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Il bibliotecario

P.Cézanne - Ritratto di Victor Choquet, 1875

Eugenio faceva il bibliotecario.
Aveva tutto del bibliotecario, la pelle grigiastra, le mani secche e delicate, le spalle leggermente ingobbite, il gilet di lanetta sottile estate e inverno, perché era stato malato da piccolo. Nessuno ricordava più la sua età, così non potevano neanche decidersi a mandarlo in pensione. E poi faceva comodo : era puntuale, ordinato, riservato, non chiedeva mai ferie né permessi, non si lamentava di nulla, non si faceva mai sentire. Gli avevano affiancato per qualche ora la settimana un obiettore di coscienza, che aveva fulmineamente provveduto a informatizzare l'archivio e tutti i dati degli utenti, dopodiché non avendo altro da fare passava le ore del suo servizio civile a chattare con certi amici invisibili, risparmiando così ad entrambi la pena di cercare qualche argomento di conversazione. Eugenio continuava il suo lavoro di sempre, con la penna e i registri di carta, bei quadernoni Pigna dove la pelikanina scorreva lieta e operosa seguendo una grafia da segretario comunale, quasi da monaco cistercense. Si ostinava a registrare a mano le entrate e le uscite, anche se dopo interveniva spietatamente il ragazzo e faceva ingoiare al computer nomi, cognomi, personalità, richieste e sogni, soddisfatti o meno, di quanti chiedevano di entrare in quel mondo di libri. In pratica, tenevano due contabilità. Che poi coincidessero, era per Eugenio un puro caso, la dimostrazione che una macchina - per essere precisa - doveva essere impostata da un uomo preciso. Beh, lui lo era. Sul suo tavolo aveva una serie di matite e penne ben assortite e perfettamente funzionanti, nella sua testa custodiva una memoria fotografica per nulla disprezzabile, che gli consentiva di trovare il posto di un libro su uno scaffale a occhi chiusi. Sul tavolo del ragazzo invece mai una penna. Mai. Non scriveva, digitava.

La sera che venne per la prima volta Irina, il ragazzo non c'era, e siccome lei veniva solo di giovedì, quando c'era l'orario prolungato fino alle dieci, in realtà non si incontrarono mai. Fu Eugenio a prendere nota dei suoi dati, penna e quadernone, lieve sospiro professionale d'apertura :
"Irina? Il cognome scusa non lo leggo bene, cos'è, straniero?"
Origini slave, in Italia con la famiglia da molti anni. Fratellini nati addirittura qua, in piena padania leghista. Padre verosimilmente manovale, lei commessa al nuovo ipermercato. L'indirizzo era quello del quartiere popolare oltre il ponte, dove il paese finiva e i tir prendevano l'arrancante strada per il nord.
"Questa è la scheda. Ogni volta che prendi un libro lo segnerò qua sopra. Lo puoi tenere soltanto un mese, poi lo devi restituire. Oppure chiedi la proroga".
"Grazie, preferisco venire a leggere qua. A casa non c'è mai un po' di pace".
Si metteva nella saletta di lettura, in fondo, dietro l'ultima fila di scaffalature, lasciava per terra una sua borsa floscia di camoscio spelacchiato e stava lì a leggere tenace e assorta rigirando una ciocca di capelli attorno a un dito. Li aveva lunghi e scuri, con la riga in mezzo, dritti come code di topo. Era insignificante, carnagione olivastra, viso asimmetrico con la bocca sempre un po' increspata di imbarazzo, aspetto informe di chi non bada a quello che indossa. Aveva detto ventidue anni, ma Eugenio non avrebbe saputo giudicare. La vedeva arrivare, salutava timidamente e si ritirava subito nel suo angolo. Il giovedì c'erano anche i ragazzini della saletta Internet che andavano e venivano in un ronzio operoso interrotto da rari scoppi di entusiasmo e da qualche mezza imprecazione presto inghiottita. Non era l'orario più tranquillo per concentrarsi su una lettura, ma era evidentemente l'unico che si conciliasse con i ritmi di Irina. Eugenio si abituò a vederla e non la vide più. Sì, è vero, ogni tanto la notava quando se ne andava, perché spesso era tra gli ultimi ad attardarsi. Gli passava davanti al tavolo dandogli la buonanotte sommessamente e lui non alzava quasi lo sguardo per ricambiare il saluto.

