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Ci hanno tirato giù dai letti (o piuttosto, giacigli all’addiaccio)
praticamente all’alba. Soldati con spadini e stivali a punta, ottimi
argomenti in verità. “Via, via, lavarsi e vestirsi, ché oggi
passa il Re!”
Lavarsi, qui nessuno di noi neanche sa cosa voglia dire; ci hanno
pensato loro, i soldati, con secchiate d’acqua oppure scaraventando
direttamente nel fiume – sporco almeno quanto noi – quelli
apparentemente più incrostati.
Vestirsi, altra parola priva di significato. L’ultima volta che
ci siamo vestiti risale a quando abbiamo cominciato la nostra esistenza
di poveracci ridotti a vivere sotto un ponte. Nei vestiti, gli stessi
da allora, ci viviamo ventiquattr’ore al giorno e tutti i giorni
dell’anno. Massimo massimo, d’estate col caldo ci togliamo
uno strato, ma ce lo portiamo dietro nel fagotto perché non ce
lo rubino. I più malmessi di noi, quelli proprio a pezzi, hanno
ricevuto stracci nuovi. Stracci ma nuovi, con meno pulci insomma.
Così, con una parvenza di presentabilità ma senza rinnegare
il nostro stato di derelitti che sarebbe venuto buono per impietosire
il Re, ci hanno incolonnati verso le strade ricche della città,
un po’ a spintoni e un po’ a randellate, anche se le randellate
le avevano promesse solo a quelli che si fossero rifiutati. Hanno fatto,
insomma, un processo alle intenzioni e le hanno punite preventivamente.
Malgrado le abluzioni forzate, la gente che ci vedeva passare si tappava
il naso, e certi mocciosi ci hanno anche spernacchiati. I soldati si
sono visti costretti a interrompere sul nascere, caracollando sui loro
cavalli, un tiro di uova marce che avrebbe compromesso i nostri stracci
nuovi nonché attentato alle loro fiere uniformi.
Arriviamo stralunati e poco convinti alla piazza della cattedrale, dove
per le dieci è atteso il corteo del Re con tutti i suoi pennacchi
e le sue frange dorate. Avevamo bell’e capito – perché non è la
prima volta che ci succede – di essere stati reclutati per rimpolpare
le file di sudditi che avrebbero fatto ala al regale passaggio. Applaudire,
scappellarci (chi ce l’ha, il cappello), sventolare fazzoletti,
esibire in modo impudico la nostra commozione alla vista del sovrano
e la nostra indefettibile devozione al nostro signore e padrone, che
Dio gli dia lunga vita.
Una cosa che è successa più o meno a tutti noi, magari
non subito ma nel tempo, è che più si accentua il distacco
dalle nostre esistenze precedenti e più si diventa indifferenti
a quello che ci succede intorno. Siamo, possiamo ben dire, apolitici.
Ci frega assai, a noi, di chi comanda e come; se è giusto o ingiusto
(tanto è ingiusto comunque); se è un benefattore o un
ladro. Noi stiamo sotto un ponte, lui dentro una reggia: non ci si incontra
mai, se proprio non ci obbligano. E oggi ci obbligano. Siamo qui per
fare numero, e come numero siamo un numero più che rispettabile
(su questo, casomai, ci sarebbe di che far riflettere il nostro caro
Re, ma è un pensiero molesto che lo affliggerebbe ancora più di
quanto non affligga noi. Povero Re.)
Sempre a spintoni e randellate ci dispongono secondo le nostre specializzazioni:
gli storpi, i deformi e i mentecatti in prima fila, accovacciati o appesi
alle grucce, perché suscitano pietà e può scapparci
un lancio di monete sulla folla; i pazzi e gli scalmanati subito dietro
perché sono quelli più esperti nello sbracciarsi e gridare
le lodi del sovrano; e ci avvertono neanche tanto gentilmente di non
muoverci di lì finché non riceveremo ordini in proposito
(ordini che probabilmente avranno la forma di nuove randellate) anche
per non perdere il diritto al pasto gratis che forse la magnanimità della
sua graziosa maestà vorrà offrirci a fine servizio.
