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Eugenio faceva il bibliotecario. Aveva tutto del bibliotecario, la pelle grigiastra,
le mani secche e delicate, le spalle leggermente ingobbite, il gilet di lanetta
sottile estate e inverno, perché era stato malato da piccolo. Nessuno ricordava
più la sua età, così non potevano neanche decidersi a mandarlo
in pensione. E poi faceva comodo : era puntuale, ordinato, riservato, non chiedeva
mai ferie né permessi, non si lamentava di nulla, non si faceva mai sentire.
Gli avevano affiancato per qualche ora la settimana un obiettore di coscienza,
che aveva fulmineamente provveduto a informatizzare l'archivio e tutti i
dati degli utenti, dopodiché non avendo altro da fare passava le ore del
suo servizio civile a chattare con certi amici invisibili, risparmiando così
ad entrambi la pena di cercare qualche argomento di conversazione. Eugenio continuava
il suo lavoro di sempre, con la penna e i registri di carta, bei quadernoni Pigna
dove la pelikanina scorreva lieta e operosa seguendo una grafia da segretario
comunale, quasi da monaco cistercense. Si ostinava a registrare a mano le entrate
e le uscite, anche se dopo interveniva spietatamente il ragazzo e faceva ingoiare
al computer nomi, cognomi, personalità, richieste e sogni, soddisfatti
o meno, di quanti chiedevano di entrare in quel mondo di libri. In pratica, tenevano
due contabilità. Che poi coincidessero, era per Eugenio un puro caso, la
dimostrazione che una macchina - per essere precisa - doveva essere
impostata da un uomo preciso. Beh, lui lo era. Sul suo tavolo aveva una serie
di matite e penne ben assortite e perfettamente funzionanti, nella sua testa custodiva
una memoria fotografica per nulla disprezzabile, che gli consentiva di trovare
il posto di un libro su uno scaffale a occhi chiusi. Sul tavolo del ragazzo invece
mai una penna. Mai. Non scriveva, digitava.
La sera che venne per la prima volta Irina, il ragazzo non c'era, e
siccome lei veniva solo di giovedì, quando c'era l'orario
prolungato fino alle dieci, in realtà non si incontrarono mai. Fu Eugenio
a prendere nota dei suoi dati, penna e quadernone, lieve sospiro professionale
d'apertura :
"Irina? Il cognome scusa non lo leggo bene, cos'è, straniero?"
Origini slave, in Italia con la famiglia da molti anni. Fratellini nati addirittura
qua, in piena padania leghista. Padre verosimilmente manovale, lei commessa
al nuovo ipermercato. L'indirizzo era quello del quartiere popolare oltre
il ponte, dove il paese finiva e i tir prendevano l'arrancante strada
per il nord.
"Questa è la scheda. Ogni volta che prendi un libro lo segnerò
qua sopra. Lo puoi tenere soltanto un mese, poi lo devi restituire. Oppure chiedi
la proroga".
"Grazie, preferisco venire a leggere qua. A casa non c'è
mai un po' di pace".
Si metteva nella saletta di lettura, in fondo, dietro l'ultima fila di
scaffalature, lasciava per terra una sua borsa floscia di camoscio spelacchiato
e stava lì a leggere tenace e assorta rigirando una ciocca di capelli
attorno a un dito. Li aveva lunghi e scuri, con la riga in mezzo, dritti
come code di topo. Era insignificante, carnagione olivastra, viso asimmetrico
con la bocca sempre un po' increspata di imbarazzo, aspetto informe di
chi non bada a quello che indossa. Aveva detto ventidue anni, ma Eugenio
non avrebbe saputo giudicare. La vedeva arrivare, salutava timidamente
e si ritirava subito nel suo angolo. Il giovedì c'erano anche i
ragazzini della saletta Internet che andavano e venivano in un ronzio
operoso interrotto da rari scoppi di entusiasmo e da qualche mezza imprecazione
presto inghiottita. Non era l'orario più tranquillo per concentrarsi
su una lettura, ma era evidentemente l'unico che si conciliasse con i
ritmi di Irina. Eugenio si abituò a vederla e non la vide più.
Sì, è vero, ogni tanto la notava quando se ne andava, perché
spesso era tra gli ultimi ad attardarsi. Gli passava davanti al tavolo
dandogli la buonanotte sommessamente e lui non alzava quasi lo sguardo
per ricambiare il saluto.