Una sera quell'istante coincise con una repentina alzata di tono del brusio degli informatici, che dovevano essersi coalizzati per espugnare qualcosa dentro quella loro scatola di plastica. L'esclamazione di vittoria lo distolse dal suo quaderno proprio mentre la ragazza gli mormorava grazie arrivederci e già gli dava le spalle. C'era qualcuno con lei, un'amica che era evidentemente venuta a prenderla mentre lui era concentrato sulle sue carte. Di spalle, sembrava una vecchietta, con una gonna lunga fino alle caviglie e uno scialle che la copriva largamente. Lo colpirono per un attimo la vista di calze pesanti di lana e di scarpe fuori moda, e quel lembo di stoffa che ricordava i tessuti per materasso, a larghe strisce panna e beige, di cui sembrava fatto il vestito. Mentre la porta si richiudeva dietro di loro, gli parve di cogliere fuggevolmente un profilo pallido e paffuto e dei riccioli biondastri che sfuggivano da un'eccentrica cuffia. Chissà perché la prima impressione era stata diversa. Non era vecchia, era probabilmente un'amica con gusti stravaganti oppure un'altra extracomunitaria che si vestiva con roba usata. Era novembre, e la nebbia le inghiottì appena fuori, un metro oltre il lampione che illuminava l'ingresso della biblioteca e che sembrava appeso al buio della notte.
Un'altra volta passò a prenderla un bel tipo, un gran bel tipo: sempre di giovedì, sempre i ragazzini allucinati davanti allo schermo lampeggiante, e loro due che passavano con lievità e pudore salutando con un cenno del capo prima di sparire fuori, lungo la strada. Era un uomo grande e grosso, forse suo padre, con una gran testa di capelli incolti e la barba raspata in modo assai approssimativo; anche lui aveva dei problemi di guardaroba, e indossava pantaloni ordinari tenuti su con bretelle e un paio di stivali da porcaro. Anche l'odore ricordava un po' le bestie. Però nell'andarsene lasciò ad Eugenio un lievissimo sospetto di sorriso, quasi di scuse per la sua invadenza.
Gli amici di Irina non venivano mai più di una volta. Eugenio li vedeva solo quando uscivano con lei, verso le dieci, e dopo un po' smise di chiedersi che razza di gente frequentasse, perché con gli stranieri non c'era da meravigliarsi. Ormai anche in paese c'erano tipi di tutte le razze e le nazionalità. Forse tra loro si trovavano più a loro agio che con gli indigeni. C'era per esempio quell'ometto basso e grassoccio, ingolfato anche in primavera dentro quell'impermeabile stazzonato, occhialetti da lettore pignolo, sguardo spento da uno strano dolore di vecchia data. Non era certo il tipo mediterraneo. Non parlò, nell'andarsene, anzi sembrava voler passare inosservato, uno su cui non soffermare l'attenzione. Scivolò via con Irina nel tardo crepuscolo di un maggio. A Eugenio lasciò l'impressione che fosse un insegnante. Lo chiese a Irina la settimana dopo, mentre le vistava la scheda.
"Chi, George? No, è solo un amico. Però è vero che a me insegna sempre qualcosa".
Allora quello si chiamava George. L'aveva detto, Eugenio, che era straniero. Chissà gli altri, Avrebbe voluto continuare ma per principio non entrava mai in relazione con i suoi simili, e si rimangiò le domande.
Col caldo, prima delle ferie, comparve quell'improbabile personaggio, una creatura androgina dal viso smagrito di fanciulla e i capelli cortissimi, allampanata in un paio di fuseaux color pervinca e una casacca che la appiattiva ancora di più. Irina se ne andò via con lei (o lui?) prima del solito orario, con l'aria di soffrire un lieve mal di testa, o magari solo un blando senso di fastidio per i rumori di sottofondo che le avevano disturbato la lettura. Aveva comunque delle rughe sulla fronte, come se si stesse interrogando su qualcosa di scomodo, e il suo compagno (o la sua compagna?) non avesse saputo aiutarla a trovare le risposte.
Ne passarono altri, uno in autunno vestito da becchino, in redingote nera e occhi dardeggianti di vendetta repressa; sotto Natale una ragazza mantellata di grisaglia, col pallore di un'orfana e lo sguardo febbricitante nel viso dimesso; era Carnevale quando un principe biondo e triste con le spalle rassegnate se la portò via, ad una festa mascherata di sicuro, anche se non pareva molto felice di andarci.

