|
La stanza, me lo ricordo, aveva contenuto armadi.
Solo armadi, molti, lungo tutte le pareti. Era una grande stanza solo di armadi.
Anche adesso che per la prima volta guardavo il grigio dei muri vuoti e le ragnatele
a vela appese sbilenche, continuavo a vedere tutti quegli armadi in fila, alti
fino quasi al soffitto, che però era ancora più alto e più
grigio e più sfumato e sfocato, e molto più lontano insomma.
Erano armadi per tutte le stagioni, e uno diverso dall'altro. Tra lo spigolo
netto di uno e la stondatura di quello vicino, nella fessura profonda il tempo
di molti anni, gli anni di molte vite e le vite di molte persone avevano calato
la loro polvere, a cenci, a squame, a sabbia.
A entrarci la sera, nella sola luce del corridoio, si intravedeva il luccichio
stanco delle maniglie e dei pomoli, tenuti lustri come reliquie di chiesa dal
passaggio di molte mani. Anche questo mi ricordo, e che il lampadario era stato
una larga coppa di opale rosa appesa con quattro catenelle, ma di esso appunto
solo il ricordo restava e al suo posto penzolava una lampadina nuda e provvisoriamente
fulminata da tanto tempo.
Passando la mano sulle ante fumose - di noce biondo, di fulvo ciliegio -,
scorrendo le dita sui solchi delle modanature e intorno alle borchie d'ottone
delle chiavi, si carezzava ciò che stava dentro, dentro gli armadi delle
generazioni.
Vestiti e cappelli. Scarpe e borse. Cassetti di camicie e sciarpe.
Vedevo i colli di pelliccia, i mantelli da brigante, le marsine e i grembiuli,
gli strascichi di raso, le spalle imbottite da generale. Il bianco delle spose
e dei battesimi, il nero dei funerali e dei teatri. I fiori, i pois, l'organza
e il sangallo delle belle stagioni; il feltro delle giacche d'inverno, gli
alamari di cappotti verde-bosco, una gardenia mummificata su una scollatura di
velluto blu notte.
E i cappelli, le velette, le bustine, i baschi, i panama sbiaditi dalla spiaggia,
tutti con un'aura di profumo attorno, dolciastro e tenero come cipria di
una volta, che copriva definitivamente lo stantio dei vecchi sudori.
Nei cassetti, vite piegate a camicie, a pigiami, a sottovesti, a calzettoni da
montagna, a panciere di lana e calze di seta; scarpine da sera e guanti di capretto,
fazzoletti lisi con iniziali di tutto l'alfabeto.
E quella scatola di cartone foderata con gelosia e chiusa da un nastro stinto...
sopra c'era scritto SEGRETI.
Tutto quel che non c'era più era ancora lì, c'erano
odore e densità stampati sui muri invecchiati.
Ma la stanza era vuota, ormai. Vuota.
Restava solo quel tavolino sotto la finestra senza più tende.
Un tavolino da cucito, o da gioco, o meglio da scrittura.
Un piano di radica con qualche fessura tagliente e macchie d'inchiostro
come farfalle e cerchi di bicchieri.
Un cassettino solo, che scorre male.
Dentro, una scatolina di latta da mentine con la figura di una bambina che ride,
guance gaie e codini castani.
Ci custodivo una cosa mia, importante, per non perderla.
Infatti, è vuota.
torna a Racconti
|