|
Di quella casa si innamorò per i molti difetti.
Perché era troppo grande e malandata, e piena di cose da rimettere a posto.
Perché non aveva odore di pittura fresca ma di vecchia cenere di caminetto,
e anche un po' di muschio.
Le imposte si aprivano a forza strisciando sui davanzali e scrostando schegge
di vernice opaca. Volavano giù piano foglie secche, escrementi di uccelli,
polvere di carbone. Su quelli del salotto c'erano due cerchi di un rosso slavato,
impronte di vasi di coccio che avevano contenuto fiori.
La luce estiva entrò a lame lunghe e rettangolari fino ai battiscopa tarlati
e mise in movimento una spirale di pulviscolo.
Il secchiaio di cucina e la vasca in bagno erano di ceramica ingrigita, macchiati
come di vecchia malattia. Le porte cigolavano affannandosi, una si apriva solo
spingendo con decisione e poi si fermava con un sussulto contro un radiatore sporgente.
Tutto quello spazio vuoto, quei pavimenti scoloriti, il parquet rigonfio.
E il caminetto che pareva più vecchio della casa stessa, di una pietra
grezza e incompiuta, come se fosse esistito da prima e ci avessero costruito le
pareti tutt'intorno.
Ovunque un odore tra l'acre e il dolciastro, di rifiuti e di divani sudati, di
vita già passata e lasciata lì in memoria, in dono a chi volesse
sostituire i propri ricordi con quelli di chi aveva già vissuto i suoi.
Ma soprattutto quel quadro, quel quadro che non c'era ma c'era il segno sfumato
di nero sul bigio della parete, proprio al centro; un quadro che doveva essere
stato grande e importante, e chissà se anche bello. La domenica e i giorni
di festa, le famiglie avevano pranzato in quella sala, sotto gli occhi del loro
quadro, forse stretti vicini attorno a una tavola di natale o di battesimo,
e più avanti nel tempo magari due sedie sole, una di fronte all'altra,
per una coppia di vecchi di poche parole e piatti scarsi, ma ancora affezionati.
Ognuno degli abitanti precedenti doveva averci visto scorrere dentro momenti
e anni interi della propria vita, fissata nella tempera di un paesaggio di lago,
o di un ritratto.
"Quella parete non toccatela - disse
il giorno dopo agli imbianchini - me la tengo così".
Stava raccogliendo brandelli di giornali e riavvolgendo pezzi di spago, e pensava
incerta "...o magari me ne comprerò un altro, che parli solo a me".
Sistemò il tavolo in mezzo alla stanza e ci appoggiò sopra la
macchina per scrivere, un pacco di fogli, un barattolo con le penne e le matite.
Un posacenere col Colosseo.
Tirò fuori dalla cartella molti altri fogli già scritti, tutti
quelli che avevano traslocato con lei, e li gettò nel caminetto spento.
Chiuse definitivamente la porta che si incastrava, quella che avviava ad un
corridoio lungo e senza luce dove si aprivano altre stanze vuote e inutili.
Lì avevano amato, dormito e sognato altri amori, altri sogni. E lei aveva
bisogno di un posto molto più piccolo per contenere i suoi.
"Il letto allora dove lo vuole?"
Lo fece mettere di fronte alla finestra, e la poltrona addossata al muro esattamente
sotto il segno della cornice vuota.
Quando gli uomini furono usciti tutti, le rimase il resto, le cose sue che già
avevano cominciato da sole ad appartenere alle braccia della casa. Le ritrovò
intorno a sé, familiari ma ormai parte di quelle pareti e angoli e battenti,
sistemate a istinto in posti riconosciuti. Al sicuro, per un po'.
A sera, si lavò la polvere che si era portata dietro sotto il getto dell'
acqua di un grosso rubinetto che scrosciava e a tratti si inceppava in impreviste
bolle d'aria. Poi si distese sul letto coi vestiti addosso e le venne un pensiero
di quelli che fanno sorridere e si perdonano da soli:
"Sarà la prima notte di quiete?"
Il soffitto non rispondeva, ma mentre avanzava il buio pareva ondeggiare con
lenti respiri giusto all'incrocio delle pareti, sveglio anch'esso come lei.
Verso mattina, quando un chiarore a strisce scivolò fra le persiane e
soffuse le pareti, girò il viso verso il quadro, cercandolo.
Lo vide, finalmente, e non era un quadro.
Era uno specchio.
E capì perché non si poteva togliere dal suo posto.
Allora si alzò a piedi scalzi e andò al tavolo, infilò
un foglio bianco nel rullo della macchina, lo raddrizzò per bene, poi
accese un cerino e lo gettò nel caminetto guardandolo senza incertezze
mentre si appendeva ai bordi dei fogli gettati molte ore prima.
Non aspettò di vederli bruciare.
Tornò a stendersi, stavolta girata su un fianco e con un braccio sugli
occhi, e finalmente si addormentò, perché era giorno.
torna a Racconti
|