, con unghie diafane e delicate e i calmi bagliori degli anelli antichi. Di tutte le cose che quelle mani avevano fatto, le sarebbe piaciuto fossero ricordati i gesti dell'affetto, le carezze. "Mio figlio non è mai stato
né autodidatta né creativo. Dicono che i figli maschi somiglino
alle madri: beh non è stato il nostro caso. Mio figlio ha preso
tutto da suo padre e dalla famiglia di suo padre: precisione, ponderatezza,
ripudio della fantasia. Lo posso dire a voce alta, tanto non l'ho mai
nascosto: mi annoiava fin da piccolo, figuriamoci da grande. Per carità,
si può amare un figlio anche trovandolo noioso; purtuttavia sarebbe
preferibile amarlo anche perché lo si trova... simpatico, ecco,
la parola giusta è simpatico. Se Dorina conoscesse un po' meglio l'italiano, io dico che dovrebbe inorridire per quello che le racconto - si disse, scontenta - Invece guardala là, io sono qui che apparentemente sto denigrando mio figlio, carne della mia carne, e lei neanche si scompone. Sorda e muta. Devo ricordarmi che in fondo la sua mancanza di curiosità è un vantaggio non da poco: se fosse una pettegola, chissà quanto sparlerebbe di me, come racconterebbe le mie confidenze quando lei e le altre badanti si incontrano il pomeriggio di libertà. Le ho viste, hanno un loro angolo preferito ai giardini, si siedono in cerchio sulle panchine con accanto grosse borse di plastica piene di chissà che, e stanno lì tutte a parlottare fitto, di noi, dei padroni, delle nostre paranoie, di come viziamo i figli e trascuriamo i vecchi. O forse invece parlano dei loro mariti lontani, dei loro bambini rimasti con i nonni, del loro paese impantanato in un perenne dopoguerra, e di quanto costa il biglietto per tornare. "Nel periodo in cui mio marito raggiungeva
il culmine della sua carriera, avevamo da poco traslocato in una casa
che aveva tutto ma proprio tutto per essere definita 'di rappresentanza'.
Era una villa dei primi anni '30 ottimamente restaurata (ricordo ancora
l'odore di vernice fresca), molto spaziosa e piena di finestre, con viale
a carpini e una dépendance nel parco. I primi tempi demmo diverse
cene ristrette a carattere inaugurale, e data la stagione alcune si svolsero
all'aperto, su una terrazza che amavo illuminare con lanterne giapponesi
- autentiche, ci tengo a dire. Una sera eravamo tutti lì, attorno
a una tavola perfetta adorna di cibi altrettanto perfetti e argenteria
e fiori di gusto inappuntabile: gli ospiti erano i più raccomandati
esponenti di certo ambiente che contava molto in città e nel Paese,
e non solo; nostro figlio, ormai quindicenne e ammesso già da qualche
tempo a queste serate, brillava per il suo comportamento adulto e compassato;
il mio vestito era semplicemente impeccabile; e mio marito, a capotavola
di fronte a me, interpretava con consumata naturalezza il ruolo di anfitrione
squisito e pacato, dissimulando sotto una affabile modestia il proprio
auto-compiacimento. Tutto funzionava a meraviglia, la serata avrebbe lasciato
in ognuno dei partecipanti un ricordo di appagamento e raffinatezza. Io
d'improvviso guardai mio marito, le sue mani, la delicatezza nel sollevare
un bicchiere e portarselo alle labbra, l'eleganza con la quale sorbiva
un piccolo sorso, lo sguardo amabile che non trascurava mai di volgere
intorno, e in quel momento ebbi la rivelazione che quell'uomo mi era diventato