Non avendo particolari impegni per la giornata, ci siamo messi lì tranquilli,
rassegnati e pronti. Per la prima ora di attesa, avevamo ancora dentro
di noi una specie di lurido orgoglio corporativo per l’esibizione
che andavamo a offrire, sempre che ci si possa sentire orgogliosi di
essere degli straccioni, dei morti di fame e degli avanzi di galera pieni
di piattole e di pustole. Ogni tanto facevamo delle prove per mettere
a punto la vigoria dell’entusiasmo che avremmo sfoggiato al passaggio
del corteo, e gli storpi facevano vocalizzi per allenarsi a emettere
i lamenti più convincenti.
Arriva mezzogiorno e la gente, come i soldati e i loro cavalli, comincia
a sudare sotto il sole, ma in fondo alla strada ancora non appare nulla.
Il Re è in ritardo. Chi, fra quei bravi sudditi, si è premunito
con un fagottino portato da casa, comincia a sbocconcellare pane e salame
e a scolare fiaschette di acqua e vino. Noi non avendo casa non mangiamo
niente e cominciamo a languire più e meglio di prima, come del
resto ci è richiesto per rendere più plausibile la nostra
presenza.
Alle due c’è chi gli prende il sopore postprandiale, chi
si innervosisce – ma timidamente – e chi avanza scuse pietose
per tornarsene a casa. Noi tutto questo non possiamo permettercelo e
restiamo al nostro posto, incastrati del resto fra le transenne e un
cordone di armigeri che ci sorveglia. E poi con una vita temprata come
la nostra siamo campioni di resistenza e di fatalismo: perfetti per fare
le comparse senza mangiare e senza bere anche per dieci ore filate sotto
il sole o la neve. Godiamo ineffabilmente, però non lo diamo a
vedere, quando qualche bel soldatino, impettito fin dal mattino, plof,
di botto si accascia svenuto. A noi non succederebbe mai, siamo allenati,
ma questo il Re non lo deve sapere.
Alle cinque l’arcivescovo mugugna piuttosto platealmente perché c’erano
da cantare i Vespri ma finché non passa il Re non se ne parla.
Mentre lui mugugna, c’è chi non la tiene più e fa
pipì contro il portone della cattedrale. Noi godiamo beffardamente
anche di questo, perché l’arcivescovo, con tutti i suoi
rubini e lapislazzuli, mai una volta che mandi un pacco-dono ai più miserabili
del suo gregge.
Poi finalmente, verso sera, eccolo che arriva, il Re. Eravamo rimasti
ormai solo noi, con i soldati che vacillavano e si tenevano svegli giocando
a carte. Sentiamo questo rombo che si avvicina, ed eccoti la carrozza
che appare in mezzo a una nube di polvere e di sassi schizzati, correndo
al galoppo forsennato. Questione di un attimo, neanche il tempo di sbracciarsi
e urlare a dovere, ed era già passata, lasciandoci la visione fugace
del Re che con una mano si teneva la parrucca e con l’altra il
mantello svolazzante; non gli restavano altre mani né per salutare
né, figuriamoci, per lanciarci monetine. La scorta non gli teneva
dietro, tanto che l’ultimo dei cavalieri, colpito in fronte da
un ciottolo, è caduto ed è stato portato via tutto rintronato,
mentre il cavallo scosso prendeva un’altra strada e a quest’ora
avrà attraversato le frontiere.
Così finalmente abbiamo potuto tornarcene sotto il nostro ponte,
più sbrindellati e a digiuno di come ne eravamo partiti. Nessuno
ci ha scortati, stavolta: ci hanno semplicemente sbolognati, ignorati,
siamo tornati a essere invisibili, praticamente inesistenti.
Con gli stracci nuovi abbiamo acceso un fuoco e con le bucce di arance
lasciate per terra dai bravi cittadini abbiamo cenato.
Il Re si era dimenticato del corteo. Svegliatosi troppo tardi dopo aver
fatto le ore piccole con la moglie del capocuoco di corte, aveva cercato
di rimediare con quella corsa folle, ma ormai nessuno lo aspettava più.
Solo noi, i Reietti del regno, abbiamo visto il Re.
Povero Re. E povero anche il cavallo.
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