Ed era di nuovo la bella stagione la sera in cui, al momento di chiudere, Eugenio per la prima volta si accorse che la ragazza non era ancora uscita. I fanatici del computer se n'erano andati da un pezzo sui loro motorini smarmittati, i due pensionati avevano chiuso in patta la loro partita a scacchi, e Irina era rimasta lì in fondo, nel suo angolo, a leggere. Doveva esserle passato via il tempo senza accorgersene. Il bibliotecario si alzò dal suo tavolo, ormai perfettamente rassettato per l'indomani, e cominciò il breve giro della chiusura, tirando giù una dopo l'altra le tapparelle e spegnendo le luci centrali. Nella saletta di lettura era tutto illuminato, c'era ancora l'odore fermo dei tre o quattro lettori di quella sera, c'erano due volumi abbandonati su uno dei tavolini, dimenticati dai soliti disordinati, non certo da Irina che li rimetteva sempre al loro posto con cura. Solo che non c'era lei, non c'era Irina. Non ce n'era traccia.
E' uscita prima e io non me ne sono neanche accorto, si disse Eugenio. Strano però, di solito saluta sempre. E poi mi restituisce la scheda. Non può averlo dimenticato. Una svista mia, di sicuro.
Ma no. No, caspita, c'è qualcosa che non va: quella lì sulla sedia è la sua sacca di pelle scamosciata, semiaperta, buttata là come si fa con le cose inutili... come può averla dimenticata? L'ho vista tante volte estrarne la chiave della bici sulla soglia, e senza chiave non può essere tornata a casa.
La bici. Controlliamo la bici.
Eugenio va fuori, in strada, sotto il lampione dove la bici di Irina sta agganciata con la sua catena tutti i giovedì. E c'è. E' lì al suo posto, lucchetto e tutto.
Lo sapeva, se lo sentiva. Allora, c'è la bici, c'è la borsa... ma Irina dov'è?
La porta dei servizi, lo sgabuzzino in fondo al corridoio, è socchiusa, l'interno è vuoto. E' come se avesse rimesso a posto il libro che stava leggendo e poi fosse svanita.
Il libro che stava leggendo...
Cosa stava leggendo???
La scheda. La scheda, dov'è? Eccola, in ordine alfabetico, eccola qua, due fogli di cartoncino graffettati insieme perché in un anno e passa di libri ne ha letti proprio tanti. Lo sguardo di Eugenio scorre la lista un po' come i ragazzini terribili fanno scivolare i loro velocissimi occhi puntuti su quegli interminabili e tremolanti elenchi di sigle che attraversano il monitor del computer... e fa delle scoperte improvvise, fulminanti eppure così intuitive: autori, testi, narrativa, storia, letteratura di tutti i generi, le epoche, le lingue. André Castelot "Maria Antonietta", Gabriel Garcìa Marquez "Cent'anni di solitudine", John Le Carré "La talpa", Virginia Woolf "Orlando", Alexandre Dumas "Il conte di Montecristo", Charlotte Bronte "Jane Eyre", Shakespeare "Tutto il teatro"... e tanti altri che gli sono sfuggiti, che lui non ha visto uscire dalla biblioteca con lei, per riaccompagnarla a casa, chissà quanti altri si è portata via nelle notti d'inverno, nelle lunghe sere estive, dentro la sacca, dentro il cestino della bici, dentro di sé. La regina Antoinette, il colonnello Aureliano Buendìa, George Smiley, Edmond Dantès, tutti gli altri sfuggiti dalle loro prigioni di carta e di rilegature, liberati a vivere nel mondo della gente reale, più reali ancora.
Febbrilmente Eugenio controlla gli scaffali, saltando da uno all'altro in cerca dei volumi mancanti, ma tanto sa già che non ne manca nessuno, sono tutti al loro posto, allineati in ordine, perché Irina li ha trattati bene, sempre. Non ha il coraggio di aprirli, perché se per fortuna loro sono ancora là potrebbero - stavolta - scappare davvero, e lui non vuole questa responsabilità. Poi si decide, tremando, e socchiude a caso uno dei tanti che sono passati per le mani di Irina : dalle pagine appena spostate esce un aspro odore di salsedine e l'eco di una voce invasata rivolta al cielo da un altro oceano chissà dove: "... che io venga trascinato a pezzi mentre ancora ti caccio, benché sia legato a te, balena maledetta! Così getto la lancia!"

Mio Dio, è Achab, è ancora lì. Sono tutti lì. Tutti, tranne Irina.
La scheda, la scheda presto... Cosa stava leggendo stasera? Perché mi ballano gli occhi? eppure basta guardare l'ultima riga... ecco qua.
Ecco.
Trovata. Ora so dov'è. Non la troveranno mai. Io solo posso trovarla.
Si gira verso lo scaffale, piano, non ha più fretta.
Allunga la mano lentissimamente verso il dorso di un libro, quel libro.
Le sue dita, ora, stanno per toccarlo.


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