totalmente estraneo. Da qualche parte della grande casa, o forse in un altro appartamento della palazzina, una pendola batté le ore così lentamente da far supporre che fosse il momento di ricaricarla. A meno che non fosse il tempo stesso ad aver rallentato; può succedere, si disse trasognata, in serate di nebbia come questa. "Quando morì mio marito, molti mi consigliarono distrazioni, tra le quali l'idea di un bel viaggio era la più condivisa; si parlò di Parigi oppure Boston, dove avevo conservato lontanissime amicizie. Io invece risolvetti al solito modo: con un trasloco. Questa casa qua era l'ideale: quando la scelsi, era in cattive condizioni, scrostata e odorosa di muffa. Si prestava perfettamente all'attuazione di quello che metaforicamente passa per "dare una bella mano di bianco", che poi significa azzerare e ricominciare, ossia proprio quello che mi serviva. Mio figlio mi mandò un suo amico architetto, il quale, fra i vari suggerimenti inutili, mi prospettò di installare un piccolo ascensore privato, un ascensorino diceva, ma io ribattei 'Macché macché, quando sarò vecchia un po' di scale non potranno che far bene alle mie gambe!' - e, ridacchiando, afferrò il bastone appoggiato al bracciolo e lo picchiò leggermente due o tre volte sul pavimento. Dorina alzò la testa e le lanciò uno sguardo interrogativo, e la signora ebbe per un attimo la soddisfazione di averla scossa da quel deprimente torpore. Pensò subito di approfittarne per tenerla vigile, e le si rivolse direttamente: "Ah senti, Dorina, volevo dirti. Tra un po' è facile che telefoni mio figlio Francesco, o magari, anche peggio, la Barbara, mia nuora. Mi farai il piacere di rispondere tu, va bene? Vorranno sapere le solite cose: come sto, se ho mangiato, se ho dormito, se ho preso le pillole e compagnia bella. Parlaci tu, digli di sì, che sto bene eccetera. Digli che sono già a letto e che ci sentiamo domani. Perché io, a dirla tutta, stasera non ho tanta voglia di parlare con loro, queste telefonate sempre uguali mi annoiano. Tutt'altro discorso - aggiunse con improvviso brio - se mi chiamasse mio nipote Benny. Ecco, se chiama lui me lo devi passare subito. Io mio nipote Benny lo sento sempre volentieri, è il mio nipote preferito; Benny mi diverte, mi interessa, mi racconta sempre il genere di cose che mi piacciono. Ragazzo in gamba, in gambissima - rifletté a voce alta - il miglior carattere di tutta la famiglia, sempre così pieno di vita, di soluzioni positive, di progetti. Così fin da piccolo. Allegro, gaio. E indipendente, del tutto privo di tutte quelle paure infantili, di quelle suggestioni che invece tanti genitori ritengono educativo favorire. Non so proprio a chi somigli. Certo non ai suoi genitori, così prevedibili, così formali tutti e due. Somiglia più a me e infatti andiamo d'accordissimo. In casa, tanto per dire, insistono a chiamarlo Beniamino, per esteso, quando lui per tutti, per gli amici e per me, è molto più schiettamente e comodamente Benny. La sua fortuna probabilmente è stata la nascita delle gemelle. Per Benny, la nascita delle gemelle è stata come per me il mio primo viaggio da sola: l'occasione per emanciparsi. Le gemelle hanno monopolizzato tutto il tempo e tutto l'interesse di sua madre e suo padre, e così lui è riuscito a venir fuori, a tirar fuori la sua personalità. Si potrebbe dire che ha completato il suo percorso di crescita da solo, e in modo molto più veloce e efficace. E' diventato uno che sa arrangiarsi, uno che ha imparato a combinarsi una sua vita piena, animata, molto libera e costruttiva. Adesso per esempio ha scoperto la fotografia, ma prima si è occupato di molti altri interessi: quando un argomento lo colpisce, lui parte a informarsi, si cimenta, e non è contento finché non ne è venuto a capo del tutto. Da grande potrà fare qualunque cosa, e la farà benissimo. Basta vedere a scuola: diresti che non studia abbastanza, dato che è sempre in giro con i suoi affari, il teatro, la musica, l'informatica, lo sport, invece non c'è materia in cui non riesca. Gli piace sapere, questa è la sua dote migliore. E rarissima, devo dire. Quando viene da me mi porta sempre dei trofei, l'ultima volta dei dischi ottimi di musica tribale africana, oppure ritagli di giornali stranieri che dicono cose interessantissime, inimmaginabili. Mi piace averlo tra i piedi perché è come interloquire con uno alla pari, anzi alle volte è lui