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Se ne stanno andando tutti, poco per volta. Ripartono con facce corrucciate e
gesti secchi, quasi con fretta di dimenticare; eppure erano arrivati spavaldi
e vocianti, con abiti a colori e lievi sciarpe, e con un ardore negli occhi. Ora
è come se la malinconia della partenza mettesse loro addosso una stanchezza
un po' malata e ne spegnesse la luce. Ripartono ingobbiti, grigi come le
città che raggiungeranno, e con un'aria di sconfitta, quasi, che
non hanno energie per dissimulare. Anche i bagagli che transitano per i corridoi,
lo scalone, l'ascensore, hanno un aspetto invecchiato: le valigie che brillavano
di cuoi e ottoni hanno preso un'opacità floscia nel chiuso degli
armadi foderati, e le cappelliere hanno qualche angolo ammaccato.
Così finisce l'estate, con questa pioggia prima esitante ieri sera
dopo la cena, poi da stanotte più insistente e monotona: una pioggia decisa,
che suona nitida sul selciato dei vialetti e sulle tettoie della veranda sul mare.
La famiglia austriaca, con molti bambini e nonni e goffe governanti, è
partita appena in tempo: il direttore li ha salutati dalla soglia, mandando due
inservienti ad aprire gli sportelli delle auto. I pochi rimasti stavano già
rientrando da passeggiate abbreviate, contrariati per l'umidità che
sgualciva e intirizziva i loro bei completi estivi. Fino alle sette hanno vagato
per le sale a pianterreno, con aria delusa o stizzita, e si sono fatti servire
cose di cui non avevano, credo, una reale voglia: tè, soprattutto, le signore,
e gli uomini liquori forti poco adatti all'orario ma consolatori. A cena
erano rimasti in pochi, una dozzina forse, dispersi nel salone fra i molti tavoli
vuoti; e chi ha tentato due passi prima di salire si è scoraggiato già
al cancello.
Stamattina il cielo è di un grigio denso e odora forte di salmastro; i
giornali sono arrivati più tardi, e qualcuno si è lamentato perché
la carta era umida. Il dottore del 311 è sceso da solo, già vestito
da città, ma era per andare in paese all'ufficio postale; sua moglie
si è presentata a colazione più tardi, con un foulard e degli occhiali
scuri che nascondevano i segni di un'insonnia. Era seccata. Mi ha mandata
a chiamare perché salissi ad aggiustarle i capelli. Era molto nervosa,
non è stato piacevole. Quei due sono qui da due mesi, e non si decidono
ad andarsene: se è per risolvere qualche loro problema che hanno deciso
questa lunga vacanza, beh non devono esserci riusciti.
Noi comunque stiamo per chiudere. Da domenica prossima, il Grand Hotel resterà
vuoto per molti mesi, se mai riaprirà. Fa una strana impressione, in questi
ultimi giorni, percorrere i corridoi felpati, le scale deserte, i salottini abbandonati.
Si è affievolito il tintinnio dei vassoi e il fruscio degli abiti da sera.
Dalle stanze chiuse non giungono più le voci degli ospiti che si preparano
per le feste danzanti, i profumi delle signore, gli scrosci d'acqua nelle
vasche lussuose. I velluti si vanno impolverando, i lampadari si incoronano di
ragnatele appena percettibili, gli specchi sembrano spegnersi, opachi.
Quando se ne saranno andati tutti (e lo so, per allora non avrà ancora
smesso di piovere), il tempo tornerà come deve essere, da queste parti,
a settembre: cieli dorati e risacca calma e tersa, e nell'aria il forte
profumo dei pini marittimi. Daniel e io saremo liberi di dormire un po'
di più e un po' più insieme; di rimettere i nostri comodi
vestiti preferiti e passeggiare sulla battigia lucida di alghe parlando dei nostri
giovani sogni. Abbiamo messo da parte abbastanza, forse ora si può pensare
di aprire quel piccolo bistrot e anche, perché no, di fare un bambino:
sua madre dice che ci aiuterebbe a tenerlo, mentre io sono al lavoro. Sarà
bello lavorare insieme, lui in cucina, io ai tavoli, e la sera sederci in un angolo
a fare conti e altri progetti. Lavorare non ci spaventa, siamo forti e felici.
Abbiamo vent'anni. E' il 1939.
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