Una sera quell'istante coincise con una repentina alzata di tono del brusio
degli informatici, che dovevano essersi coalizzati per espugnare qualcosa dentro
quella loro scatola di plastica. L'esclamazione di vittoria lo distolse
dal suo quaderno proprio mentre la ragazza gli mormorava grazie arrivederci
e già gli dava le spalle. C'era qualcuno con lei, un'amica
che era evidentemente venuta a prenderla mentre lui era concentrato sulle sue
carte. Di spalle, sembrava una vecchietta, con una gonna lunga fino alle caviglie
e uno scialle che la copriva largamente. Lo colpirono per un attimo la vista
di calze pesanti di lana e di scarpe fuori moda, e quel lembo di stoffa che
ricordava i tessuti per materasso, a larghe strisce panna e beige, di cui sembrava
fatto il vestito. Mentre la porta si richiudeva dietro di loro, gli parve di
cogliere fuggevolmente un profilo pallido e paffuto e dei riccioli biondastri
che sfuggivano da un'eccentrica cuffia. Chissà perché la
prima impressione era stata diversa. Non era vecchia, era probabilmente un'amica
con gusti stravaganti oppure un'altra extracomunitaria che si vestiva
con roba usata. Era novembre, e la nebbia le inghiottì appena fuori,
un metro oltre il lampione che illuminava l'ingresso della biblioteca
e che sembrava appeso al buio della notte.
Un'altra volta passò a prenderla un bel tipo, un gran bel tipo:
sempre di giovedì, sempre i ragazzini allucinati davanti allo schermo
lampeggiante, e loro due che passavano con lievità e pudore salutando
con un cenno del capo prima di sparire fuori, lungo la strada. Era un uomo grande
e grosso, forse suo padre, con una gran testa di capelli incolti e la barba
raspata in modo assai approssimativo; anche lui aveva dei problemi di guardaroba,
e indossava pantaloni ordinari tenuti su con bretelle e un paio di stivali da
porcaro. Anche l'odore ricordava un po' le bestie. Però nell'andarsene
lasciò ad Eugenio un lievissimo sospetto di sorriso, quasi di scuse per
la sua invadenza.
Gli amici di Irina non venivano mai più di una volta. Eugenio li vedeva
solo quando uscivano con lei, verso le dieci, e dopo un po' smise di chiedersi
che razza di gente frequentasse, perché con gli stranieri non c'era
da meravigliarsi. Ormai anche in paese c'erano tipi di tutte le razze
e le nazionalità. Forse tra loro si trovavano più a loro agio
che con gli indigeni. C'era per esempio quell'ometto basso e grassoccio,
ingolfato anche in primavera dentro quell'impermeabile stazzonato, occhialetti
da lettore pignolo, sguardo spento da uno strano dolore di vecchia data. Non
era certo il tipo mediterraneo. Non parlò, nell'andarsene, anzi
sembrava voler passare inosservato, uno su cui non soffermare l'attenzione.
Scivolò via con Irina nel tardo crepuscolo di un maggio. A Eugenio lasciò
l'impressione che fosse un insegnante. Lo chiese a Irina la settimana
dopo, mentre le vistava la scheda.
"Chi, George? No, è solo un amico. Però è vero
che a me insegna sempre qualcosa".
Allora quello si chiamava George. L'aveva detto, Eugenio, che era straniero.
Chissà gli altri, Avrebbe voluto continuare ma per principio non entrava
mai in relazione con i suoi simili, e si rimangiò le domande.
Col caldo, prima delle ferie, comparve quell'improbabile personaggio,
una creatura androgina dal viso smagrito di fanciulla e i capelli cortissimi,
allampanata in un paio di fuseaux color pervinca e una casacca che la appiattiva
ancora di più. Irina se ne andò via con lei (o lui?) prima del
solito orario, con l'aria di soffrire un lieve mal di testa, o magari
solo un blando senso di fastidio per i rumori di sottofondo che le avevano disturbato
la lettura. Aveva comunque delle rughe sulla fronte, come se si stesse interrogando
su qualcosa di scomodo, e il suo compagno (o la sua compagna?) non avesse saputo
aiutarla a trovare le risposte.
Ne passarono altri, uno in autunno vestito da becchino, in redingote nera e
occhi dardeggianti di vendetta repressa; sotto Natale una ragazza mantellata
di grisaglia, col pallore di un'orfana e lo sguardo febbricitante nel
viso dimesso; era Carnevale quando un principe biondo e triste con le
spalle rassegnate se la portò via, ad una festa mascherata di sicuro,
anche se non pareva molto felice di andarci.