che dirige, è lui che ne sa più di me. Ah, non c'è da annoiarsi di sicuro, con uno così. Quest'anno prende la maturità, e ne uscirà benissimo, ne sono certa, e poi dopo ho deciso di finanziargli un semestre sabbatico - o forse anche un anno intero - in America, perché possa vedere il mondo e riflettere meglio su cosa fare all'università. I suoi non la vedono tanto bene, ma non potranno opporsi dato che ormai è maggiorenne e i soldi li metto io. Ho ancora amicizie e appoggi sia a Boston che sulla costa ovest, figli o nipoti di persone conosciute ai tempi della Sorbona con i quali ho mantenuto corrispondenze. Con un buon indirizzo di partenza e la giusta disponibilità di denaro, uno come Benny potrà fare quello che vuole, in America: anche al limite trovarsi un lavoro e fermarsi là". Non faticava a immaginarselo, il diciottenne intraprendente, fra grattacieli, superstrade, supertecnologia; avrebbe portato con sé la millenaria fantasia europea e l'avrebbe in tutta naturalezza ed efficacia integrata al pragmatismo del Nuovo Mondo. Sarebbe stato l'Uomo Giusto al Posto Giusto, nulla sarebbe riuscito impossibile a quell'emigrante di presti-gio. Già si preparava mentalmente al viaggio transatlantico col quale sarebbe andata, bastone e pillole e tutto, a trovarlo, la sua prima volta in America alla corte del nipote prediletto. Ufficio di cristallo, probabilmente; e casa con terrazza sull'Oceano. Benny riuscirà là dove non è veramente riuscito né suo padre né suo nonno, salirà più in alto; soprattutto, sarà infinitamente più felice, si diceva, e le pareva che questo potesse ormai essere l'obiettivo più fermo, e l'ultimo, della sua vita. "L'ultimo mio trasloco risale dunque a quindici anni fa. Sono tanti. In nessun altro posto mi sono trattenuta così a lungo come in questa casa, e questa casa, fra tutte le case della mia vita, non è nemmeno la più bella. Anzi, né la più bella né la più grande; e tuttavia è forse quella in cui ho trovato meno difetti, quella che più di tutte ho sistemato a mia mi-sura. Ultimamente però mi capita sempre più spesso di pensare che anche questa sistemazione ha fatto il suo tempo, e che sarebbe ora di cambiare, rimettermi in movimento. Quando un posto ha smesso di sembrarmi nuovo e promettente, quando ne conosco fin nell'ultimo granello di polvere ogni angolo e in tutte le stagioni, per me è ora di cambiare. Mi guardo attorno, ripasso gli schemi delle mie giornate, e vedo sempre più vicino lo spettro della noia, dell'assuefazione. Eppure ancora non mi decido. C'è una parte di me, quella che probabilmente non è mai cresciuta, che è convinta che da qualche parte esista il posto giusto per me, e mi dice che non ho ancora finito di cercarlo; al contrario, l'altra metà di me, quella che invece è invecchiata, comincerebbe a non crederci più tanto, a questa bella storia della terra promessa, del posto ideale. Così intanto i giorni e i mesi passano, lenti come il bastone di cui ho scoperto di non poter più fare a meno per camminare, e che mi ricorda che quel posto stupendo, perfetto, sarebbe ben difficile da raggiungere, al ritmo attuale dei miei passi. Sono divisa tra cocciutaggine e fatalismo: bisognerà vedere chi la spunta". Questa considerazione, che per la prima volta esprimeva a voce alta, le suonò come un epilogo. Da lì sarebbe dovuto cominciare un futuro, sempre che fosse possibile concepirne uno alla sua età. Avrebbe forse dovuto cominciare a dare meno peso a quella parola, fino a toglierla del tutto dal suo vocabolario. Il passato invece era tutto lì, fra le vene delle sue mani, e dentro fotografie, lettere, oggetti e tutta quella infinità di troppo lucidi ricordi che con un niente riaffioravano. Restava il presente, e quello - ormai era chiaro - esigeva piuttosto la massima cura. "Ad ogni modo - esordì. Poi si fermò, incerta, e poi
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