Ed era di nuovo la bella stagione la sera in cui, al momento di chiudere, Eugenio
per la prima volta si accorse che la ragazza non era ancora uscita. I fanatici
del computer se n'erano andati da un pezzo sui loro motorini smarmittati,
i due pensionati avevano chiuso in patta la loro partita a scacchi, e Irina
era rimasta lì in fondo, nel suo angolo, a leggere. Doveva esserle passato
via il tempo senza accorgersene. Il bibliotecario si alzò dal suo tavolo,
ormai perfettamente rassettato per l'indomani, e cominciò il breve
giro della chiusura, tirando giù una dopo l'altra le tapparelle
e spegnendo le luci centrali. Nella saletta di lettura era tutto illuminato,
c'era ancora l'odore fermo dei tre o quattro lettori di quella sera,
c'erano due volumi abbandonati su uno dei tavolini, dimenticati dai soliti
disordinati, non certo da Irina che li rimetteva sempre al loro posto con cura.
Solo che non c'era lei, non c'era Irina. Non ce n'era traccia.
E' uscita prima e io non me ne sono neanche accorto, si disse Eugenio.
Strano però, di solito saluta sempre. E poi mi restituisce la scheda.
Non può averlo dimenticato. Una svista mia, di sicuro.
Ma no. No, caspita, c'è qualcosa che non va: quella lì sulla
sedia è la sua sacca di pelle scamosciata, semiaperta, buttata là
come si fa con le cose inutili... come può averla dimenticata? L'ho
vista tante volte estrarne la chiave della bici sulla soglia, e senza chiave
non può essere tornata a casa.
La bici. Controlliamo la bici.
Eugenio va fuori, in strada, sotto il lampione dove la bici di Irina sta agganciata
con la sua catena tutti i giovedì. E c'è. E' lì
al suo posto, lucchetto e tutto.
Lo sapeva, se lo sentiva. Allora, c'è la bici, c'è
la borsa... ma Irina dov'è?
La porta dei servizi, lo sgabuzzino in fondo al corridoio, è socchiusa,
l'interno è vuoto. E' come se avesse rimesso a posto il libro
che stava leggendo e poi fosse svanita.
Il libro che stava leggendo...
Cosa stava leggendo???
La scheda. La scheda, dov'è? Eccola, in ordine alfabetico, eccola
qua, due fogli di cartoncino graffettati insieme perché in un anno e
passa di libri ne ha letti proprio tanti. Lo sguardo di Eugenio scorre la lista
un po' come i ragazzini terribili fanno scivolare i loro velocissimi occhi
puntuti su quegli interminabili e tremolanti elenchi di sigle che attraversano
il monitor del computer... e fa delle scoperte improvvise, fulminanti eppure
così intuitive: autori, testi, narrativa, storia, letteratura di tutti
i generi, le epoche, le lingue. André Castelot "Maria Antonietta",
Gabriel Garcìa Marquez "Cent'anni di solitudine",
John Le Carré "La talpa", Virginia Woolf "Orlando",
Alexandre Dumas "Il conte di Montecristo", Charlotte
Bronte "Jane Eyre", Shakespeare "Tutto il teatro"...
e tanti altri che gli sono sfuggiti, che lui non ha visto uscire dalla biblioteca
con lei, per riaccompagnarla a casa, chissà quanti altri si è
portata via nelle notti d'inverno, nelle lunghe sere estive, dentro la
sacca, dentro il cestino della bici, dentro di sé. La regina Antoinette,
il colonnello Aureliano Buendìa, George Smiley, Edmond Dantès,
tutti gli altri sfuggiti dalle loro prigioni di carta e di rilegature, liberati
a vivere nel mondo della gente reale, più reali ancora.
Febbrilmente Eugenio controlla gli scaffali, saltando da uno all'altro
in cerca dei volumi mancanti, ma tanto sa già che non ne manca
nessuno, sono tutti al loro posto, allineati in ordine, perché
Irina li ha trattati bene, sempre. Non ha il coraggio di aprirli, perché
se per fortuna loro sono ancora là potrebbero - stavolta - scappare
davvero, e lui non vuole questa responsabilità. Poi si decide,
tremando, e socchiude a caso uno dei tanti che sono passati per le mani
di Irina : dalle pagine appena spostate esce un aspro odore di salsedine
e l'eco di una voce invasata rivolta al cielo da un altro oceano chissà
dove: "... che io venga trascinato a pezzi mentre ancora ti caccio,
benché sia legato a te, balena maledetta! Così getto la
lancia!"
Mio Dio, è Achab, è ancora lì. Sono tutti lì.
Tutti, tranne Irina.
La scheda, la scheda presto... Cosa stava leggendo stasera? Perché
mi ballano gli occhi? eppure basta guardare l'ultima riga... ecco
qua.
Ecco.
Trovata. Ora so dov'è. Non la troveranno mai. Io solo posso trovarla.
Si gira verso lo scaffale, piano, non ha più fretta.
Allunga la mano lentissimamente verso il dorso di un libro, quel libro.
Le sue dita, ora, stanno per toccarlo.
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